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Parte III: Analisi del discorso pubblico

11. Evoluzione della legge sull'aborto in Polonia

11.2 Il periodo comunista

Il 27 aprile 1956 la legislazione del 1932 fu sostituita dalla “Legge sulle condizioni di interruzione di gravidanza” (O warunkach dopuszczalności przerywania ciąży). Questo nuovo testo, molto più liberale del precedente, ampliava la possibilità di accesso all'interruzione volontaria di gravidanza, permettendo alle donne di sottoporvisi se affermavano di stare affrontando “difficili condizioni di vita” (Krotkiewska, 1959). La legge sull'aborto non fu seguita da alcuna clausola per l'obiezione di coscienza che permettesse a un medico di esimersi per ragioni etiche o religiose, tuttavia la Chiesa Cattolica polacca esortò a più riprese medici e personale ospedaliero a rifiutare di effettuare interruzioni di gravidanza (Fuszara, 2001). Nonostante la disapprovazione dal pulpito e sebbene la legge non autorizzasse esplicitamente

l'aborto “a richiesta”, l'interpretazione liberale della nozione di “condizioni di vita difficili” lo permise nella pratica. Fra il 1956 e il 1959 l'accesso all'aborto legale fu vincolato da un doppio parere, emesso da due medici differenti: uno per certificare l'eventuale complessità delle condizioni di vita della donna e un secondo per effettuare l'intervento, il che costituiva una barriera pratica alla possibilità effettiva del suo ottenimento. Successivamente, questa limitazione fu rimossa dalla misura esecutiva del 1959 (Hadley, 1994). Da allora, l'aborto fu effettuato gratuitamente negli ospedali pubblici (e a pagamento nelle cliniche private) (Nowicka, 2000; Okolski, 1983).

Gli argomenti principali avanzati a favore della liberalizzazione facevano riferimento agli elevati tassi di mortalità causati dagli aborti clandestini. Il cambiamento legislativo fu quindi basato su ragioni sociali e di sicurezza sanitaria (approccio needs-based), ma non si faceva alcun riferimento al diritto di scelta o ai diritti delle donne (approccio rights-based).

La legge del 1956 si scontrò con una forte resistenza culturale nel Paese, poiché non prendeva in considerazione quello che era visto come il ruolo fondamentale della donna: la maternità. Nella coscienza collettiva, l'aborto per ragioni socio-economiche poteva essere ammesso solo nel caso di grandi famiglie povere: solo le donne che avevano già adempiuto al proprio ruolo materno ottenevano il “permesso” di sottoporsi alla procedura di interruzione di gravidanza (Fidelis, 2010). Questi ostacoli sociali all'accesso all'aborto perpetuarono ulteriormente la convinzione che fosse innaturale per le donne senza figli rifiutare la maternità, dipingendo l'aborto come una trasgressione ai doveri della madre polacca di perpetuare la nazione. Di conseguenza, la legge del 1956 sull'aborto fu nell'immaginario collettivo legata alle “innaturali” donne operaie, immorali e promiscue, niente affatto simili alla “ vera donna (e madre) polacca”.211

La legge rimase in vigore fino all'inizio degli anni '90, ma non senza vicissitudini (Zielińska, 1990; Heinen e Matuchniak-Krasucka, 1995). Le pressioni delle forze cattoliche condussero nel 1981 il Ministero della Salute a introdurre un cambiamento procedurale: ai medici fu richiesto di fornire al Ministero stesso giustificazioni più dettagliate delle “difficili condizioni di vita” che autorizzavano l'aborto, e alla paziente informazioni più complete ed esaurienti sui possibili rischi

211Durante il periodo comunista, l'equazione fra “polonità” e cattolicesimo continuò e giocò un ruolo importante nella resistenza all'imposizione delle politiche sovietiche, enfatizzando la struttura mentale di contrapposizione noi/loro in molti polacchi. A differenza degli altri Stati-satellite, la Polonia divenne l'unico Paese all'interno del blocco sovietico in cui la Chiesa possedeva una certa misura di autonomia. La legge sull'aborto del 1956 incontrò immediatamente l'opposizione della Chiesa non solo in quanto crimine morale, ma anche come rifiuto dell'istituzione della famiglia. Lo status della Chiesa quale protettore della “polonità” funzionò in congiunzione con la sua missione di “difesa del prestigio della famiglia”, in parallelo al rifiuto statale dei ruoli di genere sovietici e incoraggiando le donne a ritornare alla loro posizione naturale di madri (Heinen e Portet, 2010: 1009).

di salute a seguito dell'aborto. Medici e personale ospedaliero furono anche sollecitati a informare le pazienti dell'assistenza disponibile per le donne che sceglievano di portare a termine la gravidanza. Tuttavia, la legge in sé non fu mai messa seriamente in discussione dal governo, nonostante la pressione della Chiesa Cattolica e la propaganda statale per un modello familiare “tre più due” negli anni '70 (Jankowska, 1993)212. Nonostante questo, anche a causa

dell'inadeguata informazione in materia riproduttiva e della scarsa disponibilità di metodi contraccettivi, l'aborto rimase il principale metodo di controllo delle nascite e pianificazione familiare durante il periodo comunista (Hadley, 1996). Ciò contribuì all'espansione del fenomeno su larga scala e a un frequente abuso della procedura abortiva. A sua volta, questa situazione favorì la vittoria successiva dei sostenitori delle posizioni pro-vita in Polonia durante il processo di democratizzazione, che riuscirono a ribaltare la situazione all'estremo opposto.

Già nel maggio del 1989, una proposta di legge per criminalizzare l'interruzione di gravidanza venne sottoposta all'attenzione del parlamento (Nurt, 1989) e da questa data in poi l'accesso all'aborto divenne sempre più difficile, soprattutto negli ospedali pubblici, dove la regola del doppio parere era seguita in maniera ferrea. Per evitare questa procedura, numerose donne si rivolsero a servizi privati o tornarono nuovamente al mercato clandestino, il che portò a una crescita nei tassi registrati di “altri aborti”, categoria sotto cui venivano inseriti quelli spontanei o auto-indotti (Kulczycki, 1995). È necessario quindi distinguere fra la situazione de jure e quella

de facto. In primo luogo, solamente gli aborti eseguiti negli ospedali pubblici dovevano essere

obbligatoriamente registrati, mentre quelli effettuati nelle cliniche private non erano sottoposti ad obblighi in questo senso. Anche la registrazione degli aborti spontanei o auto-indotti, che sarebbe dovuta avvenire, secondo la legge, al momento dell'ammissione in ospedale, avveniva solo saltuariamente, non da ultimo per il continuo passaggio dei pazienti fra cliniche pubbliche e private (Okolski, 1988).

Nel frattempo, la controversia etico-morale sull'aborto assunse caratteri politici, coinvolgendo anche la relazione fra Stato e Chiesa. Gli oppositori della criminalizzazione dell'aborto erano sospettati di essere filocomunisti e pubblicamente etichettati come potenziali assassini (Titkov, 1999). In questa campagna si comincia a vedere la manipolazione semantica a favore del movimento pro-life, con la sostituzione nel dibattito pubblico di termini neutrali con altri caricati simbolicamente. Il feto diventò “il nascituro”, “il bambino concepito”, “il bambino nel ventre

212La politica pro-natale che sosteneva il modello “3+2” e introduceva il congedo di maternità e sostegni finanziari alle giovani famiglie era stata introdotta dal governo comunista polacco, allarmato dal costante declino del tasso di natalità.

materno”, o semplicemente “il bambino” e “il figlio” (Heinen e Matuchniak-Krasuska, 1995)213.

Con la crescente importanza dell'autorità morale e politica di Solidarność negli anni '80, il movimento antiabortista non fu più limitato ai pulpiti delle chiese o alle aule del parlamento, ma si sviluppò in una campagna pubblica. Il nascente movimento, affermando nuovamente la natura aliena della legge sovietica nella Polonia cattolica, evidenziò come lo Stato intendesse i doveri delle cittadine diversamente da quelli dei cittadini. La convinzione, risalente all'epoca delle spartizioni, che “la Polonia non morirà finché i polacchi sopravvivranno” si allineò con quella del movimento antiabortista che “l'aborto priva il Paese dei suoi futuri cittadini”. Nell'era post- socialista, il movimento affermò rapidamente una retorica focalizzata su un ritorno allo stato naturale della società polacca denunciando l'aberrazione del dominio sovietico: la cosiddetta “imposizione” della legge del 1956 che liberalizzava l'accesso all'aborto.