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IL SOCIALISMO DIGITALE: UN'ILLUSIONE?

ABOLIRE LA PROPRIETA' INTELLETTUALE?

3.11 “CHI TROVA UN BREVETTO TROVA UN TESORO”

3.12 IL SOCIALISMO DIGITALE: UN'ILLUSIONE?

La conoscenza acquista, nell'era digitale, una duplice natura: la “conoscenza utile”, scaricabile da Internet è un bene pubblico, non escludibile e non rivale, mentre l'attribuzione del diritto legale e/o tecnologico di impedirne la fruizione, rende il bene conoscenza un bene privato.

Un articolo pubblicato sul giornale The Times il 22 settembre 2012 dalla giornalista e scrittrice inglese Caitlin Moran svela cosa sia, dal suo punto di vista, il world online e cosa voglia dire battersi per la tutela delle opere artistiche che vi circolano. La scrittrice sostiene che il il mondo del web non sia tanto diverso da “the real world”. Il mondo di Internet, afferma, è stato creato dagli individui ed è fatto da negozi, informazioni, dialogo tra gli utenti etc., tutto ciò che è presente anche nel mondo fisico, fatto di relazioni sociali e scambio. Dunque Internet è reale. Se nel mondo reale, fisico, per ascoltare una canzone occorre acquistare un CD in un negozio, perchè non dovrebbe accadere lo stesso in un mondo digitale? “It's stll the same song, written by the same people, who spent the same hours and same money recording it”. Chi ruba un libro da una libreria è accusato di furto; invece chi “usufruisce” di contenuti online sta esercitando il suo diritto di servirsi del patrimonio culturale della collettività.

We don't have a right to listen to the music we want, or watch the films we like, for free. These things are treats, pleasure, luxuries. Why is it considered a right? Because

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L'esempio è esplicativo, sebbene occorre riconoscere che il caso degli animali selvatici e quello del tesoro abbandonato pongono problemi differenti: il primo comporta uno sfruttamento eccessivo in termini di tempo, mentre il secondo comporta un dispendio eccessivo di costi. In altre parole, lo sfruttamento degli animali selvatici avviene “troppo presto”, mentre quello del tesoro avviene in maniera “troppo costosa” (Posner, 1992).

it's the internet. And why is the internet different from the rest of the world where luxuries have to be paid for? Because...it's the internet.

Se c'è chi, come Caitlin Moran, ritiene ingiusto lasciare agli utenti del web la possibilità di accedere a contenuti di pregio (quali sono quelli culturali, secondo l'articolo appena menzionato), liberamente e gratuitamente, c'è chi, sulla base del medesimo valore attribuito al bene conoscenza, ne giustifica, a maggior ragione, un più ampio e diffuso accesso da parte della collettività. L'avvento dell'era digitale è stato salutato da questi ultimi (inclusi molti dei suoi ideatori e creatori: da Licklider a Taylor e allo stesso Tim Barbers Lee) con vivo entusiasmo poiché vi hanno scorto la reale possibilità di rendere la conoscenza democratica e fruibile da tutti. Rispetto al tempo in cui l'accesso alla conoscenza era prerogativa di ecclesiastici e ricchi uomini potenti, si sono fatti enormi progressi considerando che anche il più umile degli individui può oggi “avere la cultura a portata di mano”, disponendo anche solo di un tablet, un PC o un telefono cellulare.

In realtà l'entusiasmo è stato presto placato, poiché anche l'industria del software ha subito, a partire dal 1981, un'intensa accelerazione verso una maggiore tutela della PI. La conoscenza come bene pubblico fruibile da tutti ha lasciato il posto ad una conoscenza “rivale” e privatizzata. Oggi che la comunicazione è cambiata rispetto a vent'anni fa, in cui sempre più persone hanno accesso ai computer e ad Internet, informazioni di grande valore vengono ritirate, perse, privatizzate o rese inaccessibili al pubblico – al contrario delle grandi biblioteche e archivi cartacei, che garantivano a tutti la possibilità di accedere pubblicamente a tali risorse e paradossalmente con maggiore libertà.

Le due economiste Ostrom e Hess (2009) sono sostenitrici di un modello di cooperazione sociale in cui la collettività si adoperi per la “sostenibilità” dei beni comuni, così da garantire loro la rigenerazione naturale o sociale. E' necessario affinchè ciò avvenga che si disponga di regole appropriate efficaci per la risoluzione di tale problema. Esse ritengono che molti gruppi sociali si sono già dimostrati in grado di gestire e sostenere efficacemente le risorse comuni. Infatti, a fronte di questo fenomeno di privatizzazione si vanno sempre più diffondendo istituzioni, associazioni e comunità di ricercatori ed utenti dei “beni comuni”, intellettuali digitali che si oppongono a questo processo e che si propongono il fine di tutelare i nuovi beni comuni digitali della conoscenza.

Uno “straordinario esempio di creatività imprenditoriale in situazione di concorrenza” (Boldrin e Levine, 2012, 24), nonché il segnale di una “metamorfosi del sistema di copyright e del diritto d'autore nell'epoca della società informazionale della rivoluzione digitale” (Ferri, 2009), è rappresentato dal “open-source software (OSS)”. Si tratta di un software, distribuito con una licenza che consente la vendita e la sua copia. Infatti l'open-source software si regge su un accordo (volontario) da parte dei produttori di software, c.d. accordo di copyleft, che impegna i suoi sottoscrittori ad operare in condizioni di libera concorrenza. La rinuncia alla tutela della PI si giustifica sulla base di due vantaggi: fornire un'“importante assicurazione agli acquirenti del prodotto” e consentire di beneficiare dalle migliorie apportate in futuro da prodotti concorrenti che ne facciano uso. I clienti possono sentirsi rassicurati dal fatto che la scomparsa dal mercato di quell'unico fornitore autorizzato a vendere il software brevettato non bloccherà l'uso del loro software. I clienti richiedono stabilità e il dubbio sulla sopravvivenza a lungo termine dell'unica impresa autorizzata può spingerli a non acquistare il prodotto. Inoltre “ogni nuovo prodotto concorrente che usi lo stesso codice come punto di partenza e lo migliori, risulterà compatibile con quanto ho già installato” (Boldrin e Levine, 2012, p. 25). Ogni nuovo concorrente che usi o migliori il codice dell'impresa che per prima ha innovato dovrà rispettare le regole della licenza open-source o copyleft. Non occorre un monopolio legale, sostengono Boldrin e Levine, poiché il produttore del open-source software originario ottenga una rendita cospicua grazie al fatto di esser entrato per primo sul mercato e aver attirato la curiosità dei clienti (a ciò si aggiunga che sarà sempre il “consulente” preferito in caso di malfunzionamenti del software).

Sebbene probabilmente pensiate a voi stessi come a dei fruitori di Windows o di Macintosh, la realtà è che siete anche fruitori di Linux: ogni volta che usate Google, la vostra richiesta viene elaborata da un software open-source creato da Linus Torvalds (Boldrin e levine, 2012, p. 25).

Solaris, Linux e FreeBSD sono tre sistemi operativi che sfruttano i sistema open- source. Invece Mysql, PostgresSQL, CockroachDB, Neo4j, MongoDB, RethinkD, B MariaDB, Redis, SQLite etc. sono tutti database open-source. PHP, Lua, Python, Ruby e Tcl sono linguaggi open-source. Questi sono solo alcuni esempi che

dimostrano la presenza capillare dell'open-source software nei sistemi informatici moderni.

Una evoluzione dell’open-source è il c.d. “movimento per il software libero”, di cui Richard Stallman è un precursore. Il movimento in questione promuove la distribuzione del software open-source con una licenza d'uso, la c.d. GNU General Public Licence (GPL), che consente di modificarlo e distribuirlo da parte di squadre di programmatori o di individui volenterosi, solo quando il codice sorgente di quelle modificazioni venga reso disponibile con la stessa licenza. In questo modo viene data a tutti la possibilità di beneficiare della condivisione di informazioni di idee (Boldrin e Levine, 2012).

L'open-source software non è l'unica invenzione “socialmente benefica”. “Il web può essere visto come uno strumento di creazione collettiva” scrive Paolo Ferri (2009). “Mentre nel sistema gutenberghiano il lettore-massa era tendenzialmente ‘passivo’, le tecnologie digitali della comunicazione hanno determinato una nuova ‘attività’ del vecchio lettore. Il ‘lettore’ del web 2.0 non è più passivo, ma è un vero e proprio ‘prosumer’”. Egli definisce non solo il proprio personale e unico percorso di navigazione all'interno della rete di ipertesti, ma è anche produttore di conoscenza e creatore di contenuti, gli user generated content. Si parla al riguardo del “popolo di Internet”, di utenti che creano contenuti su Wikipedia, video su YouTube e relazioni su Facebook.

L'industria del software non è l'unica a produrre “commons”. Con un termine che richiama l’open-source software, l' “open access” (OA) indica il libero accesso online ai contenuti. La letteratura OA è gratuita e libera da quasi tutte le licenze di copyright. Affinchè un contenuto possa rientrare nel circuito OA sono necessari due prerequisiti, indicati da Ostrom e Hess: uno fisico, ossia che si tratti di un'opera in formato digitale e che si trovi su un server Internet (quindi richiede il costo della digitalizzazione o del suo caricamento online); ed uno legale, secondo cui l'opera non debba essere coperta da copyright e restrizioni di licenza che ne proibirebbero l'OA (per la letteratura di ambito scientifico e accademico è essenziale inoltre la “peer review”, in aggiunta alla normale autorizzazione). In questo modo si garantisce agli utenti, afferma la Budapest Open Access Initiative (citata da Ostrom e Hess, 2009), la libera distribuzione, stampa, download, di contenuti, per qualsiasi “scopo legittimo”, con l'unico vincolo di “garantire agli autori l'integrità della propria opera e il diritto di essere correttamente riconosciuti e citati come autori”. Il plagio o la distribuzione di copie con errori non

possono in nessun caso essere tollerati. In realtà anche quest’ultima restrizione può essere eliminata, scrivono le due economiste. E’ sufficiente, infatti, rendere l'opera di pubblico dominio oppure ottenere il consenso di chi ne detiene il copyright per tutti i suoi usi accademici, come la lettura, la copia o il download. Acconsentire a tali usi significa rinunciare a quelli garantiti dal copyright, ma bloccando la distribuzione di copie manipolate o errate.

Tuttavia non tutte le innovazioni hanno successo. Se alcuni sistemi, come l’open source software o l’open access appena visti stanno avendo una sempre più rapida diffusione, software del tipo peer-to-peer (P2P) o sistemi di condivisione di libri quali rispettivamente Napster e Google Books sono stati stroncati sul nascere. Il fenomeno Napster è stato accolto con favore da parte degli utenti, ma ha incontrato i malumori delle compagnie discografiche. Dapprincipio, il fenomeno Napster è stato preceduto da un'altra piccola rivoluzione che ha destato non poco disordine nell'industria musicale: l'invenzione dei lettori MP3, uno strumento elettronico portatile per la riproduzione di musica in un formato compresso. Ciò ha reso possibile la nascita dei networks P2P, dove nel 1999 ha fatto ingresso Napster. Da quel momento canzoni formattate in MP3 potevano essere trasferite attraverso la rete. Tuttavia, se la RIAA (Recording Industry Association of America) nel 1998, uscì sconfitta dalla battaglia legale condotta nei confronti della Diamond Multimedia System (la compagnia che aveva inventato l'MP3), nel 2001 invece, vinse in appello; una successiva ingiunzione contro Napster ne determinò la chiusura. Nel 2002 Napster finì in bancarotta. Il fenomeno Napster nonostante la sua breve vita ha coinvolto un numero massiccio di utenti: i documenti giudiziari indicano che al momento dell'apertura del caso giudiziario Napster contava meno di 500 mila utenti ma a metà del 2000 raggiunse un numero di 38 milioni di utenti. La vicenda (conclusa male) di Napster non ha tuttavia debellato il dilagare del P2P: si stima che nel 2010 solo in USA ci siano stati tra i 60 e gli 80 milioni di utenti del network peer-to-peer (Boldrin e Levine, 2012).

L'odierno Google Books (in origine denominato Google Print e successivamente Google Book Search) è un progetto reso pubblico nel 2004. Il Google Print del 2004 era uno strumento di ricerca bibliografica, la cui funzione era “scannerizzare e digitalizzare tutti i libri disponibili in una serie di grandi biblioteche universitarie di tutto il mondo, permettendo poi agli utenti di ricercarne i contenuti, tramite la rete, nel tradizionale stile di Google” (Boldrin e levine, 2012, p. 100). L'utente poteva gratuitamente, consultare paragrafi o intere pagine, che contenessero le parole

corrispondenti alla ricerca dell'utente. Quest'ultimo, se riteneva utile il materiale trovato, cliccando sui link presenti accanto alla lista dei libri, poteva acquistare il libro da librerie online. Insomma, sostengono Boldrin e Levine, “Google Print consentiva all'utente di rendersi conto se il libro in questione fosse o non fosse utile per apprendere qualcosa sul tema che lo interessava”. Tuttavia, dapprima una serie di denunce dopo poco la sua nascita, da parte del Sindacato degli Autori e di associazioni di editori, poi una più estesa battaglia legale, hanno costretto Google a modificare il suo prodotto. Le accuse che hanno portato a ridurre la funzione di Google Print erano di violazione dell'“uso equo dei libri presenti nelle biblioteche universitarie che avevano aderito al progetto di Google Print, trasgredendo, a loro avviso, la legge sul copyright” (pp. 99-100).

Le modifiche hanno comportato, sostengono i due economisti, la creazione di “una situazione di novello monopolio condiviso fra Google e le associazioni che rappresentano autori ed editori”. Tali modifiche hanno reso il servizio “irriconoscibile”: il Google Books disponibile ora in rete è un programma “evirato e frustrante, il cui valore sociale e la cui commerciabilità non sono per nulla evidenti” (p. 100). La nuova versione consente le attività permesse in partenza, ma per un “numero ristretto di libri, quasi tutti pubblicati almeno vent'anni fa e praticamente impossibili da acquistare” (p. 101); inoltre la ricerca rende visibile alle volte solo qualche riga di testo. Se fosse stato lasciato così com'era in origine, il servizio avrebbe permesso a chiunque, “con l'avvento di Kindle e di altri lettori di libri elettronici”, “di passare in pochi minuti o, per quelli sicuri del fatto proprio, in alcuni secondi da una curiosità estemporanea sulla natura dei buchi neri alla lettura di un testo di Subrahmanyan Chandrasekhar” (p. 101). Sarebbe dunque stato un valido “strumento di pubblicità con vendita allegata” affermano Boldrin e Levine. La sua trasformazione in peggio sarebbe quindi un ennesimo caso di inefficienza-PI.