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ABOLIRE LA PROPRIETA' INTELLETTUALE?

3.5 INNOVARE IN CONCORRENZA

La migliore giustificazione “tradizionale” a sostegno della PI afferma che solo in presenza di un sistema di tutela delle invenzioni si è in grado di assicurare all'inventore il recupero dei costi di investimento sostenuti per la ricerca e lo sviluppo, fungendo così da incentivo all'innovazione. Lo stesso non avverrebbe in condizioni di

concorrenza, la quale costringerebbe l'inventore a vendere la propria invenzione ad un costo molto basso di riproduzione, insufficiente a coprire il costo iniziale dell'invenzione. Si ricorderà a tal proposito l'esempio dei frullatori offerto da Posner (1992) nel capitolo due.

Come può un inventore guadagnarci se finisce immediatamente in concorrenza con tutti i suoi clienti? Generalmente gli economisti rispondono: non può! Boldrin e Levine (2012) invece sostengono che ciò sia possibile:

[L]e copie iniziali di un'idea sono possedute dagli innovatori […]. Poiché tuttavia ciascun concorrente deve comprare almeno una copia dell'idea prima di cominciare a riprodurla in proprio, l'idea originale costituisce l'input da cui tutte le altre copie si originano: quindi l'innovatore riceverà tutti i profitti derivanti dalla riproduzione delle copie della sua idea. Se invece sono necessari altri input, oltre all'idea originale, l'inventore riscuote solo una quota dei profitti totali (p. 128).

In questo secondo caso dunque, la quota di surplus sociale che l'inventore riscuote, sebbene sia più piccola di quella ottenuta in presenza di monopolio, non è tuttavia nulla. I due economisti quindi affermano che “se la quota è sufficiente a compensare l'innovatore per i costi della creazione, l'allocazione delle risorse economiche è [allora] efficiente” e ciò in quanto “non vengono generate né troppe né troppo poche innovazioni, e il surplus risulta massimizzato”. In breve, anche in assenza di monopolio intellettuale, “gli inventori dei migliori gadgets faranno più soldi degli altri”. Inoltre Boldrin e Levine vedono nella possibilità che il surplus sociale venga conquistato (in parte) da persone diverse dai loro produttori “una delle caratteristiche più preziose, almeno dal punto di vista collettivo” dei mercati concorrenziali. Dunque concludono affermando che, essendo “il fine ultimo dell'efficienza economica” “portarci tutti alla migliore condizione possibile, per ogni data tecnologia” (e non “rendere i monopolisti i più ricchi possibile”), i produttori devono “essere compensati per i loro costi, ricevendo l'incentivo economico a fare ciò in cui eccellono: ma non c'è bisogno di compensarli più di così” (pp. 129-130).

L'idea che sottende siffatta analisi è quella già anticipata secondo cui le copie delle idee (le uniche ad avere un valore economico) sono sempre limitate. È dunque partendo da un punto di vista differente che, anche l'esito finale delle diverse analisi degli economisti, diverge. Scrivono Boldrin e Levine:

Una fabbrica che produca scarpe è costosa e implica chiaramente dei costi fissi. Una volta che la fabbrica sia costruita, le scarpe possono essere prodotte in maniera economica a un costo addizionale relativamente basso. Se vengono costruite due fabbriche di scarpe, la concorrenza tra loro farà abbassare i prezzi fino al costo marginale di produzione di un paio di scarpe, non lasciando niente con cui pagare i costi fissi delle due fabbriche (p. 131).

Un ragionamento del genere, che sembra funzionare perfettamente, dovrebbe indurre il legislatore a prevedere per i produttori di scarpe una soluzione legislativa che li tuteli dalla concorrenza. Ma questo non accade poiché le scarpe possono essere prodotte in un numero limitato. Boldrin e Levine, sovvertendo la tesi classica secondo cui le idee sono illimitate, sentono di poter equiparare l'industria delle scarpe a quella delle idee: se le scarpe possono essere prodotte in un numero limitato e le copie delle idee anche, il trattamento legale previsto per l'industria delle scarpe deve potersi applicare anche all'industria delle idee:

Il fatto è che ciò che è vero per le scarpe è altrettanto vero per le idee. Inondare istantaneamente il mondo con copie di un'idea utile non è più semplice che produrre un infinito numero di scarpe da parte di una fabbrica dalle dimensioni finite. Poiché le copie di idee sono sempre limitate, come le scarpe, esse tendono a essere vendute a un prezzo ben superiore rispetto al costo marginale di una copia addizionale (p. 134).

Il numero limitato di beni che si può produrre, in entrambi i casi, indica la “capacità” della fabbrica. In presenza di concorrenza, i competitori produrranno il bene finché il suo prezzo eguaglia il costo marginale. Quando la capacità delle fabbriche è limitata, l'offerta totale dell'industria (“ottenuta mettendo insieme un gruppo di fabbriche dalle dimensioni ragionevoli e possedute da imprenditori distinti”: p. 133) non sarebbe più in grado di offrire abbastanza beni da soddisfare la domanda. Il prezzo sarebbe a questo punto più alto del costo marginale e la differenza tra il prezzo e il costo marginale sarebbe proprio la rendita concorrenziale, sufficiente a compensare il produttore del bene. I produttori riterranno dunque conveniente “implementare una capacità produttiva tale che le rendite concorrenziali ottenute coprano il costo di costruzione delle fabbriche stesse” (p. 134):

La presenza delle grandi rendite iniziali è la carota per cui gli innovatori innovano, mentre la minaccia e l'arrivo degli imitatori è il bastone che costringe la capacità a crescere finché le rendite non vengono quasi completamente annullate (pp. 134-135). Il vantaggio temporale è quindi fondamentale. Poco dopo l'invenzione, alcuni imitatori cercheranno di replicarla. Se la copia è semplice e non richiede né ingenti costi e né tempi lunghi, gli imitatori saranno molteplici. Quanti più saranno gli imitatori e quanto più breve sarà il tempo in cui faranno ingresso nel mercato, tanto più rapidamente si raggiungerà una capacità non supportata dal mercato. Sfortunatamente le imprese meno efficienti usciranno dal mercato, date le rendite negative (perdite) che saranno costretti a sopportare. Boldrin e Levine ricordano al lettore che queste fasi, presenti naturalmente nello sviluppo di un'industria e note come “shakeouts” (ossia “ristrutturazione”), sono sempre accadute56 in qualsiasi industria e costituiscono il

paradigma della “legge del più forte” che, visto con un pizzico di cinismo, rappresenta un vantaggio per la collettività.

Vi è un dato da non trascurare: molte innovazioni sono rischiose, poiché non si è in grado di sapere se saranno un “flop” o no, se non a fatto compiuto57. L'imitazione di

una di queste invenzioni si renderà appetitosa quindi, solo dopo che il prodotto nuovo sarà “etichettato un grosso successo” (p. 142). A questo punto il suo ideatore avrà già guadagnato un bel po'.

Infine, affermano Boldrin e Levine, vi è un altro aspetto benefico che deriva dal “vantaggio della prima mossa”: “la ben nota preferenza che tutti noi abbiamo per il possesso di originali, copie firmate e prime edizioni58”, fenomeno che riguarda più in

generale “l'esistenza di un vasto mercato per le vendite complementari” (p. 140). L'inventore è in molti settori (come quello dello sport, della musica, dei film, dei libri, dei videogame etc.) in grado di guadagnare profitti extra da business complementari,

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Boldrin e Levine ricordano l'ultimo shakeouts avvenuto nel 2000-2001 nella industria degli affari in rete. In quegli anni migliaia di imprese dot-com fallirono a causa dell'ingresso di competitor nel mercato concorrenziale (poiché l'idea innovativa di fare affari in rete non era brevettabile). Il boom nel settore fu seguito dalla ristrutturazione e infine da una stabile crescita.

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Tant'è che “più basse sono le probabilità di successo meno probabile è l'innovazione, sia sotto concorrenza sia in regime di monopolio” (Boldrin e Levine, 2012, p. 143).

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rispetto a quello in cui la sua idea è direttamente coinvolta. Il settore di vendita complementare più importante è quello della pubblicità, in cui dalla cessione di prodotti gratis si possono ottenere notevoli guadagni. In fin dei conti:

l'inventore è un grandissimo esperto dell'insieme di idee che definiscono la sua invenzione, e quindi sarà senz'altro richiesto in qualità di consulente da chi desidera utilizzare quell'idea (Boldrin e Levine, 2012, p. 141).

La tesi di Boldrin e Levine sulla capacità delle industrie in concorrenza fin qui esposta incontra un limite che, come essi stessi argomentano, rappresenta in realtà un “limite dell'innovazione concorrenziale”. Infatti la teoria della concorrenza è corretta se si riferisce ad un tipo di industria (come appunto quella delle scarpe) “divisibile”. In questo caso potranno essere costruite industrie più o meno grandi a seconda della capacità richiesta da un dato mercato. Non verranno costruite industrie tanto grosse da rischiare sovracapacità. I produttori potranno modulare la grandezza della propria industria finché le rendite saranno positive. Ma in certi casi questo non è possibile:

In contrasto con quanto avviene per le scarpe, è relativamente più semplice produrre un gran numero di libri o di dischi in un brevissimo spazio di tempo. […] Se questo succede, la rendita ottenuta potrebbe risultare insufficiente a coprire il costo fisso, perché, ad esempio, il libro in questione è molto complicato e ha richiesto molto tempo per essere completato: non c'è modo di controbilanciare questa combinazione di capacità eccessiva e ingenti costi fissi producendo un libro più piccolo, perché quest'ultimo non sarebbe un sostituto del libro in questione ma semplicemente un libro diverso (p. 138).

La spiegazione che in tali casi giustifica, per l'industria delle idee, un trattamento differente da quello riservato all'industria delle scarpe risiede dunque nel concetto di “indivisibilità”. Pertanto, tale indivisibilità, insieme ad una capacità produttiva iniziale molto grande rispetto al mercato, sono “caratteristiche peculiari del processo innovativo” che possono alterare il corretto funzionamento del mercato concorrenziale e quindi avvalorare la tesi tradizionale a sostegno dell'esigenza di un sistema legale di tutela della proprietà intellettuale. Dichiarano Boldrin e Levine:

Siamo chiari: come argomentazione teorica, essa è valida e non ci sogneremmo nemmeno lontanamente di negarla. Si tratta, infatti, di un caso particolare dello stesso modello che abbiamo appena discusso. La teoria dell'innovazione concorrenziale ammette sia il caso in cui la capacità minima è piccola e l'indivisibilità irrilevante sia quello in cui, invece, è rilevante. La domanda decisiva è: quanto frequenti sono queste ultime circostanze, rispetto alle altre? (p. 138).

Questa di fatto è la più utile domanda da porsi poiché consente di dare una risposta che sembra condivisa da molti.

Secondo Giuseppe Portonera (2019), il cui pensiero pare pienamente condivisibile, “bisogna riconoscere che il processo e i costi di scoperta (con annesse difficoltà) variano da settore a settore, per cui anche gli incentivi devono variare da settore a settore, così da evitare che le specificità di una determinata industria possano avere l’effetto di ampliare le conseguenze negative degli svantaggi del sistema brevettuale” (p. 20).

Gli economisti Boldrin e Levine sono ferventi sostenitori delle potenzialità della concorrenza, come si è potuto notare. Ma fin qui si è parlato delle sole invenzioni in un mercato concorrenziale. Il medesimo discorso deve essere esteso anche alle creazioni intellettuali, pertanto alla industria dei libri, delle notizie, dei film e della musica, tradizionalmente protetti dal copyright. Basti pensare alla industria dell'informazione giornalistica, da sempre competitiva, ancor prima che le notizie venissero diffuse in rete. Il copyright in questo settore non ha “mai fornito una vera protezione” poiché “protegge [tutt’al più solo] alcune parole specifiche, ma non le notizie stesse” (p. 37). La diffusione delle notizie in rete è poi incentivata dalle agenzie di stampa che invitano a “inviare per e-mail una copia della notizia a un amico” (p. 37). In questo settore i guadagni si rendono possibili grazie al classico “vantaggio della prima mossa” e in misura minore dagli abbonamenti ai siti web. I “clienti molto impazienti” sarebbero disposti a pagare grosse somme pur di avere prima di altri la disponibilità dell'informazione di valore. Il fenomeno somiglia a ciò che avviene per le notizie finanziarie, scrivono i due economisti, ma a differenza di quelle, siti come Yahoo, Reuters o CNN contengono informazioni per le quali “l'impazienza della gente è senz'altro minore” e dunque devono accontentarsi delle “entrate che incassano dagli inserzionisti” o delle “piccole quote che fanno pagare ad altre agenzie di stampa professionali” (p. 39).

3.6 IMITAZIONE

Le rendite concorrenziali sono il minimo che un innovatore possa aspettarsi perché in genere, guadagna molto di più (p. 139).

A maggior ragione, se la copia di un buon prodotto richiede tempo e denaro, l'innovatore guadagna molto di più, nel frattempo che gli imitatori diventino in grado di offrire sul mercato un prodotto simile al suo.

L'imitazione del resto, affermano i due economisti, “può richiedere riprogettazione o no; la maggior parte delle volte la richiede, poiché è piuttosto difficile imitare un prodotto senza nemmeno osservarlo ed esaminare i suoi componenti interni” (p. 143). L'imitazione ha due notevoli vantaggi: innanzitutto aumenta la capacità produttiva dell'imitatore (c.d. capacità produttiva addizionale). Infatti richiede sempre un investimento iniziale, che consiste nell'acquisto di una copia dell'idea e nel tempo e risorse necessarie per portare avanti il processo imitativo. Il secondo vantaggio è rappresentato dalla ulteriore innovazione che da essa scaturisce: “[m]igliorare un poco la propria copia dell'idea o produrla più economicamente degli innovatori originali è un modo di aumentare le proprie rendite mentre, al tempo stesso, si aumenta la capacità produttiva disponibile” (p. 144). L'imitazione ricopre quindi, per i due economisti un inestimabile valore sociale59. Inoltre la esternalità imitativa è una

caratteristica connaturata al mercato concorrenziale. In qualsiasi settore commerciale vi è una continua influenza reciproca tra produttori: dal settore della ristorazione a quello della moda e del design, dal settore dello sport a quello di automobili, etc. Ma ciò non giustifica a loro avviso l'introduzione di un regime monopolistico, bensì al massimo quello previsto a tutela del segreto commerciale.

Tuttavia l'imitazione di una invenzione semplice (e che non può essere sia utile e sia segreta allo stesso tempo) può essere talmente facile da richiedere molto poco tempo e

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L'imitazione ha natura ambigua. L'atto di imitare, a seconda del contesto in cui è posto, può avere un'accezione positiva onegativa. L'imitazioneconsiste nella riproduzione influenzata o volutamente ricercata di un modello del quale se ne intendono riproporre le caratteristiche, tentando di

eguagliarlo. Se per esempio, in psicologia o per le scienze naturali, è un comportamento spontaneo e benefico alle volte (l'apprendimento di un bambino avviene per la maggior parte con la imitazione di altri soggetti), in ambito giuridico, assume una connotazione negativa che implica atti di concorrenza sleale.

costi irrisori. L'invenzione della carriola, per esempio è una di quelle. Ma l’esempio ha portata limitata per i nostri autori:

Young, Schumpeter, Arrow e i loro più recenti seguaci sembrano convinti che quasi tutte le idee siano come l'idea della carriola, diffuse gratuitamente e senza costi. Sembra tuttavia che l'esempio della carriola non si applichi, per esempio, all'abilità di preparare un buon caffè espresso, che pare rimanere ancora limitata ai confini italiani, o a quelli di Napoli, come sostiene un nostro amico comune (Boldrin e Levine 2012, p. 151).

Dunque pare che, secondo i due economisti le idee semplici, facili da imitare siano estremamente rare per cui ciò renderebbe il problema delle “esternalità imitative” risolto in partenza.

I teorici dell’economia dell’informazione globale predicano un abbandono di modelli concorrenziali poiché con l'avvento della informazione digitale, si producono beni (digitali appunto) molto facili da copiare, così che escludere il pubblico dall'uso di un'idea diventa estremamente difficile. In un sistema siffatto i produttori di idee rimarrebbero privi di rendite concorrenziali. Anche di fronte a queste “profezie” gli economisti Boldrin e Levine sembrano mantenere la calma: vi sono una molteplicità di invenzioni digitalizzabili banali e altrettante complesse; le idee banali sono economiche da comunicare e da creare; invece quelle complesse sono costose da creare e soprattutto da apprendere. Nell'attesa che il concorrente sia in grado di far fruttare il contenuto di una idea complessa, l'inventore percepirà profitti: “[i]n entrambi i casi, il costo di produzione delle idee e le rendite concorrenziali sono proporzionali l'un l'altro” (p. 162). Infine, il miglioramento dei sistemi tecnologici di trasmissione e riproduzione che ne diminuiscano le tempistiche necessarie è, a detta di Boldrin e Levine, un bene. Infatti, la diminuzione di prezzo che tale miglioramento comporta, in presenza di una domanda elastica e dunque sensibile al prezzo, farebbe addirittura aumentare i profitti.

Il problema dell’imitazione, si sostiene generalmente, è aggravato dalla concorrenza illegale dovuta alla globalizzazione. Ciò richiederebbe seri provvedimenti per rafforzare la protezione della PI. Boldrin e Levine smentiscono anche questo punto: la globalizzazione, aumentando le dimensioni del mercato, aumenta anche i profitti. Un maggior numero di consumatori potrà accedere ai prodotti: “[q]uesti prodotti sono il

frutto di ‘buone idee’, visto che erano in grado di generare profitto anche quando il mercato era più piccolo” (p. 164). Rendendo il mercato più ampio si rendono pertanto disponibili anche nuovi prodotti: le c.d. “idee marginali” (quelle cioè che se fossero state da subito “buone idee” sarebbero già state introdotte quando il mercato era più piccolo). A questo punto, la riduzione della protezione della PI in una economia globalizzata produrrebbe il vantaggio di ottenere molti più ricavi dalle “buone idee”. Le “idee marginali” diminuirebbero a causa della difficoltà di affermarsi sul mercato, ma verrebbero pur sempre prodotte o prodotte in un maggior numero di quanto avverrebbe in un mercato di dimensioni ridotte.