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che la definizione stessa dipende dalla origini, storia, background culturale del popolo a cui si riferisce.

Richiamate sinteticamente tali premesse, nel caso francese, appunto, la nozione di “aménagement du territoire” è quindi legata alla genesi storica ed alle caratteristiche del territorio su cui agisce e della sua comunità. Inoltre, ciò che assumiamo essere, nel tempo presente, una definizione di esso, è frutto di secoli di sviluppi ed eventi, che fanno sì che a tale termine si aggiungano ed interferiscano tematiche che divengono via via più prossime e collegate (per esempio, i cambiamenti clima- tici, la sostenibilità, ecc.).

Per quale motivo allora, affrontare nuovamente l’ipotesi di uno sguardo rivolto utilmente al vicino di casa, in epoca di riforme sostanziali del vivere e del con-vivere.

L’interesse della riflessione che impernia questo paper non attiene tanto alla prossimità geogra- fica Italia-Francia e nemmeno alla possibilità di un confronto diretto sui risultati/ricadute ottenuti o no in seguito a significative azioni di governo. La curiosità riguarda piuttosto l’op- portunità di svolgere riflessioni comuni proprio a partire dalla comune identificazione dei bisogni: un capire insieme, quindi, che nasce dal riconoscimento di necessità convergenti di interpretare, conoscere, comprendere, le dinamiche dei propri territori e quale domanda emerge da essi.

Cosa li accumuna?

A nostro modo di vedere, essenzialmente due aspetti, che vengono richiamati sinteticamente nelle conclusioni, previa una breve cronistoria per poter comprendere meglio i caratteri del processo avvenuto.

Intercomunalità e metropolizzazione nell’evoluzione storica francese

In Francia, da un punto di vista storico, si può parlare di governo del territorio dagli anni ‘50, ovvero da quando si intende per esso un preciso settore di attività nella gestione dello spazio racchiuso tra i confini nazionali da parte dello Stato. Certamente, operazioni di pianificazione del territorio, a vari gradi, erano già presenti e praticate implicitamente ante-litteram, ma è durante quegli anni che si fonda esplicitamente e si sviluppa l’importante

riflessione accademica e normativa che arriva fino ai nostri giorni. Dopo la seconda guerra mondiale, fu creato il Ministero che si occupas- se della Ricostruzione e dell’urbanistica e pro- prio in quel periodo, per la rima volta, si parla esplicitamente di attività di governo del terri- torio: chiaramente, nel dopoguerra, l’accento di quella complessa iniziativa rifondante la so- cietà post-bellica era ridonare le condizioni di habitat necessarie alla vivibilità e all’impiego. Già in quel contesto, si fece cenno alla ecces- siva concentrazione dell’Ile de France, come elemento di distorsione rispetto al territorio dell’esagono, tema questo che diverrà uno dei capisaldi della politica territoriale francese nel corso del secolo. Per tal motivo, cominciano in quegli anni i primi tentativi di “ridistribuzione” industriale delle attività nel resto della nazione, al fine di limitare lo sviluppo produttivo attorno a Parigi, già pressante e parallelamente pro- muovere l’installazione degli impianti altrove. La pianificazione territoriale si “mischia” quindi fin da subito con le politiche istituzionali industriali e ne dà attuazione attraverso una programmazione economica periferica, per cui vengono istituite nel 1956 le 22 circoscrizioni regionali metropolitane (nel ‘60, 21), i relativi programmi di azione regionale e il Comitato interministeriale permanente. Dalle origini si nota come la “decentralizzazione industriale” sia un punto caratteristico della pianificazione francese, che ha, fin dal suo nascere, e diffe- rentemente dall’evoluzione italiana, strettamen- te legata alla programmazione economica, alla promozione dello sviluppo economico legato al territorio, sebbene tali azioni siano in- centrate proprio su una costruzione “artificiale” di luoghi idonei alla polarizzazione industria- le. Di qui nascerà una fiorente letteratura presa ad esempio in moltissimi ambiti accademici e le cui ricadute saranno particolarmente eviden- ti nella individuazione dei poli e delle regioni dello Schema di Sviluppo dello Spazio Euro- peo della DATAR (Délégation à l’aménagement du Territoire et à l’action régionale).

Il momento forse più di auge della disciplina fu appunto quello ascrivibile alla nascita della DATAR all’inizio degli anni ‘60, direttamente referentesi al primo ministro, in quanto, in allora, per “territorio” si intendeva il “territorio nazionale”. Tuttavia, dalla firma del trattato dell’Unione, si registra una minore influenza

odierna dello Stato nelle questioni riguardanti il governo del territorio a vantaggio delle poli- tiche gestite a livello europeo; all’agenzia di al- lora fu addirittura cambiato il titolo (dal 2014, Commissariat général à l’égalité des territoi- res). Dietro al cambiamento di impostazione del settore e delle sue modalità, si avvicendò lo sviluppo di una diversa concezione e compren- sione dei fenomeni, e quindi anche l’ipotesi di una sostituzione del vocabolo. Tuttavia, pur non attribuendo al termine “aménagement du territoire” un significato generico ma indicando quello di esclusiva competenza dello stato, ad esso può fare opportunamente riferimento: l’attività del legislatore in alcune leggi-quadro in materia, l’erogazione dei finanziamenti in maniera ordinaria o straordinaria verso le collettività locali ed infine la predisposizione di politiche di sviluppo e di settore che attengono al livello centrale (politiche si viluppo rurale, poli di competitività…)

In questo filone culturale, si innesta l’atten- zione per le politiche regionali e la tematica del riequilibrio, appunto, regionale. Già nel 1962-64, la riflessione circa la diversità delle regioni costituenti il territorio nazionale diventa azione dello Stato nel proporre programmi differenziati e armonizzati e l’idea di “villes nouvelles” che servano a fornire una maglia urbana parimenti a quella delle altre nazioni europee, capaci di coinvolgere anche il territo- rio retrostante. Il fine ultimo è comunque la as- sicurazione del potere dello stato sul territorio, ancora prima dello sviluppo stesso: questo sarà uno dei punti chiave che, fra le caratteristiche peculiari del sistema francese, verrà in seguito approfondito.

Sviluppo endogeno, teoria dei poli di crescita ecc. sono ancora oggi temi di dibattito acceso, i cui interrogativi hanno avuto ancora mag- giore spazio a partire dal processo di resca- ling europeo, in quanto, da un lato, i modelli ritenuti validi per lo sviluppo dei singoli stati verranno poi impiegati scalarmente anche a livello europeo; dall’altro, poiché il substrato amministrativo e legislativo precedente alla re-territorializzazione europea costituirà un pre- supposto “resistente” ai successivi cambiamen- ti, mal sposandosi con i cambiamenti federativi della Unione.

Al referendum del 1969, la Francia vota no alla decentralizzazione regionale. Si capisce

come, fin da allora, si era trattato di una “rifo- calizzazione” industriale (molto smile a quella avvenuta tramite le ZIPs, zones industriale por- tuaires) più che di un decentramento di poteri di tipo amministrativo alla dimensione locale: l’interesse era piuttosto consolidare Parigi, liberando altre funzioni sul territorio nazionale. La programmazione economica nazionale, sia francese che italiana, si pose in quegli anni l’obiettivo di dispiegare i poli di crescita (Parigi così come per il triangolo industriale Milano-To- rino-Genova) e di generare nuove polarità nelle aree periferiche con l’obiettivo di incre- mentare lo sviluppo e di limitarne gli squilibri territoriali. per innescare progressive dinami- che, si riteneva fosse sufficiente installare una “impresa motrice” con l’idea che essa avrebbe creato automaticamente un “effetto domino”. Il richiamo della forza lavoro avrebbe prodotto la nascita di “attività locali” e si servizio e con- seguentemente la richiesta di nuovi investimenti in infrastrutture, secondo un processo circolare e cumulativo ritenuto in grado di far decollare i territori interessati, se opportunamente sostenuti dallo Stato e dalla grande industria privata. Tale impostazione, durante gli anni ‘80 ha una svolta: i piani quinquennali di sviluppo regio- nale da poco istituiti vengono abbandonati dal- lo Stato, ma intrapresi e decisi dalle regioni. Il decentramento diventa realtà negli anni ‘80 ma pur sempre con la matrice napoleonica alle spalle: la maglia amministrativa polverizzata consentiva di governare al meglio, tacitando le velleità rivoluzionarie, cosi come di assicurare una efficacia di presidio capillare, funzionale al potere centrale. Il decentramento regionale non è mai stata quindi un tratto spiccatamente francese (come italiano del resto), perché emer- gente non per il riconoscimento di una realtà socio-politica esistente dal basso, ma piuttosto per una visione amministrativa “modernista” di governo dall’alto. Allo stesso tempo, si può affermare che lo sviluppo economico declinato a scala regionale, ma da parte dello Stato, è stato fin dalle origini una delle caratteristiche principali del sistema francese (un regionali- smo economico si potrebbe definire), pur nella sua illusione razionalista di “geometrizzare” ordinatamente lo spazio, imprese ed addetti. Le istanze che portarono al decentramento amministrativo degli anni ‘80 nacquero invece dal disagio diffuso, soprattutto accademico,

derivante da un modo di governare dello Stato troppo centralista, dirigista e tecnocratico, specie in merito alle questioni economiche. Il processo di decentralizzazione degli anni ‘82- 83, così come quello di intercomunalità delle leggi degli anni ‘90 e di metropolizzazione fino ai nostri giorni corrispose invece, secondo alcuni autori, ad una nuova necessità, quella di individuare nuovi attori a livello intra-stata- le che si occupino del governo del territorio. Seppur all’interno di un quadro fortemente statalista, la concezione di uno sviluppo mag- giormente territorializzato, con la promozione e l’investimento in progetti locali ha portato comunque ad una maggiore autonomia delle collettività coinvolte nel processo di decentra- mento. L’interesse per l’attivazione di soggetti locali dal basso attraverso l’aggregazione è una connotazione che coinvolge soprattutto il tema dell’intercomunalità, come mezzo e fine del governo del territorio. In essa infatti si tro- vano alcune differenze significative, rispetto al modello dei poli. ciò che la contraddistingue, innanzitutto, è che l’approccio alla mitigazione degli squilibri territoriali parte dal territorio stesso: cioè si uniscono le forze in campo, alla ricerca di “relazioni scalari”, che, come tali, possono essere variabili e flessibili, non imposte a priori.

Tra queste iniziative (decentramento regionale, metropolizzazione e intercomunalità), infatti, proprio quella dell’intercomunalità è la più ampiamente riconosciuta, anche il letteratura, come politica di successo. Perché?

Conclusione: una possibile chiave di lettura L’esperienza francese sull’intercomunalità fa vedere bene quanto la prima sfida delle società che vogliano dirsi moderne è la lotta contro la frammentazione. Il baratro di società non coese e quindi per questo, contrariamente a quanto affermato nell’era napoleonica, non governabili, fa rifuggire da un’ipotesi non riaggregativa del territorio, internamente ed esternamente. L’incentivo alla intercomunalità come una scelta a vantaggio di tutti (di chi si aggrega e di chi governa gli aggregati) va studiata nella sua attualità, oggi, come risposta alla crisi identitaria ed alla rifondazione di radici solide su cui basare la convivenza civile. Di fronte alla frammentazione comunale, la

Francia rispose con le tre leggi sull’intercomu- nalità che ancora oggi la contraddistinguono: può essere questo un fattore di lungimiranza particolarmente utile oggigiorno come rispo- sta alle sfide attuali? Molte riflessioni circa la metropolizzazione concernono soprattutto il rapporto con le regioni e le frizioni territoriali fra livelli (comuni, province, regioni): ma la metropolizzazione non nasce forse dall’esigen- za di combattere la frammentazione? Sociale ed economica, prima ancora che geografica e territoriale.

Non è forse stato assai acuto aver risposto ante-litteram ai problemi identitari (che sareb- bero sfociati dopo nel passaggio alla europeiz- zazione e alla globalizzazione) mediante la proposta di perimetri aggregativi? Non è stato forse particolarmente profetico l’aver risposto con un “mettersi insieme”, anche istituzionaliz- zato, all’indebolimento del legame dei territori? Questa appare nuovamente la posta in gioco anche nel processo di istituzione/concretizza- zione delle odierne metropoli: la partita della coesione infra/fra comunità. La risposta fran- cese, avviata in tempi non sospetti, é quindi particolarmente importante per questo. Qui sta il primo aspetto degno di considerazione. Veniamo alla seconda motivazione. Il legame territoriale non può essere “fabbri- cato”, ma solo supportato. La comunità esiste prima del livello amministrativo a cui la asso- ciamo: in qualche modo, è necessario avvertire l’esigenza di un mutamento istituzionale prima che lo si imponga dall’alto. Le istituzioni nasco- no a servizio delle comunità, affermano la loro precedenza, ma allo stesso tempo ciò che vie- ne istituzionalizzato come livello amministrativo acquisisce immediatamente potere e riconosci- mento e può essere preda di chi non lo guida correttamente. Si può eliminare questo rischio? No. Non può essere e non potrà mai essere eliminato. Non è la collegialità delle decisioni, non è la definizione di materie concorrenti che elimina il rischio di abuso, di preminenza. Non si può pensare a de-istituzionalizzare le istituzioni perché possono essere cattive. A questo punto del ragionamento, già si in- travvedono due elementi tipici della modernità (o post modernità come spesso ormai viene chiamata). Uno: la necessità di aggregarsi per far fronte ai bisogni, come scala obbligata per il tenore e la natura delle sfide (es. globaliz-

zazione) e la difficoltà ad attualizzarle. Due: la sfiducia nei confronti delle istituzioni, tipica delle società democratiche mature.

La metropolizzazione tende a rispondere a questi interrogativi, interpretando i tempi moderni dall’interno delle proprie caratteristi- che antiche di ordinamento, delle dinamiche osservate intorno... Non è solamente una sfida economica, ma una necessità di aggregazio- ne per fare fronte comune, per creare valore aggiunto, per consolidare i legami solidali. É il non aver capito questo, insieme a difficoltà strutturali dovute alle radici dell’ordinamento a tutt’oggi ancora un po’ ingessate, che fece naufragare il progetto di aree metropolitane ex legge 142/90. Ridurre il processo in atto a mero esercizio amministrativo senza connet- terlo con le sfide reali e globali é come deca- pitarlo, perderne l’origine. Anche la Francia che l’ha ideato potrebbe perderlo. Allora può valer la pena riprendere il cammino con chi lo intraprende oggi: l’Italia si affaccia a questo tema carica di precedenti legislativi mancati, ma anche disarmata in quanto a concrete esperienza, eccetto in alcuni casi.

Chissà che nell’accompagnare il processo ita- liano di metropolizzazione anche la Francia ne recuperi le basi per quell’intuizione che ebbe all’inizio: e necessario correre il rischio di met- tersi insieme, rifondando passo a passo i lega- mi della convivenza sociale. Occorre rischiare di attribuire alle metropoli competenze reali nell’amministrazione dei territori, partendo dal principio di sussidiarietà correttamente applica- to, non interferendone o limitandone l’autorità per paura di squilibri egemonici. Questo fareb- be solo rimanere in mezzo al guado.

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