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L'abbondanza di esempi e motivazioni riportati fin qui conduce ad un unico risultato: l'importanza data alla PI, ma soprattutto al brevetto in qualità di incentivo all'innovazione, è infondata o perlomeno sopravvalutata. Si è accennato, nel corso del primo capitolo, al fatto che la massiccia diffusione di “standards occidentali” di tutela della PI nel resto del mondo sia avvenuta proprio quando l'utilità dei diritti di proprietà intellettuale, come metodo per promuovere l'innovazione e lo sviluppo della conoscenza, ha incominciato a vacillare anche nel mondo occidentale. Il problema infatti per Archibugi e Filippetti (2010) è stato occasionato dall'essersi concentrati sulla questione PI tralasciando ciò che davvero è il motore dell'innovazione e della crescita: “active innovation and learning policy rather than the protection through IPRs of the already available knowledge” (138). Si ritiene in breve che la portata della PI per la diffusione della conoscenza e per l'innovazione sia stata sopravvalutata sia riguardo ai suoi aspetti nocivi sia rispetto a quelli benefici.

Sembra a questo punto opportuno richiamare, in chiusura di tesi, le quattro “learnt lessons” dell'articolo di Archibugi e Filippetti (2010) sul tema della conoscenza e dell'innovazione, che avevamo trattato, lasciandole in sospeso, nel primo capitolo. Si tratta di quattro insegnamenti tratti dalla letteratura sull'economia dell'innovazione e del cambiamento tecnologico che sembrano racchiudere i risultati cui si è pervenuti nel corso della presente trattazione e che possono pertanto costituirne la conclusione ideale.

La prima lezione appresa è:

Knowledge is not information. Successful knowledge transfer is not only a matter of transferring information, but it requires learning through acquiring a wide range of competences, skills and tacit knowledge (p. 139).

Si ricorderà a tal proposito la distinzione tra le quattro “dimensioni” della conoscenza così come individuate da Bengt-Åke Lundvall e Björn Johnson nel 1994. L'informazione, a differenza della conoscenza, una volta prodotta è facilmente

incamerabile e trasmissibile ad un costo molto basso. Quindi se il costo per produrla è accollato interamente al suo produttore, la mancanza di una sua tutela produrrà sottoinvestimento per quella attività (così Arrow, 1962, citato da Archibugi e Filippetti). A questo punto ci si chiede: “can the outcomes of the creative and innovative activities for which intellectual property is requested be considered information?” (Archibugi e Filippetti, 2010, p. 139). La risposta fornita dalla tradizione Schumpeteriana, ricordano i due ricercatori, “sostiene che le attività creative e innovative sono il prodotto della conoscenza umana, che non può essere trasferita ai potenziali utenti a meno che non siano disposti a investire impegno e tempo nell'apprendimento”. Allora invenzioni e creazioni possono essere “copiate” solo da chi impiega un minimo di impegno. Al contrario, nessun utente sarà in grado di trarre vantaggi economici senza uno sforzo di apprendimento attivo e processi di adattamento creativo (così anche Nelson e Winter, 1982, p. 60; e Pavitt, 1987, citati da Archibugi e Filippetti). Le invenzioni “ovvie” come la carriola sono veramente così rare come hanno sostenuto Boldrin e Levine. Per quanto riguarda quella componente della conoscenza che rimane tacita, resta tale a causa della incapacità di chi l'ha generata e la custodisce di articolarla correttamente in manuali, progetti, brevetti o altri codici. Nessuno è stato ancora in grado di riprodurre un buon caffè napoletano e nessun napoletano è ancora riuscito a (o non ha ancora voluto) insegnare ad altri come ottenerlo.

A key characteristic of IPRs is that they can protect the codified knowledge but not the tacit knowledge (p. 139).

La conoscenza tacita può evidentemente essere più efficacemente protetta dalla legge sul segreto industriale che da quella a tutela della PI. Comunque l'IPR fornisce al detentore di un diritto di proprietà intellettuale “a wider battery of instruments to profit from it”, come per esempio la vendita delle componenti codificate o l'insegnamento diretto della conoscenza acquisita. Al tempo stesso, rilevano Archibugi e Filippetti, chi abbia la volontà di acquisire la conoscenza, deve dotarsi non solo dei diritti di possesso in sé, ma anche delle infrastrutture e delle competenze che consentono di utilizzare effettivamente la conoscenza a fini economici.

Without imitating it is impossible to learn and innovate. The development of emerging economies is associated with creative imitation and absorption (p. 139).

Anche i due ricercatori italiani sembrano giunti alla medesima constatazione di Boldrin e Levine: “innovation cannot be created in a vacuum but rather is bred in an environment of creative imitation” (p. 139), scrivono Archibugi e Filippetti. L'imitazione è utile e lo è di più in un mercato concorrenziale, sostenevano Boldrin e Levine (2012). Inoltre l'imitazione è inevitabile, sia in presenza di PI che in sua assenza.

La storia è costellata di fenomeni di imitazione tanto nei “paesi ricchi” che nei “paesi poveri”. Così, ricordano Archibugi e Filippetti, nel diciannovesimo secolo la Germania e gli Stati Uniti hanno beneficiato dalle conoscenze sviluppate nel Regno Unito, mentre nella seconda metà del ventesimo secolo Giappone, Corea del Sud, Singapore e Taiwan hanno intrapreso un processo di continua adozione e imitazione di tecnologie sviluppate all'estero. Oggi Cina, India e Brasile, tra gli altri, stanno acquisendo le conoscenze sviluppate nei paesi dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE):

Every ‘emerging economy’ at some point in its history has relied on the adoption of foreign technologies. Technology transfer is a multidimensional phenomenon[89] and to

be effective it should pay attention to the features of the host countries, including their stage of development, economic and industrial base, characteristics of the institutions and last and not least the IPRs regime (p. 139).

E’ errata dunque la “separazione concettuale tra ‘innovators’ e ‘imitators’”, sostengono i due ricercatori, poiché “i buoni innovatori costruiscono lo stato dell'arte e i buoni imitatori devono migliorare per imitare e adottare le altre innovazioni” (p. 141).

89 Un trasferimento di conoscenze e di tecnologie che possa dirsi efficace richiede una serie

combinata di elementi: (1) investimenti esteri diretti, in quanto le filiali di società multinazionali nei paesi ospitanti forniscono spesso il modo più semplice per assimilare i metodi di produzione di altri paesi; (2) imprese comuni e alleanze strategiche, che consentono alle imprese di diversi paesi di combinare competenze, risorse e competenze; (3) licenze tecnologiche, che comprendono non solo l'acquisizione di diritti di proprietà intellettuale, ma anche l'assistenza e la formazione tecnica; e (4) tecnologia incorporata nelle importazioni, in particolare nel caso di beni strumentali e attrezzature (Archibugi e Filippetti, 2010).

La lezione numero tre è strettamente dipendente dalle prime due e concerne quella “absorptive capacity” della cui importanza si è discusso nel primo capitolo. In quella sede, si è illustrato come l'India riuscì a dotarsi della absorptive capacity in questione (ossia “endogenous competences, skills, infrastructures and institutions”: p. 141) nel settore farmaceutico, acquisizione che iniziò a far temere (a detta di Drahos e J. Braithwaite, 2002) le grandi imprese americane, tedesche, giapponesi e inglesi, per la propria posizione dominante conquistata:

Knowledge is not about plug and play. To adopt foreign technology is a costly activity requiring a big deliberate domestic effort (Archibugi e Filippetti, 2010, p. 139).

La quarta ed ultima lezione appresa da Archibugi e Filippetti concerne l'innovazione:

The ways to profit from innovation are infinite. IPRs are only one of the several tools in firms’ competition and are effective in a few industries only (p. 140).

L'innovazione avviene in molte ed eterogenee attività, così come sono eterogenei i metodi per appropriarsi dei rendimenti forniti dalle attività di innovazione, che variano a seconda delle industrie, dei mercati, dei paesi e si evolvono nel tempo. Il modo più efficace per appropriarsi dei rendimenti dell'innovazione è combinare una serie di strategie diverse, a seconda delle tecnologie e delle industrie: metodi giuridici associati ai diritti di proprietà intellettuale e altri metodi economici, tra cui il segreto industriale, il tempo di consegna, la differenziazione e la distribuzione del mercato. Quindi, come dimostrato da un gran numero di studi empirici (Cohen et al., 2000; Levin et al., 1987; Mansfield, 1986; Merges and Nelson, 1990; Von Hippel, 1998; Winter, 1987: tutti citati da Archibugi e Filippetti, 2010), i diritti di proprietà intellettuale da soli non sono in grado di garantire la piena appropriazione delle invenzioni.

Indagini statistiche condotte a livello delle aziende hanno dimostrato che i brevetti (che sono la componente più importante e controversa della famiglia dei diritti di proprietà intellettuale) “sono molto importanti solo nell'industria farmaceutica e, in misura minore, nel settore della chimica” (p. 140). A queste, Archibugi e Filippetti affiancano l'industria audiovisiva, dove la PI è ugualmente molto importante perché “[t]hese are the typical products that are costly to produce but that can be copied at

virtually zero cost” (p. 147). In industrie ad alta tecnologia come l'elettronica, le telecomunicazioni, i veicoli a motore e le macchine, i brevetti non sono invece un fattore competitivo fondamentale, sebbene le imprese spendano molto denaro per la creazione di un florido portfolio di brevetti. Infine in altre industrie ad alta tecnologia, come l'industria aerospaziale e l'energia nucleare, i brevetti non sono per nulla importanti, poiché il segreto industriale è molto più rilevante. Questo spiega perché le imprese a caccia di profitti cercano altre strategie per rendere l'innovazione profittevole. La GNU General Public Licence (GPL) per lo sviluppo del software open source e altri sistemi emergenti sono alcune di queste strategie, che nell'industria informatica stanno avendo una crescente diffusione. Tali strategie sono basate su combinazioni di tradizionali e nuove forme di diritti di proprietà intellettuali o su base non proprietaria e offrono applicazioni innovative, che per i paesi emergenti e in via di sviluppo possono rappresentare notevoli opportunità di accesso al know-how essenziale a costi molto bassi, evitando nel contempo le violazioni della proprietà intellettuale.

Inoltre il brevetto si dimostra più utile per la protezione dei prodotti e non anche dei processi.

While there is abundant evidence on the manufacturing industry and on the patent system, there is less evidence on the appropriability system in the service industry and on the copyright (p. 140).

In base all’evidenza disponibile, brevetti e copyright sono molto simili. Anche il copyright infatti, come il brevetto, non è sufficiente da solo ad assicurare la piena appropriazione dei rendimenti se non viene combinata con altri strumenti economici. In ogni caso, concludono i due ricercatori, l'imitazione può avvenire comunque, anche in presenza di un forte regime di PI: non è impossibile, ma può risultare un un po' più costosa e lenta. Come affermano Archibigi e Filippetti:

it is the nature of knowledge generation and diffusion mechanisms themselves that make the real world very different from a hypothetical one in which IPRs are able to block the use of specific know-how (p. 146).

Nella maggior parte delle industrie manifatturiere, vi è “un ampio margine di inventiva” (pp. 145-146), così che si possono imitare tecnologie straniere evitando violazioni della proprietà intellettuale, anche in un regime di forte PI. Spesso esiste la possibilità di “produrre un efficace sostituto funzionale del prodotto protetto dai [diritti di] PI senza violare i suoi diritti legali” (p. 141). Al contrario, regimi deboli di PI rendono l'imitazione più economica e veloce, senza tuttavia dimenticare che i potenziali imitatori devono “acquisire una vasta gamma di competenze che possono essere ottenute attraverso un investimento sostanziale nella costruzione della base di conoscenze richieste” (p. 141).

Concludendo, occore riprendere quanto accenneato in apertura di paragrafo, ossia che l'importanza dell’IPR è stata sopravvalutata. L'argomentazione dietro questa conclusione di Archibugi e Filippetti consiste innanzitutto nella constatazione che l'accordo TRIPS, da solo, non sia in grado di determinare un aumento del divario tecnologico tra i paesi occidentali e i paesi emergenti, come invece profetizzato da alcuni commentatori (per esempio Chang, 2003; May, 2002a, da essi citati). Il TRIPS e il sistema di IPR “non possono essere ritenuti responsabili dell'incapacità dei paesi in via di sviluppo di recuperare il ritardo, dal momento che la tecnologia oscilla in tutti i paesi e non è guidata solo dai regimi dei diritti di proprietà intellettuale” (p. 146). “Sia i sostenitori che i detrattori del TRIPS”, proseguono gli autori, “hanno posto troppa enfasi sull'importanza economica dei dispositivi giuridici che regolano la proprietà intellettuale. Di per sé, i dispositivi giuridici non possono impedire ai paesi in via di sviluppo di recuperare terreno, né consentire ai paesi sviluppati di mantenere il loro dominio sull'innovazione tecnologica. È molto più importante concentrarsi sull'economia piuttosto che sulle condizioni giuridiche che consentono o impediscono ai paesi di mantenere o acquisire la loro base di conoscenze” (p. 146).

Proprio la mancanza di “una netta divisione tra innovatori e imitatori, che nasce dalla complessità dei meccanismi di generazione e diffusione della conoscenza e dell'innovazione” (p. 144) impedirà ai diritti di proprietà intelettuale ed al TRIPS di svolgere un ruolo decisivo, determinante. Moser (2005, citato da Archibugi e Filippetti 2010) ritiene piuttosto che il sistema di PI nazionale sia il risultato dei bisogni produttivi di una nazione. Così le politiche di PI si modellano in base alle necessità del tempo. Archibugi e Filippetti citano ad esempio un lavoro di Ordover (1991), dove si ricorda che la Germania non ha fornito una tutela brevettuale ai prodotti alimentari, farmaceutici o chimici, ma solo ai loro processi di produzione. O ancora: la legge

americana all'inizio forniva una forte protezione per i cittadini americani, ma una debole protezione per gli inventori stranieri, mentre il sistema giapponese è stato deliberatamente concepito per favorire l'adozione e la diffusione della tecnologia. Analogamente, altri lavori citati dai nostri autori, quali Chang (2003) e Khan (2002), menzionano l'India, che non ha consentito la tutela brevettuale di farmaci, prodotti chimici, vetro ottico o semiconduttori; la Thailandia, che ha escluso sostanze chimiche, farmaci, macchinari alimentari e agricoli; ed il Brasile, che non ha offerto protezione per i prodotti alimentari, sostanze chimiche e sostanze stupefacenti. Maskus (2000) e Mokyr (2002) sono a loro volta giunti alla medesima conclusione cui sono pervenuti Boldrin e Levine (2012), ovvero che sia fondato il sospetto che una forte PI sia conseguenza piuttosto che causa dello sviluppo. Dunque il rafforzamento della PI avviene di pari passo con l'incremento dello sviluppo ed è causato sia dalla politica industriale che dalla pressione delle imprese commerciali.

Il sistema di IPR è stato sopravvalutato anche per un altro motivo, secondo i due ricercatori italiani, ovvero per la sua capacità di incoraggiare il trasferimento di tecnologie. I diritti di proprietà intellettuale possono essere vantaggiosi per i paesi con un certo grado di capacità di assorbimento e forti infrastrutture tecnologiche, ma non anche per i paesi poveri, per i quali al contrario comportano un aumento di costi e una riduzione del trasferimento tecnologico. Come per l'innovazione, anche il trasferimento di tecnologie è causato da una pluralità di fattori (dimensione del mercato, sviluppo di capacità adeguate, risorse umane a basso costo e qualificate e un ambiente istituzionale affidabile), di cui l'IPR è solo una minima parte. Citano al riguardo un risultato cui sono pervenuti Park e Ginarte (1997), secondo cui i diritti di proprietà intellettuale non hanno un ruolo diretto nello spiegare i diversi tassi di crescita tra i paesi; o quello cui è pervenuta la Banca mondiale (2001), secondo cui “in momenti diversi e in diverse regioni del mondo, i paesi hanno realizzato alti tassi di crescita in vari gradi di protezione dei [diritti di] PI” (p. 142)). Ancora: Arora et al. (2001) e Lall (2003) sostengono che in diverse occasioni i diritti di proprietà intellettuale hanno anche facilitato l'invenzione di tecnologie protette, in quanto i brevetti e copyright costringono a divulgare le informazioni, motivo per il quale Bessen e Meurer (2008) rilevano che nonostante l'obbligo legale di divulgazione, gli avvocati dei brevetti aziendali cercano di evitare la divulgazione di informazioni strategiche alla base del funzionamento di una tecnologia. Questa rassegna di lavori scientifici porta Archibugi e Filippetti a concludere che l’IPRS può al limite essere in

grado di fornire “un quadro giuridico per accordi contrattuali in materia di tecnologie, che favoriscono l'istituzione di mercati della tecnologia, facilitando il trasferimento internazionale di tecnologia e la sua diffusione a livello locale” (p. 146).

Occorre da ultimo riflettere sul fatto che laddove (come nel settore farmaceutico) si sente la necessità di una forte tutela della PI, ciò è dovuto in gran parte all’importanza degli interessi coinvolti. La salute pubblica non è solo una questione economica, bensì giuridica e soprattutto morale. Infatti scrivono Archibugi e Filippetti che il caso giudiziario che ha visto coinvolta Big Pharma contro il governo sudafricano per l'uso di farmaci per combattere l'infezione da HIV è stato “più spettacolare proprio perché in gioco erano concentrati interessi economici da un lato e una medicina salva vita dall'altro. Ma possiamo generalizzare questo caso?” (p. 146). Pur ammettendo l'importanza che i diritti di proprietà intellettuale rivestono per alcuni settori dell'economia, bisogna riconoscere che tali settori non rappresentano certo la “total economy”: le sfortune dei paesi emergenti non sono determinate dalla esistenza del copyright sui CD americani, così come non sarebbe corretto affermare che “pop singers, film stars and software companies are ruined by IP infringements” (p. 147). Boldrin e Levine affermano che la PI è un monopolio legale a tutti gli effetti. Archibugi e Filippetti scrivono:

Vi è la tendenza ad attribuire ai [diritti di] PI la creazione di barriere all'ingresso, e questo in linea di principio è vero, poiché i [diritti di] PI generano un monopolio legale. Ma la realtà economica dimostra che gli ostacoli all'ingresso sono più spesso associati alle pratiche anticoncorrenziali che ai soli [diritti di] PI (p. 147).

Possiamo dunque far nostra la conclusione cui Archibugi e Filippetti riguardo le conseguenze che le politiche di rafforzamento della PI perseguite dalle nazioni hanno nei confronti dei propri cittadini. La delocalizzazione dei posti di lavoro ha fornito un enorme vantaggio alle grandi imprese, ma ha danneggiato i cittadini. Al contrario, “[u]n migliore servizio ai cittadini sarebbe stato fornito da una maggiore cooperazione internazionale nel campo della scienza e della tecnologia, coinvolgendo sia gli attori pubblici che le imprese in progetti di ricerca su larga scala. Questi progetti potrebbero offrire nuove opportunità tecnologiche che le imprese sarebbero in grado di sfruttare in modo competitivo” (p. 147).

* * *

Sarebbe bello poter concludere risolvendo una volta per tutte il dilemma che è stato il fil rouge della ricerca condotta per l'elaborazione del presente lavoro, ossia se la proprietà intellettuale possa essere considerata la causa o la conseguenza della crescita economica. Tuttavia, affermare con certezza che sia l'una o l'altra, in relazione al processo economico, non è possibile: è più opportuno affermare che la PI sia entrambe le cose.

La moderna teoria della crescita individua nel processo innovativo il motore principale dello sviluppo economico. Se è dunque vero che l'innovazione è stimolata dalla tutela della PI, è anche vero che la tutela della PI è essa stessa causa (indiretta, per il tramite dell'innovazione) della crescita economica. A questo punto, la tutela della PI può anche acquisire, in un contesto economico e legale florido ed efficiente, un ruolo rafforzativo: può essere considerata, in breve, una conseguenza della crescita economica.

Certamente è possibile riconoscere l'enorme valore che la PI ha per le imprese che innovano, perché tali imprese tengono conto del regime di tutela nelle loro strategie di impresa. Tuttavia è anche opportuno ammettere che la PI non è sufficiente da sola ad assicurare la piena appropriazione dei rendimenti se non viene combinata con altri strumenti economici.

Allo stesso tempo è solo facendo tesoro delle accuse rivolte all'odierno IPR system che il legislatore può essere in grado di istituire un apparato legislativo che sia realmente bilanciato tra i due poli opposti di interesse: l’interesse di chi “produce” conoscenza e l’interesse di chi la “consuma”. Del resto, come in tutte le cose, è tutta una questione di equilibri.

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