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Le ragazze di Adjohoun si raccontano

Sonia Elisabetta Chessa

4. La ricerca sul campo: incursioni e testimonianze nelle realtà non governative di tutela dei minori vulnerabili.

4.2 Le ragazze di Adjohoun si raccontano

Non è stato facile guadagnarsi la fiducia della responsabile del Centro. Solo a pochi giorni dalla data della mia partenza Suor 46 Intervista a Samuel Hossou, Responsabile del Centro La Passerelle, Porto

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Le pratiche socio-culturali del maltrattamento sulle minori e sui minori in Bénin

Martine mi permette di intervistare le ragazze accolte. Tra l’altro non capiva esattamente quale fosse la mia richiesta, non è abitudine, infatti, “dar voce” ai minori e soprattutto alle minori e non solo in Bénin. Così ho atteso pazientemente e l’attesa è stata ricompensata mille volte dalla sincera disponibilità da parte delle ragazze intervi- state, che si sono messe a nudo con la voglia di raccontarsi, titubanti, emozionate, incuriosite e anche divertite, ma soprattutto sofferenti del proprio passato e incerte, a ragion veduta, del proprio futuro. Le ragazze, mediamente di un’età compresa tra i quindici e i diciassette anni, pur rispettando alcune tracce, si sono espresse essenzialmente in forma libera e alcune di queste narrazioni sono state tradotte si- multaneamente dalle lingue Wémé e Fon-gbe alla lingua francese47.

Mariette: Voglio parlare nella mia cultura, in lingua Wémé, della storia della mia vicina. Si tratta di una mia compagna, Adeline, la più grande dei suoi fratelli, la cui famiglia l’ha costretta a sposarsi contro la sua volontà, l’hanno data via per mariage forcé, non voleva ma i parenti l’hanno costretta; è scappata in Togo, ma l’hanno ripresa e portata dal marito. Ancora sta con lui, non ha bambini. Un’altra storia è quella di una mia compagna di scuola di quindici anni, ma la famiglia le dice che deve lasciare la scuola perché è meglio che apprenda un mestiere. Allora lei inizia l’apprentissage, ma durante quell’anno la fami- glia decide di darla via in matrimonio. Allora si è rivolta a un’organizzazione, un centro, è ancora là.

Odile: La mia è una storia di «enfant placé». Rientravo da scuola con le compagne del mio villaggio. A casa mio padre dice che non ha più soldi per la scuola e che ero una femmina e che quindi non avevo il diritto di andar- ci, i miei fratelli invece sì. Avevo otto anni quando mio padre ha deciso di “piazzarmi” da una dame in Nigeria.

47 Alcune ragazze hanno testimoniato i propri vissuti in lingua francese, altre interamente nel loro idioma. Amen, studentessa beninese, ha svolto la me- diazione linguistica e simultanea dalle lingue Wémé e Fon-gbe al francese. Le interviste sono state interamente registrate. Per la traduzione ha collaborato Ephrem Diossou, ONG Action-Plus. Cotonou, Novembre/Dicembre 2009.

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Il giorno stesso mi portano dalla signora, che aveva già dato dei soldi a mio padre. A partire da quel momento è iniziato il mio calvario nel commercio; le mattine andavo a vendere dolcetti e la sera vendevo tessuti nel mercato di Owedè e inoltre svolgevo tutte le faccende domestiche. La signora con i suoi figli dormivano in casa, io dormivo per terra in cucina. Non vedevo un soldo! Una notte, su consiglio dei miei vicini, sono scappata e mi sono rifu- giata da loro. La mattina dopo mi hanno affidata a un tassista che mi ha portata alla frontiera con il Bénin, da lì ho preso un taxi per Porto Novo. A Ouandò sono caduta nelle mani di un tassista che mi ha visto molto picco- la, mi ha chiesto “dove vai?” Ho risposto ad Azolwissè, ma lui mi dice “non ti porto a casa tua ma ti prendo con me!”. Contro la mia volontà. Per fortuna passava un agente della Gendarmerie, sono uscita dal taxi e gli ho raccontato il fatto, ma l’agente ha detto che non si occu- pava di queste situazioni, allora ho preso uno zem, sono andata da una zia ad Azowlissè dove sono rimasta per un mese. Quando mio padre ha saputo che mi trovavo da lei in Bénin mi ha detto che mi avrebbe “piazzata” nuo- vamente da un’altra signora in Nigeria. Sono scappata un’altra volta e sono venuta direttamente dalle Soeurs de

la Providence.

Marie: Ho quindici anni. Il mio è un caso di enfant placé. Sono stata “piazzata” presso una mia zia prossima al parto: “ho bisogno di te, è meglio che tu venga da me, perché la tua famiglia è povera,…”; così i miei genitori mi hanno affidata a lei e sono diventata una servetta, lavoravo tal- mente tanto che non puoi immaginare. Pensa che mia zia ha una sartoria, mentre lavorava alla macchina da cucire a pedali dovevo restare dietro di lei con un ventaglio per procurarle dell’aria.

Lineuse: Ho sedici anni. Il mio è un caso di vidomègon. Mi hanno piazzata presso una zia a Cotonou, mi alzavo tutti i giorni alle quattro del mattino, facevo i lavori do- mestici e badavo ai suoi figli molto piccoli, poi mi recavo

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al mercato. La mattina non potevo mangiare e stavo di- giuna fino a mezzogiorno, dovevo trasportare le bottiglie al mercato, fare le consegne e tutto il resto; è questo che passavo con i miei parenti.

Ottilie: La mia è una storia di vidomègon. Mi occupavo di tutti i lavori domestici, tutte le mattine mi svegliavo prestissimo, mi occupavo dei figli della mia padrona, li lavavo, li nutrivo, facevo tutto. Non mangiavo quasi mai e inoltre andavo a vendere gli articoli al mercato, senza poter riposare, senza soldi. Un giorno ho chiesto del denaro alla padrona “voglio dei soldi” le ho detto, mi ha bastonata. Per questo mi trovo nel Centro.

Cristine: La mia storia di enfant placé comincia quando mio padre, all’insaputa di mia madre, mentre vivevo con una zia in un altro villaggio, decide di vendermi a una sua cugina in Nigeria, che promette di farmi imparare un mestiere e sono partita. Là mi occupavo di tutte le faccende domestiche in casa di mia zia. Una sera la sento parlare con un marabù (sacerdote musulmano) che gli chiede se ha bambini per «faire de l’argent», e complot-faire de l’argent», e complot- de l’argent», e complot-l’argent», e complot-», e complot- tavano per vendermi. Un giorno un mio zio venuto in Nigeria, mi dice “tua madre se n’è andata, ha divorziato”; racconto a mio zio del marabù e mio padre allora viene a riprendermi. Rientro nel villaggio dove a casa c’è la sec- onda moglie di mio padre che mi tratta male, è gelosa e non mi dà mangiare. Mio padre decide di non iscrivermi a scuola, dice “non ho l’abitudine di mandare a scuola le figlie”. Avevo dieci anni e un po’ di soldi e decido di pa- garmi la scuola alternativa due volte la settimana. Costava cento cefa al giorno. Finiti i soldi, mio padre mi dice che ha trovato un uomo, un infermiere che m’insegnerà il mestiere, mi porta da lui, mi lascia là e parte. Scopro che in quella casa non c’è nessuno. L’infermiere rientra la notte e vuol dormire con me. Un giorno, quell’uomo mi ordina di andare a comprare la Kassà, così scappo via e rientro a casa da mio padre e gli dico che voglio andare da mia madre “tua madre ha divorziato e quando si di-

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vorzia le figlie non hanno il diritto di seguire i genitori che divorziano, se tu vai morirai!”. Vado via ugualmente, ma resto poco anche da mia madre e mi reco da una zia. Un giorno arriva un uomo che mi dice: “È tuo padre che mi ha chiesto di venire da te perché vuole che tu diventi la mia donna”. La gente del quartiere ha iniziato a par- lare, parlare, così mi sono ritrovata al Centro.

Ho ascoltato questi racconti, di non facili vissuti, dentro un’aula per la didattica48, e le ragazze intervistate sembravano avere proprio ciò che Pasolini definiva «piena coscienza di quel qualcosa di speciale, che è la rievocazione della propria vita» e che per questo “ce l’hanno messa tutta”49.