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La rappresentazione del femminile nei media italian

Irene Biemm

3. La rappresentazione del femminile nei media italian

Nel recente volume di Daniela Brancati, Occhi di maschio, volto a ricostruire la storia della tv italiana “dal punto di vista dei vinti” (e, quindi, anche delle donne), si legge che: «La televisione nasce ma- schio. Non solo i posti di comando sono per i maschi, ma la cultura che esprime è maschile»26. Questa affermazione può essere un buon punto di partenza per tentare un’analisi comparativa: cosa è successo dagli anni ‘50 ad oggi? Che tipo di evoluzione c’è stata nella rap- presentazione mediatica del mondo femminile nell’arco temporale che attraversa gli anni caldi del movimento neofemminista (anni ‘60-’70)? E che cosa è successo dopo (dagli anni ‘80 in poi), quando la parità sembrava ormai raggiunta? I media hanno fatto da trampo- lino di lancio al nuovo status sociale delle donne dandone ampia ri- sonanza, lo hanno semplicemente testimoniato o forse lo hanno ad- 25 G. Grossi-E. Ruspini, Introduzione…, op. cit., p. XXII.

26 Daniela Brancati, Occhi di maschio. Le donne e la televisione in Italia. Una

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dirittura contrastato, scegliendo di non rappresentarlo (perpetuando un immaginario tradizionale e anacronistico)?

Per cominciare a ragionare su questi interrogativi, risulta utile ri- prendere i principali modelli teorici avanzati dal mondo femminista (nordamericano ed europeo) che hanno orientato le analisi teoriche ed empiriche sul rapporto tra media e identità di genere. Saveria Capecchi27 li distingue efficacemente in tre modelli: il modello della

parità tra i sessi, che prevale negli anni ‘60 e ‘70, il modello della valorizzazione femminile, che si sviluppa negli ‘80 e ‘90, infine, il modello postgenere, che si sviluppa a partire dalla seconda metà degli

anni ‘90.

Negli anni ‘60 e ‘70 l’immaginario femminile proposto dai mass media viene aspramente criticato: visto come un condensato di ste- reotipi e pregiudizi sessisti, viene interpretato come un ostacolo al processo di emancipazione femminile, che in quel periodo era inter- pretato come il raggiungimento dell’uguaglianza tra donna e uomo. Celebre in questo senso la denuncia portata avanti da Betty Friedan28 che ritiene i media responsabili di un progetto di persuasione e di ma- nipolazione ideologica delle donne americane – che lei stessa battez- za “mistica della femminilità” – che consiste nel diffondere un’ideale di vita femminile confinato nella domesticità e centrato nella triade marito-figli-casa. Questo modello di vita in realtà non risulta affatto appagante per le donne ma le conduce spesso a maturare un senso di disagio, di frustrazione, di scontento. Le ricerche sui media aderenti a questo approccio denunciano inoltre lo squilibrio sia quantitativo che qualitativo tra donne e uomini rappresentati dai media: da un lato le donne risultano sottorappresentate numericamente rispetto agli uomini, dall’altro sono ritratte in un ventaglio limitato di ruoli (madre, moglie, raramente professionista). Quando vengono mo- strate nell’ambito lavorativo, le donne rivestono tipicamente funzio- ni subalterne a quelle maschili e comunque appaiono più interessate 27 Cfr. Saveria Capecchi, Identità di genere e media, Carocci, Roma 2006, pp.

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al successo sentimentale che a quello professionale. La pubblicità in questo periodo offre un’immagine idealizzata della donna che in- dossa, in alternanza, le vesti della casalinga oppure quelle di oggetto sessuale del desiderio maschile. Siamo di fronte a quello che viene definitivo un “annullamento simbolico” per cui le donne reali non esistono, esistono soltanto delle immagini femminili stereotipate e funzionali a precisi intenti commerciali ed ideologici29. Il fatto che i media scelgano di non rappresentare la partecipazione delle donne alla vita sociale, politica, lavorativa può avere ricadute negative sul- le aspirazioni delle giovani spettatrici che vengono implicitamente scoraggiate ad investire i loro progetti futuri sul lavoro, dando per scontato che la loro vita di donne possa essere piena e soddisfacente anche investendo totalmente nel “lavoro di cura”.

Negli anni ‘80 e ‘90 il modello della parità viene sostituito da quello della valorizzazione femminile che comporta un radicale ro- vesciamento di prospettiva: obiettivo delle donne non deve essere l’imitazione dei comportamenti degli uomini e l’integrazione con i valori dominanti maschili, bensì la valorizzazione della cultura fem- minile30. I media vengono percepiti come uno spazio utile per speri- mentare un diverso “sguardo sul mondo”, assumendo la prospettiva delle donne. Gli studi massmediologici che assumono questa posi- zione sono volti ad indagare lo specifico femminile, a prescindere da una sua comparazione con il maschile: quali modelli di donne sono presentati nei mass media? Di quali valori si fanno portatrici? In Italia rientrano in quest’area gli studi condotti a partire dalla seconda metà degli anni ‘80 da Milly Buonanno nell’ambito dell’Osservato- rio permanente sulla fiction televisiva31, che attestano una pluralità 29 Cfr. Gaye Tuchman, Arlene Kaplan Daniels, James Walker Benét, Hearth

and Home: images of women in the mass media, Oxford University Press, New

York 1978.

30 La teoria della differenza trova terreno fertile nell’ ambito del femminismo francese. Per approfondimenti si rimanda alla ricca elaborazione prodotta da Luce Irigaray, Hélene Cixous e Julia Kristeva.

31 Cfr. Milly Buonanno, Il reale è immaginario. La fiction italiana, l’Italia nella

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di modelli femminili, alcuni dei quali assolutamente non ancorati ad una visione tradizionalista (per esempio la “donna in carriera”).

Negli anni più recenti si approda infine al modello postgenere che rivendica il superamento delle dicotomie insite nel concetto di gene- re che risultano troppo rigide e inadatte ad accogliere altre forme di identità, ibride, che non possono essere incasellate nei confini pre- stabiliti che scindono nettamente il maschile dal femminile. Scrive al riguardo Saveria Capecchi: «Il modello postgenere non prospetta la fine delle differenze tra i sessi, ma esplora la possibilità di modificare la concezione di opposizione binaria uomo/donna tenendo conto della complessità del mondo in cui viviamo, dove sempre più vengo- no allo scoperto realtà quali l’omosessualità, il transgenderismo, (…) e, tra flussi migratori e l’aumentata mobilità sociale, si mescolano persone di razze, etnie e culture diverse»32. In questa prospettiva i media vengono visti in maniera ambivalente: talora – quando ripro- pongono modelli tradizionali – come ostacolo allo sviluppo di iden- tità di genere complesse, multiple e non irrigidite dentro i concetti di donna e uomo, talaltra come occasione inedita di dare visibilità a modelli differenti che rompono le gabbie di genere.

I media, in sostanza, vengono letti in maniera altalenante sia come potenziali agenti di mutamento che come strumenti di consolida- mento degli stereotipi più tradizionali. Se ci soffermiamo sul pano- rama massmediatico italiano, e in particolare sull’offerta televisiva, dobbiamo constatare che nel nostro paese la seconda funzione, quella di rinforzo, è senz’altro quella prevalente: l’immaginario di femmi- nilità, ma anche di mascolinità, che viene divulgato mediaticamente è ingessato sui più tradizionali stereotipi di genere e talvolta risulta addirittura anacronistico rispetto alla realtà corrente. I cambiamenti radicali intervenuti nella vita femminile negli ultimi decenni ven- gono raramente raffigurati nei programmi televisivi, fatta eccezione forse per alcune fiction in cui si presentano – talvolta in forma cari- caturale – alcune immagini di donna moderna, nelle sue varie decli- nazioni: la “donna medico”, la “donna poliziotto”, la “donna avvoca- to”. Più frequentemente si preferisce mostrare un ritratto femminile

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improntato ai rassicuranti ruoli di madre-moglie-casalinga oppure attingere all’immaginario parallelo – altrettanto stereotipato e per certi versi ancor più preoccupante – di “donna sexy”, oggetto del desiderio e dello sguardo maschile.

Giovanna Campani nel saggio Veline, nyokke e cicili33 riflette sul

backlash all’italiana, cioè sul contrattacco mosso alle conquiste fem-

ministe degli anni ‘70 e messo in atto da un insieme variegato di azioni politiche e culturali che convogliano nel ri-affermare nel no- stro paese una cultura conservatrice e antifemminista. Backlash è il titolo di un libro scritto dalla giornalista americana Susan Faludi nel 199134 per denunciare la deriva antifemminista maturata durante la presidenza di Ronald Reagan nell’America degli anni ’80. Strumento chiave del contrattacco fu allora, come adesso in Italia, la rappresen- tazione mediatica delle donne e delle relazioni tra i sessi veicolata e diffusa su larga scala da televisione, stampa, cinema. Una rappresen- tazione fortemente sessista e lesiva dei diritti delle donne. Mentre però nel contesto americano erano e sono presenti anticorpi collau- dati dovuti ad una sedimentazione del pensiero femminista e della cultura di genere, l’Italia è esposta ad un maggior rischio (Campani parla di una “fragile stagione italiana dei diritti delle donne”). Il nostro paese viene annoverato come fanalino di coda nell’ambito dell’Unione Europea in vari ambiti: dalla rappresentanza politica, alla partecipazione al mercato del lavoro fino ad arrivare ai diritti riproduttivi; se a questi dati si va ad aggiungere una rappresentazio- ne mediatica del femminile che rasenta l’immaginario pornografico, ecco che scaturisce l’“anomalia italiana” di cui parla Campani.

Sulla stessa linea di pensiero, Lea Melandri riflette sulla inedita visibilità pubblica del corpo femminile attivata attraverso i media italiani e si domanda se quelli esposti siano da considerarsi “corpi liberati o corpi prostituiti”35: «Si può dire che il corpo esce dall’om- 33 Giovanna Campani, Veline, nyokke e cicili. Femministe pentite senza sex e senza

city, Odoya, Bologna 2009.

34 Susan Faludi (1991), Contrattacco. La guerra non dichiarata contro le donne, trad. it., Baldini & Castoldi, Milano 1992.

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bra, si prende la sua rivincita, ma nel momento in cui compare sulla scena pubblica si vedono più chiaramente i segni che la storia ci ha lasciato sopra, svalutandolo, naturalizzandolo: è il corpo-oggetto, il corpo-merce, oggetto di consumo, lontano da quell’Io incorporato, a cui miravano i movimenti antiautoritari degli anni settanta»36. Nel documentario Il corpo delle donne37 Lorella Zanardo ha messo in luce le aberrazioni prodotte dalla tv generalista italiana attraverso la reite- razione martellante di modelli di donne artefatte, irreali, caricaturali, assolutamente distanti dalla maggior parte delle donne e ragazze in carne ed ossa che incontriamo nella vita quotidiana. Scrive Zanardo: «La tv la puoi guardare, la puoi sopportare, ma solo pensando che è un grande circo. I volti delle donne reali sono stati occultati; al loro posto, la proposizione ossessiva, volgare e manipolata di bocche, co- sce, seni: una rimozione e sostituzione con maschere e altri materiali. Dove sono finite le “qualità” del femminile nelle immagini che oggi dominano?»38.

Le immagini di donne svestite e seducenti che passano in tv sem- brano ideate appositamente per soddisfare il pubblico maschile an- che se, per paradosso, il pubblico televisivo è costituito in maggio- ranza da donne. Questo fa sì che le telespettatrici finiscono per con- formarsi a modelli femminili creati appositamente per assecondare i presunti desideri maschili. Si deve a Laura Mulvey l’elaborazione del concetto di male gaze39: nel cinema (ma anche in televisione), lo sguardo presupposto della telecamera è quello di un maschio ete- rosessuale. Spettatrici e spettatori sono indirizzati a vedere i film

Boringhieri, Torino 2011, p. 73. 36 Ibidem.

37 Per vedere il documentario: http://www.ilcorpodelledonne.net/.

38 Lorella Zanardo, Il corpo delle donne, Feltrinelli, Milano 2010, p. 191. Il brano è tratto dal testo del documentario che Zanardo riporta in appendice al libro.

39 L’elaborazione di Laura Mulvey è avvenuta all’interno di un contesto parti- colarmente fecondo per quanto concerne il dibattito sul rapporto tra cinema e pubblico femminile: quello della rivista inglese Screen. Cfr. Laura Mulvey,

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assumendo la prospettiva maschile: scrutando il corpo femminile come oggetto del desiderio. Questo meccanismo incide in maniera perversa non solo sul modo in cui gli uomini guardano le donne (oggettivando il corpo femminile) ma anche su come le donne guar- dano se stesse e le altre donne. Riflettendo su questo punto Zanardo commenta: «Abbiamo introiettato il modello maschile così a lungo e così profondamente da non sapere più riconoscere cosa vogliamo veramente e cosa ci rende felici. Voglio dire che ci guardiamo l’un l’altra con occhi maschili, guardiamo i nostri seni, le nostre bocche, le nostre rughe come pensiamo un uomo li guarderebbe. Il modello corrente di bellezza non ci rappresenta ed è perlomeno strano che la pubblicità utilizzi immagini con riferimenti sessuali appetibili per i maschi per attrarre pubblico femminile…»40.

È difficile valutare gli effetti prodotti da un’esposizione continuativa e di lungo periodo a questo tipo di programmazione televisiva riguar- do alla concezione dei ruoli di genere. Si può tuttavia convenire che non è senz’altro auspicabile che le nuove generazioni, e in particolare le bambine/ragazze, siano accompagnate nel loro percorso di crescita da un immaginario così povero, volgare, umiliante. Queste sono le preoccupazioni espresse dal Comitato Media e Minori (responsabi- le della corretta applicazione del “Codice di Autoregolamentazione Tv e Minori” a tutela del target televisivo infantile), che nel 2004 ha stilato un documento di denuncia dal titolo La rappresentazione

della donna in televisione. Nel documento si legge che «quello che la

televisione rappresenta e rafforza ogni giorno è “un modello” più che semplicemente un’immagine femminile. Le donne, questo ci dice la televisione, per lo meno quelle giovani e belle, trovano normale usare il proprio corpo e l’ammiccamento erotico continuo come un mezzo per “arrivare”. Questo è il messaggio prevalente, inequivo- cabile quanto inaccettabile». Se ne conclude che l’immagine delle donne che la tv propone, in particolare nella pubblicità e nell’in- trattenimento, «non può essere certamente considerata positiva per l’equilibrato sviluppo dei minori». Tale rappresentazione del femmi- nile opera negativamente a due livelli: sia sull’auto-percezione del- 40 L. Zanardo, Il corpo delle donne, op. cit., p. 192.

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le donne stesse (immagine personale) sia sulla percezione che delle donne maturano gli uomini e anche i minori (immagine sociale). Traducendo la questione sotto forma di domande, ci si chiede: «che idea si fanno delle donne gli uomini del futuro, cioè i ragazzi di oggi? Che le donne (eccettuate madri e sorelle, secondo il vecchio stereotipo), sono solo corpi da esibire o, come spesso accade nei talk show e reality show, donne in competizione per la conquista di un uomo? E che idea possono farsi le donne del futuro, cioè le bambine e le adolescenti? Che debbono affannarsi per costruirsi corpi e visi spendibili in un invasivo e onnipresente gioco di seduzione più o meno volgare allo scopo di sopravvivere?».

In effetti i minori costituiscono il target più vulnerabile rispetto ai messaggi sessisti proposti perché non possiedono ancora gli strumen- ti necessari per valutarli criticamente. Questi strumenti dovrebbero essere appresi in famiglia ma, come spiega Morcellini nel suo libro

La tv fa bene ai bambini, è proprio il pubblico degli adulti ad essere

abituato ad una visione passiva della tv. Scrive Morcellini: «Con un consapevole – e provocatorio – rovesciamento dei luoghi comuni possiamo a questo punto affermare che la televisione sembra avere effetti indesiderabili e pericolosi soprattutto per gli adulti. Ed infatti i veri teledipendenti siamo noi adulti: la generazione dei padri e delle madri (la “centralità” televisiva, nella classificazione delle ricerche di mercato) e dei nonni (i maturi-anziani, la platea più consistente della tv generalista). Proprio quelli che si lamentano perché la tv fa male ai bambini e vorrebbero impegnarsi a vietarla o a moderarne il consumo»41.

Laddove la famiglia non sia in grado di provvedere ad una corret- ta alfabetizzazione televisiva si rende ancor più necessario il ruolo della scuola. L’educazione mediatica diventa parte integrante di un progetto di promozione di una cittadinanza attiva e democratica in quanto, come ci ricorda un recente documento del Parlamento eu- ropeo, un elevato livello di alfabetizzazione mediatica rappresenta oggi una «componente importante dell’educazione politica che aiuta le persone a rafforzare il loro comportamento di cittadini attivi e

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la loro consapevolezza in materia di diritti e doveri», partendo dal presupposto che «cittadini bene informati e politicamente maturi rappresentano la base di una società pluralistica»42.

42 Relazione del Parlamento europeo sull’alfabetizzazione mediatica nell’am- biente digitale (2008/2129(INI)).

Irene Biemmi

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