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ABOLIRE LA PROPRIETA' INTELLETTUALE?

3.11 “CHI TROVA UN BREVETTO TROVA UN TESORO”

3.13 L'INDUSTRIA FARMACEUTICA

L'industria farmaceutica merita un paragrafo a sé perchè è da sempre stato ritenuto il settore più bisognoso di tutela della PI, in quanto la produzione di un farmaco è molto costosa a causa di processi lunghi e costi fissi per l'innovazione elevati.

Negli USA è stato da sempre possibile brevettare i prodotti chimici e di conseguenza i farmaci, alla stregua delle altre innovazioni. A partire dalla legge Hatch-Waxman70 del

1984 sono state ammesse delle estensioni della durata dei brevetti sui farmaci, dai 3 ai 7 anni, oltre la normale durata ventennale del brevetto. In quasi tutta l'Europa continentale, fino ad anni recenti, si poteva brevettare soltanto il processo per la produzione di un farmaco, così da poter ottenere lo stesso prodotto attraverso un diverso processo non brevettato: le innovazioni di processo erano così molto stimolate. L'iter legislativo di Francia, Germania, Svizzera, Italia, Spagna ha avuto uno sviluppo pressocchè simile. Partendo da un’assoluta mancanza di tutela brevettuale dei farmaci, tutti questi paesi hanno consentito via via la possibilità di brevettare dapprima solo i processi e in ultima fase, anche i prodotti (ossia la formula chimica del farmaco). La Germania è stata il primo paese ad introdurre una legge che ammettesse la brevettabilità dei prodotti farmaceutici, in aggiunta ai processi, nel 1966, seguita da Francia (1966), Svizzera (1977), Italia (1978) e Spagna (1986; tuttavia la legge iniziò ad essere applicata solo nel 1992) (Boldrin e Levine, 2012). A livello internazionale la tutela dei prodotti farmaceutici è avvenuta dapprima ad opera della Convenzione dell'Unione di Parigi del 1883, successivamente con il Trattato di Cooperazione in materia di Brevetti (PCT) del 1970. La Convenzione di Monaco promulgata nel 1978 ha definito una nozione di “brevetto europeo”; infine, in seguito a modifiche dell'accordo originale, nel 1975 si giunse alla Convenzione per il brevetto comunitario firmata a Lussemburgo. Ma il progetto per la creazione di un brevetto europeo non era terminato: pertanto si continuò ad affinarne la normativa (il 1995 è l'anno dell'entrata in vigore dell'Accordo TRIPs) fino al 2000, anno in cui fu approvata una proposta per una regolamentazione comune, tuttavia non ancora conclusiva.

In aggiunta alla tutela brevettuale, nello spazio economico europeo (composto dai paesi UE più Islanda, Liechtenstein e Norvegia) è stata introdotta una protezione aggiuntiva (di massimo cinque anni) dedicata ai prodotti farmaceutici (Regolamento

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La legge Hatch-Waxman ha esteso la durata della protezione accordata da un brevetto al fine di evitare che i lunghi processi di sperimentazione e autorizzazione del farmaco riducessero il tempo utile del godimento dell’esclusiva (che è la funzione attualmente svolta, nel contesto europeo, dagli SPC: vedi più avanti) e ha introdotto un’esenzione che consente ai produttori di farmaci “generici” di richiedere l’approvazione della locale autorità regolatrice (la Food and Drug Administration) per condurre gli esami clinici sulla versione “generica” (nonché la produzione di quest’ultima) già in pendenza di un brevetto non ancora scaduto (che è l’obiettivo cui è finalizzata la proposta riforma degli SPC) (Portonera, 2019).

CEE n. 1768/1992, poi sostituito dal n. 469/2009) e ai prodotti fitosanitari (Regolamento CEE n. 1610/1996), con il c.d. certificato protettivo complementare71

(Supplementary Protection certificate, SPC). La tutela offerta dal SPC subentra allo scadere del brevetto e ne condivide le sorti, pertanto, in caso di annullamento o di perdita della c.d. autorizzazione all’immissione in commercio (a.i.c.) del brevetto, l'SPC perderebbe immediatamente la sua efficacia.

L'obiettivo di questa tutela aggiuntiva è risarcire i mancati introiti causati dal tempo necessario per ottenere la a.i.c. ed evitare che il diritto di esclusiva effettivo conferito dal brevetto abbia una durata insufficiente ad ammortizzare gli investimenti effettuati nella ricerca, dal momento che, dal deposito di una domanda di brevetto per un nuovo prodotto farmaceutico o un nuovo prodotto fitosanitario e l’autorizzazione di immissione in commercio dello stesso, decorre un periodo di tempo prolungato, durante il quale, il titolare del brevetto non può sfruttare economicamente i propri diritti72. Inoltre si legge dalla sintesi del Regolamento (CEE) n.1768/92 che “[i]l

certificato protettivo complementare per i medicinali intende porre rimedio alle disomogeneità e alle carenze dei sistemi nazionali di brevetto in materia di ricerca farmaceutica. In particolare, intende garantire una protezione sufficiente per lo sviluppo dei medicinali nell'Unione europea (UE). […] L'assenza di una protezione sufficiente può inoltre indurre i centri di ricerca situati negli Stati membri a trasferirsi in paesi che offrono una migliore protezione”.

La Corte di giustizia dell'Unione europea, ricorda Portonera (2019, p. 9) ha ribadito all’esito del caso C-484/12 (Georgetown II) che la normativa SPC “è dirett[a] ad incoraggiare la ricerca in ambito farmaceutico rilasciando un [certificato] per prodotto, intendendo quest’ultimo nel senso stretto di sostanza attiva. Qualsiasi

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I requisiti affinchè un prodotto possa essere coperto da un SPC sono, ex art. 3 Reg. n. 469/2009: la attuale copertura di un brevetto di base; la autorizzazione alla vendita nel mercato unico europeo; la mancanza di una tutala da parte di un pre-esistente certificato complementare; la prima a.i.c. del prodotto in quanto medicinale. Inoltre la protezione riguarda il “prodotto” in quanto “autorizzato come medicinale”: ossia il principio attivo in quanto riconosciuto “sostanza o composizione presentata come avente proprietà curative o profilattiche delle malattie umane o animali, nonché ogni sostanza o composizione da somministrare all’uomo o all’animale allo scopo di stabilire una diagnosi medica o di ripristinare, correggere o modificare funzioni organiche dell’uomo o dell’animale” (Portonera, 2019)

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Di regola accade che il principio attivo viene brevettato una volta “scoperto” e prima di aver superato la fase di sperimentazione, sicché la durata del brevetto decorre da quel momento e non da quello, spesso di molti anni (in media, circa 10 o 20) successivo, di immissione sul mercato (Portonera, 2019).

diversa interpretazione rischierebbe, del resto, di dare adito a strategie elusive, che comportano costi supplementari tali da scoraggiare l’innovazione”. La sintesi di Portonera è “[p]rotezione sì […] ma solo in quanto finalizzata alla promozione di maggiore innovazione”.

Ciò che a Boldrin e Levine interessa dimostrare è ancora una volta l'assoluta mancanza di qualsiasi nesso consequenziale tra l'introduzione delle leggi a tutela della PI e l'innovazione nel settore interessato. L'industria farmaceutica oggi si presenta, sostengono Boldrin e Levine, non come un'industria monopolizzata, nonostante la presenza di circa quindici grosse imprese dominanti con base in USA, Germania, Regno Unito, Svizzera e Francia, un'ondata di fusioni e acquisizioni avvenute tra il 1985 e il 2005 e barriere all'ingresso nell'industria farmaceutica “di marketing e legali dovute alla gestione dei test clinici” (p. 199). Ciò che ha impedito una massiccia concentrazione del settore è stata, a detta dei due economisti, la parallela nascita di nuove imprese biotecniche e di imprese produttrici di farmaci generici. Alcuni dati di questo settore sono particolarmente significativi: “le trenta maggiori imprese farmaceutiche spendono circa il doppio per la promozione e la pubblicità di quanto non spendano in ricerca”; inoltre “[l]'industria farmaceutica è in testa alla lista dei settori più remunerativi nell'economia USA da almeno due decenni, durante i quali non è mai scesa sotto il terzo posto” (Boldrin e Levine, 2012, p. 200).

L'analisi condotta dai due studiosi fa emergere un altro aspetto interessante: “[i] nuovi farmaci utili sembrano arrivare in percentuali crescenti da piccole imprese […] e da laboratori universitari. […] Notiamo però che quasi tutti questi laboratori universitari sono effettivamente finanziati dal denaro pubblico, prevalentemente denaro federale che fluisce loro attraverso i finanziamenti alla ricerca di base forniti dal National Institute of Health (NIH)”. Dalle stime derivanti da uno studio condotto da due economisti della Università di Chicago (del quale si avvalgono Boldrin e Levine) è emerso che la partecipazione alla spesa in ricerca da parte dell’industria farmaceutica sia appena un terzo del totale. I nostri autori affermano come sia “perfettamente possibile che sia da questo un terzo che arriva la maggioranza delle medicine maggiormente utili” (p. 201). Questo in teoria, perchè i fatti dimostrano il contrario. Utilizzando il British Medical Journal Boldrin e Levine hanno potuto individuare le quindici invenzioni che rappresentano le pietre miliari nel campo delle invenzioni in campo medico e farmaceutico, secondo il parere di medici e lettori interpellati. “Penicillina, raggi X, coltura dei tessuti, etere (anestetico), chlorpromazine, sanità

pubblica, teoria dei germi, medicina basata sull'evidenza, vaccini, pillola, computer, terapia di reidratazione orale, struttura del DNA, tecnologia degli anticorpi monoclonali, rischi per la salute causati dal fumo”: sono queste le quindici scoperte mediche e farmaceutiche reputate fondamentali dal campione. Di queste quindici, solo due voci della lista, la chlorpromazione e la pillola, devono la loro esistenza al sistema legale dei brevetti.

Parlando invece di costi, Di Masi, Grabowski e Hansen (2003) hanno stimato che il lancio sul mercato di una nuova medicina costa circa “800 milioni di dollari dell'anno 2000” (citati in Boldrin e Levine, 2012, p. 191). Il dato impressionante è che di questi costi, circa l'80 % o più del costo totale di sviluppo di un nuovo farmaco è dovuto al costo degli esami clinici. Altri costi sono quelli dei progetti falliti e il costo della ricerca e del marketing per i “farmaci copioni” che riguardano il 50% circa dell'intero costo della ricerca. Anche la sintesi della formula di un farmaco, a partire dall’individuazione del corretto principio attivo, è un processo particolarmente costoso (Portonera, 2019).

Le stime del National Institute of Health Care Management (NIHCM) dimostrano, che su un totale di 1.035 farmaci approvati dalla FDA, solo 238 possono essere considerati “nuove medicine” ossia prodotti con nuovi ingredienti attivi, dunque “il 77 % di quanto approva la FDA è “ridondante” da un punto di vista strettamente medico” (Boldrin e Levine, 2012, p. 205). Allora, anche per questa industria, ritengono Boldrin e Levine, l'imitazione si rivela essere un ottimo strumento per massimizzare i profitti, aumentando il benessere dei consumatori. Infatti, i farmaci c.d. me too o “farmaci copioni” come ribattezzati dai due economisti, sono “l'unico strumento disponibile in grado di creare qualche tipo di concorrenza in un mercato altrimenti monopolizzato” (p. 205). Il farmaco me too73 è un nuovo ingrediente attivo che agisce sullo stesso

target (di solito una proteina, che è stata individuata come rilevante per il trattamento dell'infermità). Il target non è brevettabile, pertanto è possibile agire su di esso, trovando un diverso ingrediente attivo che abbia efficacia. La ricerca e la pubblicità dei farmaci copioni è tuttavia anche un'attività che richiede un dispendio di risorse notevole, data la presenza dei brevetti:

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I farmaci me too (o farmaci copia) si differenziano dai farmaci generici o equivalenti, che sono medicinali non più coperti da brevetto o da certificato di protezione complementare,

Quando si sommano i costi della ricerca addizionale, quelli legali, quelli della pubblicità e della promozione, si arriva a spiegare più del 50% dell'intera spesa farmaceutica; e si tratta, fondamentalmente, di spese inutili, perchè servono soltanto a rendere disponibili dei farmaci che imitano farmaci che già esistono, solo che lo fanno in modo tale da non violare i brevetti di questi! (Boldrin e Levine 2012, p. 207). Il costo degli esami clinici si è detto essere quello più rilevante. Gli esami clinici sono necessari per lo sviluppo di nuovi farmaci poiché rilevano gli effetti che un composto chimico produce su un grosso campione di esseri umani. Invece, sostengono Boldrin e Levine, gli esami clinici relativi a farmaci copioni “sono un completo spreco dal punto di vista sociale”. Il problema secondo i due economisti, risiede nell'accollare tale elevato costo in capo alla industria farmaceutica:

Essendo molto basso il costo di distribuzione e assorbimento di questa informazione ed essendo molto alto il costo di acquisizione della medesima, ci troviamo qui di fronte a un classico bene pubblico. Non esiste ragione perchè questo debba essere pagato dalle imprese farmaceutiche che sviluppano il nuovo farmaco: anzi essendo loro i primi a metterlo sul mercato, sembra evidente che vi sia un forte conflitto d'interessi (Boldrin e Levine, 2012, p. 210).