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La nullità dei contratti stipulati in violazione delle regole di condotta

Capitolo 5: Verso un rimedio “globale” di nullità a tutela dell’investitore?

5.2. La nullità dei contratti stipulati in violazione delle regole di condotta

luce dell’evoluzione legislativa.

Sulla soluzione accolta una decina di anni or sono dalle Sezioni Unite e da allora divenuta diritto vivente318, riguardo al rimedio conseguente alla violazione di regole di condotta da parte dell’intermediario (da allora identificato in una responsabilità puramente risarcitoria), merita di essere fatta qualche considerazione in più.

In particolare, come già fatto trasparire nel corso della trattazione, la scelta dei giudici di legittimità per il rimedio risarcitorio sembra trascurare alcune novità che, probabilmente, sarebbero risultate degne di una maggiore considerazione.

Chiaro che, come già emerso, dal punto di vista dogmatico la soluzione della nullità del contratto derivante dalla violazione delle regole di condotta presenti qualche inconveniente in più rispetto a quella della responsabilità risarcitoria dell’intermediario. I punti dolenti di tale soluzione, propugnata dalla giurisprudenza maggioritaria prima dell’assestamento operato dalle Sezioni Unite, abbiamo visto essere numerosi, sia dal punto di vista dei

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costi-benefici (per cui risultava una forte internalizzazione dei costi conseguenti a tale rimedio, che si ripercuotevano su un aumento dei costi del servizio), che dal punto di vista della teoria del diritto.

In questo senso, la nullità, secondo la configurazione dottrinale e giurisprudenziale derivante dal codice del ’42, veniva considerata il rimedio appropriato in caso di violazione di norme attinenti ad elementi intrinseci della fattispecie negoziale (ovvero la struttura ed il contenuto), piuttosto che di obblighi di condotta; in tal caso si produrrebbe al massimo una responsabilità di tipo risarcitorio.

Verso il rimedio risarcitorio, come ricordato, spingeva anche la volontà di dare rilevanza al possibile concorso di colpa dell’investitore nella produzione del danno, che avrebbe eventualmente attenuato la responsabilità risarcitoria dell’intermediario (cosa non possibile adottando un rimedio “tutto o nulla” come la nullità).

Indipendentemente da quelle che possano essere le soluzioni più attinenti alla concezione di giustizia sostanziale che ciascun interprete può avere, l’adozione della soluzione enunciata pare aver ignorato alcuni segnali decisivi inviati dal legislatore, che sembrava e sembra tutt’ora spingere verso la nullità.

In particolare, la stessa Cassazione nelle sentenze gemelle con cui definisce definitivamente la questione, non ignora del tutto la tendenza a “spostare”, soprattutto da parte del legislatore comunitario, le regole di condotta sul piano della validità del contratto.

Forse per eccessiva cautela nel modificare l’impianto codicistico sopra accennato che colloca la nullità come conseguente alla violazione di norme attinenti ad elementi intrinseci del contratto, i giudici di legittimità si sono mostrati cauti nello sviluppare questa linea, affermando che “una tendenza non è un acquisizione”.

Nella disciplina figlia della determinante comunitaria, infatti, questa tendenza si sta manifestando soprattutto nell’ambito di tutela del consumatore e del contraente debole in generale (e su tutti i citati ad esempio

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art. 67-septiesdecies del Codice del Consumo, che si applica anche alla disciplina dell’offerta fuori sede di strumenti finanziari; ma anche l’art. 23 TUF quando impone l’obbligo di consegna della copia del contratto al cliente).

Come rilevato precedentemente non sembra da ignorare neppure il fatto che l’introduzione dell’art. 67-septiesdecies del Codice del Consumo sia avvenuta nel momento storico in cui era in corso tale controversia tra le corti di merito, sul rimedio da reputare più opportuno in tali casi nel silenzio della legge. Forse che fosse opportuno riconoscere una portata sistematica a tale articolo in questa disciplina speciale? La Corte ha voluto, forse con troppa fretta, riconoscerla come una disposizione legislativa isolata; ma nemmeno questo avrebbe forzatamente impedito un’eventuale applicazione analogica della norma in caso di violazione di obblighi di condotta (nonostante alcuni rilevino una differenza nella disciplina della commercializzazione a distanza di servizi finanziari ai consumatori, meritevole, per la debolezza ancora maggiore che caratterizza il contraente debole, di una tutela “rafforzata”). Per altro possiamo rilevare come l’art. 23 TUF, che prescrive un requisito di forma ed un obbligo di consegna di una copia del contratto in assenza dei quali questo risulta nullo, sia assimilabile, per parte della dottrina, ad un obbligo di condotta incombente sull’intermediario, che sarebbe, quindi, sanzionato con la nullità319. Questa tesi ha trovato un’importante sponda nella recente decisione delle Sezioni Unite sul cd. “contratto monofirma”. Il punto cruciale sembra essere la stretta correlazione nell’art. 23 TUF tra quello che è un obbligo di forma (e quindi di struttura del contratto) e quello che non può che essere un obbligo di condotta, ovvero la consegna della copia del contratto al cliente.

Già in tempi lontani dalla genesi di questa disciplina comunitaria incentrata sulla tutela del contraente debole mediante il livellamento delle asimmetrie informative, autorevole dottrina suggeriva di fare attenzione a distinguere i veri e propri requisiti che attengono all’aspetto esteriore della forma (e,

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quindi della dichiarazione di volontà) dagli aspetti che si considerano già parti del regolamento contrattuale perché “in funzione” di esso.

In proposito, è stato affermato che: “non sono negozi formali quelli in cui la legge ricollega l’esistenza del negozio ad un dato comportamento, come la consegna della cosa nei contratti reali” aggiungendo che “la consegna qui è parte integrante dello stesso regolamento di interessi dedotto a contenuto del negozio”320

.

Esaminando attentamente il contenuto dell’art. 23 TUF possiamo osservare come le stesse prescrizioni della redazione per iscritto del contratto e della consegna dell’esemplare allo stesso investitore, siano più assimilabili ad un comportamento imposto all’intermediario che ad un requisito “indifferente, come tale, nella sua oggettività al comportamento di chi lo pone in essere”321

. Originale, ma meritevole di condivisione, appare sempre l’orientamento che si concentra sull’utilizzo del termine “redazione” da parte del legislatore. Egli rileva che se la lettura appropriata non fosse quella sopra proposta, non avrebbe senso utilizzare il termine redazione, giacché la predisposizione dello scritto presuppone di per sé la sua redazione. La forma meriterebbe, quindi, di essere considerata almeno sotto due profili; non solo come classica forma ad substantiam per dare certezza all’accordo, ma anche e soprattutto come forma che dà certezza alla regola contrattuale, che starebbe proprio nella redazione per iscritto del contratto e nella sua consegna. Si può quindi giungere alla conclusione secondo cui, in aderenza alla sentenza n. 898 del 16 gennaio 2018 delle Sezioni Unite in cui la nullità viene definita “sanzione” per il comportamento inosservante dell’intermediario, proprio in funzione del rapporto asimmetrico tra le due parti contrattuali, il superamento della asimmetria non è garantito da una forma ad substantiam in genere indifferente al contenuto dell’atto, quanto dallo specifico comportamento a cui è tenuto l’intermediario tale, in primis, da garantire la certezza della regola contrattuale.

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BETTI, pag. 279 ss.

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Accettando questa lettura non sembra troppo azzardato fare un salto logico; se l’art. 23 TUF, prescrivendo una determinata forma per la conclusione del contratto e l’obbligo di consegna, può essere visto, almeno in parte, come un obbligo di condotta ed è sanzionato con la nullità, perché gli altri obblighi di condotta nel TUF non potrebbero trovare in essa la sanzione più appropriata in caso di loro violazione?

Si ricorda inoltre come il legislatore abbia inserito progressivamente previsioni di nullità nella disciplina per chiarire le conseguenze di certe violazioni. La legge n. 1/1991 glissava completamente sulle sanzioni da applicare in caso di mancata osservanza della norma che imponeva la redazione scritta del contratto. Dopo un’ondivaga giurisprudenza il d.lgs. 58/1998 ha chiarito, invece, il punto parlando di nullità. Nella disciplina è stata inserita poi nel 2005 la già citata disposizione che sanziona con la nullità la violazione delle disposizioni attinenti alla commercializzazione dei servizi finanziari a distanza. D’altro canto, non si ricordano previsioni della normativa in questione alla cui violazione debba conseguire, sulla base del testo scritto, la responsabilità risarcitoria dell’intermediario.

Sembra, quindi, che ad ogni correzione, specificazione, aggiornamento del TUF e della disciplina generale dei servizi finanziari, il legislatore si schieri per un rimedio di nullità in conseguenza di violazioni di regole di vario tenore (formali, se tali si possono definire, ma anche di condotta per quanto riguarda la commercializzazione a distanza). Un dato che forse non è così insignificante quanto sembra, soprattutto tenendosi conto del fatto che nel momento in cui, con l’introduzione degli art. 67-bis e ss. si prendeva la strada della nullità, nelle corti si dibatteva sulle conseguenze della violazione degli obblighi di condotta. Per cui, se al legislatore fosse stato tanto a cuore ribadire questa specialità rispetto ad un sistema che, sulla base del dato della legge, conosce quasi esclusivamente previsioni di nullità, sarebbe stato opportuno per lui prendere testualmente questa posizione. Appurare che non lo abbia fatto, fornisce un argomento in più verso la linea sostenuta.

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Tutti questi elementi ci spingono verso il pensiero che il legislatore voglia prediligere il rimedio della nullità anche per violazione delle regole di condotta.

5.2.1. Il ridimensionamento dei problemi dogmatici e delle conseguenze economiche in seguito all’adozione del rimedio della nullità

Appurato che i segnali dati dal legislatore tendono verso tale prospettiva remediale, è opportuno notare come anche varie perplessità dal punto di vista dogmatico e dei costi-benefici meritino un ridimensionamento.

Innanzi tutto l’internalizzazione dei costi che può conseguire all’adozione del rimedio della nullità non sempre è tanto più alta di quella conseguente all’adozione di rimedi risarcitori.

In più, il riconosciuto inconveniente che sta nell’impossibilità di dare rilevanza al concorso di colpa dell’investitore merita di essere ridimensionato, considerato lo stato delle cose. Si è visto, infatti, come raramente la giurisprudenza abbia configurato una corresponsabilità in capo all’investitore, arrivando ad addossarne una pressoché oggettiva ed assoluta in capo all’intermediario. Questo finché non sia provata una condotta truffaldina e maliziosa in capo all’investitore. La critica di una parte della dottrina322 è proprio questa; si definisce “assistenziale” questa soluzione in grado di compensare ogni perdita degli investitori e di neutralizzare quasi completamente il rischio intrinseco legato all'attività di investimento nei mercati mobiliari. Adottare, quindi, il rimedio della nullità non pregiudicherebbe l’intermediario allo stato effettivo delle cose, tanto più di quello risarcitorio.

Ponendosi, nell’esame della questione, in una prospettiva di analisi economica del diritto e di efficienza di tutela dell’investitore, si potrebbero,

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effettivamente porre alcune obiezioni ed è, di conseguenza, necessario, soffermarsi su alcune problematiche che possono scaturire dalla soluzione che qui si propone.

Innanzi tutto, meritano un approfondimento, nel momento in cui si propone il rimedio della nullità come quello più adatto per la violazione delle regole di condotta, le vicende relative alla circolazione dello strumento finanziario. La questione non sembra, tuttavia, porre problemi insormontabili. In regime di dematerializzazione dei titoli di massa323, la tutela del terzo è assicurata dall’art. 83-quinquies, comma 2, TUF, norma che riproduce l’art. 1994 c.c.324. Nei casi descritti dagli articoli citati si perfeziona, infatti, qualora ricorrano i presupposti del negozio astrattamente idoneo a trasferire la proprietà (un negozio cioè in tutto valido ed efficace salvo che per il difetto di titolarità del dante causa), della registrazione ottenuta a proprio favore dall’avente causa e della buona fede di quest’ultimo, un acquisto a non

domino, per effetto del trasferimento del possesso sul titolo.

La posizione di chi ha acquistato a non domino sarà, quindi, inattaccabile dall’ex proprietario, anche in seguito alla dichiarazione di nullità del contratto mediante il quale si è effettuato il primo trasferimento.

Ulteriori problemi potrebbero sorgere analizzando la posizione dell’investitore stesso. In particolare da un punto di vista di effettività della tutela si può dubitare che la nullità costituisca il rimedio più adeguato nel suo interesse. Questo perché, inevitabilmente, alla nullità conseguono

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In base all’art. 83-bis, comma 1, TUF: “I valori mobiliari regolati dalla legge italiana ammessi alla negoziazione o negoziati in una sede di negoziazione italiana o di altro Paese dell’Unione europea con il consenso dell’emittente possono esistere solo in forma scritturale”.

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L’art. 1994, c.c., in materia di titoli di credito cartacei recita: “Chi ha acquistato in buona fede il possesso di un titolo di credito, in conformità delle norme che ne disciplinano la circolazione, non soggetto a rivendicazione”, trovando il suo corrispondente per quanto riguarda il regime di dematerializzazione nel testo dell’art. 83-quinquies, comma 2, TUF, in base al quale: “Colui il quale ha ottenuto la registrazione in suo favore, in base a titolo idoneo e in buona fede, non è soggetto a pretese o azioni da parte di precedenti titolari.”

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obblighi restitutori che vanno a gravare su entrambe le parti contrattuali. Quindi, se l’intermediario sarà tenuto a restituire all’investitore la somma investita, allo stesso modo quest’ultimo dovrà restituire gli strumenti finanziari che gli erano stati trasferiti in base al contratto poi dichiarato nullo.

Ciò considerato, la questione avrà epiloghi lineari nel caso in cui gli strumenti da restituire siano rimasti nella disponibilità dell’investitore stesso. Merita di essere approfondito il caso in cui tali obblighi restitutori vadano adempiuti quando l’investitore abbia trasferito i titoli a terzi.

In tal caso, conseguentemente alla dichiarazione di nullità del contratto, l’intermediario finanziario dovrà avere dall’investitore, non potendo rivalersi sull’eventuale terzo di buona fede, una somma corrispondente al valore degli strumenti finanziari (che sarebbero stati oggetto di restituzione) al momento della domanda.

La situazione che potrebbe crearsi avrebbe del paradossale nel caso in cui il valore degli strumenti finanziari in questione fosse addirittura salito, per cui l’investitore potrebbe trovarsi a dover addirittura compensare l’intermediario che ha violato i suoi obblighi di condotta. Tuttavia nessun investitore razionale che si sia reso conto dell’avvenuta violazione e del valore maggiorato degli strumenti finanziari in suo possesso agirebbe mai in questo senso. Senza considerare che il problema potrebbe non porsi, data la possibile configurazione dell’assenza di un interesse ad agire in capo ad esso (cosa che per altro si potrebbe affermare anche se venisse scelta, in casi analoghi, la soluzione della responsabilità).

Gli obblighi imposti all’intermediario hanno, infatti, ragione di sussistere nella misura in cui sono funzionali ad una tutela sempre più accurata e rigida dell’investitore.

La tutela dell’investitore sarebbe quindi massima; da considerare l’unica perplessità che potrebbe conseguire ad una presentazione della domanda (dato che il valore degli strumenti finanziari in questo caso non potrebbe che determinarsi in tale momento) in un momento favorevole (ovvero che

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consenta di ricavare il massimo possibile dagli obblighi restitutori), propiziando un eventuale comportamento opportunistico dell’investitore. Abbiamo visto, tuttavia, che la ratio della disciplina è quella di tutelare l’investitore in modo sempre più rigoroso, ponendo un argine solo ai suoi comportamenti che non siano semplicemente opportunistici ma che si spingano al punto della frode.

Predicare la sanzione della nullità anche per la violazione di obblighi di condotta porterebbe, quindi, ad un unico rimedio per tutte le violazioni previste dal TUF. Molti potrebbero qui chiedersi l’utilità di un rimedio globale di nullità per tutte le violazioni a tutela dell’investitore. La questione che merita di essere affrontata è invece quella attinente al significato di tale rimedio “globale”. Il rimedio della nullità, come già affermato, rappresenta, senz’altro, un forte deterrente nei confronti dei comportamenti scorretti degli intermediari, visto che graveranno su di loro obblighi restitutori per la semplice violazione della regola.

Per tutti questi motivi, il rimedio della nullità sembra il più coerente con quelle che sono le indicazioni legislative, non causando nemmeno troppi problemi dal punto di vista dogmatico e dell’analisi economica del diritto. D’altronde con la MIFID II e, tra tutte con la nuova regola di adeguatezza come sopra esaminata, si è accentuato molto il carattere paternalistico della tutela prevista nei confronti dell’investitore/risparmiatore, tale da proteggerlo persino da quelle che possono essere le sue stesse scelte rischiose. Da questo punto di vista la nullità proteggerebbe l’investitore anche da quelli che possono essere suoi comportamenti imprudenti o negligenti, fino a quando non si trascende in comportamenti fraudolenti o maliziosi; in questo caso potrebbe divenire applicabile, anche alla fattispecie di violazione di regole di condotta presidiate dal regime della nullità, l’eccezione di dolo, al fine di paralizzare la pretesa restitutoria dell’investitore.

Probabilmente anche questo cambio di paradigma della MIFID II, come riscontrato nel primo capitolo, spinge verso una direzione già indicata anni fa dal legislatore ma non presa in considerazione dalla giurisprudenza, che

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forse non ha più ritenuto opportuno tornare sulla questione anche a causa del contenimento di scandali finanziari in cui fossero coinvolti migliaia di risparmiatori, come avvenuto negli anni immediatamente precedenti (i famosi crac Parmalat, Cirio etc.).

Negli ultimi anni, soprattutto in Italia, è, però, aumentata molto, nuovamente, la percezione di comportamenti scorretti delle banche nell’attività di offerta di servizi finanziari. Con il d.l. 22 novembre 2015, n. 183 e con il d.l. 23 dicembre 2016, n. 237 (ribattezzati “salva banche”) è stata applicata per la prima volta la regola europea del bail-in per il salvataggio di quattro grossi istituti bancari del Centro Italia nel primo caso (Banca delle Marche, Banca Etruria, CariChieti e CariFerrara) e di due banche venete nel secondo (Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza). Gli istituti erano da tempo sull’orlo della bancarotta, con i bilanci pieni di sofferenze. L’applicazione della ormai nota regola del bail-in li ha salvati dal fallimento, ma ha lasciato dietro di sé un lungo strascico di polemiche per gli effetti avuti su risparmiatori che hanno perso i loro investimenti, non essendo stati sufficientemente informati dagli intermediari in questione della pericolosità degli strumenti in cui avevano investito. Tali violazioni di obblighi di condotta, in particolare informativi, di diligenza e correttezza da parte delle banche, che hanno portato anche all’istituzione nell’autunno 2017 di una Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno, hanno visto la poca giurisprudenza che ha avuto occasione di farlo (anche in seguito alle procedure di arbitrato istituite ad hoc dal legislatore, gravanti sul cd. Fondo di solidarietà) pronunciarsi per il rimedio risarcitorio.

Fermo restando che un intervento del legislatore, che introduca nel TUF una disposizione che possa finalmente chiarire quale debba essere la sanzione per la violazione degli obblighi di condotta da parte dell’intermediario, resta la soluzione più auspicabile, la situazione odierna potrebbe dare la giusta spinta alla giurisprudenza per rivalutare i segnali dati dal primo negli anni, accogliendo il rimedio della nullità.

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