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Priorità per la politica industriale

Cosmo Colonna

3. Priorità per la politica industriale

3.1. Dimensione d’impresa

Riteniamo che sia la criticità maggiore che può rallentare o impedire il riposizionarsi della nostra industria sul mercato globale.

“Le dimensioni ti consentono di fare ricerca, di investire, di attrarre manager di qualità, di bilanciare i rischi diversificando i mercati di sbocco: in sintesi, i vantaggi sono enormi” (Carbonato, Prime Industrie in Orlando, 2015).

Come ben sintetizzato in queste poche righe un’adeguata dimensione d’impresa permette di avere le necessarie risorse per poter fare ricerca ed innovazione, di prodotto e di processo. In sintesi consente di investire contando su risorse proprie. Ma viene anche evidenziato che la giusta dimensione attrae manager di qualità e quindi permette di disporre di risorse umane adeguate, le quali a loro volta sono centrali per lo sviluppo dell’impresa e quindi per una presenza nei mercati, nazionali ed internazionali. Senza dimenticare il ruolo svolto dalle imprese familiari (non sempre un management senza legami con il territorio e la comunità locale definisce prioritaria la continuità aziendale, come è stato fatto dalle prime generazioni imprenditoriali) è evidente che poter disporre di risorse umane adeguate può voler dire una revisione delle modalità dei passaggi generazionali, purché al centro dell’interesse rimanga l’impresa intesa come bene comune di tutto il territorio e della comunità locale.

In Italia l’Istat ci dice che “le imprese attive nell’industria e nei servizi di mercato sono 4,3 milioni e occupano 15,8 milioni di addetti (10,9 milioni sono dipendenti). La dimensione media delle imprese è di 3,7 addetti.” (Istat, 2015). Alla questione dimensionale sono strettamente correlate molte altre dimen- sioni del fare impresa: la capitalizzazione, una certa autonomia rispetto al settore creditizio, la capacità di aggredire i mercati internazionali, la possibilità di fare investimenti per la ricerca e l’innovazione, una capacità organizzativa in senso lato che è sinonimo di forza imprenditoriale.

È evidente quindi che l’aumento delle dimensioni non deve essere pensa- to solo in termini difensivi o per ridurre i costi grazie ad economie di scala, bensì per strutturare la/le impresa/e in maniera adeguata rispetto ai mercati. Darsi una struttura adeguata vuol dire in primis investire sull’innovazione dei processi e dei prodotti e sulle persone.

I distretti, le filiere e/o i contratti di rete non devono essere strumenti difen- sivi. Occorre ripensarli in chiave innovativa e propositiva, proponendosi degli obiettivi di miglioramento, quali possono essere progetti per la qualità totale, iniziative per la formazione dei lavoratori, progetti di ricerca comuni. Allo stesso modo andrebbe rivisto il contratto di rete ora centrato sostanzialmente su convenienze economiche per gli associati.

Per favorire le aggregazioni di impresa occorrerebbe sviluppare una cultura imprenditoriale più collaborativa che sia aperta a sinergie ed integrazioni tra imprese, mirate alla crescita e alla loro espansione sui mercati, in fondo “van- no benissimo le piccole (imprese), ma l’importante è che vogliano crescere” e “sarebbe desiderabile per un sistema economico giungere a una giusta propor- zione fra tutte queste categorie dimensionali; proporzione che il nostro sistema industriale non ha ancora raggiunto” (Franco Mosconi in Fim-Cisl, 2015).

3.2. Credito

La seconda priorità riguarda il rapporto delle imprese con il mondo del credito. Qui forse occorre tornare al passato ricostruendo il legame delle ban- che con i territori, sul modello delle vecchie Casse di Risparmio. Le banche dovrebbero avere una relazione di partenariato con le imprese e non quella che si ha con un semplice cliente a cui si vendono dei soldi e magari un pacchetto di prodotti preconfezionati, che al momento in cui sorgono dei problemi si rivelano inadeguati.

Riteniamo che il settore bancario abbia bisogno di riappropriarsi e/o diffon- dere nuovamente competenze specifiche per accompagnare le imprese verso la crescita nei territori e per gestire eventuali situazioni di crisi con un ruolo di supporto e consulenza. È chiaro che le banche dovrebbero fare un po’ più le banche, mettendo a disposizione le risorse per gli investimenti. Abbiamo inoltre un sistema troppo banco centrico, dove lo spazio per intermediari finanziari specializzati e per il credito non bancario è ancora troppo limitato.

Bisogna sviluppare l’utilizzo dei Fondi di garanzia, rendendone più sem- plice l’uso, così come per il mercato dei mini-bond, che è rimasto sostanzial- mente sulla carta. Da parte nostra siamo da tempo disponibili ad un utilizzo dei depositi dei Fondi pensione più vicino all’economia reale, alle necessità di sviluppo dei territori.

3.3. Competenze, ricerca e innovazione

Se dobbiamo competere sulla qualità dei prodotti dobbiamo avere alte competenze, sia per quanto riguarda gli imprenditori, che per il management, che per i lavoratori. Purtroppo il tema è molto più complicato di quanto sembra come si deduce dal documento del Governatore della Banca d’Italia.

“Il patrimonio di conoscenze, competenze e abilità di cui le persone sono dotate si associa a più elevati livelli di crescita del reddito e di svilup- po economico e sociale. Esso contribuisce ad aumentare la produttività sia direttamente, accrescendo le capacità della forza lavoro, sia indirettamente, incentivando l’adozione di tecnologie più avanzate e l’innovazione.” (Visco, 2015a; 2015b).

In Italia purtroppo però vi è un paradosso: “Perché le famiglie e le imprese italiane investono in capitale umano meno che negli altri paesi? In Italia studiare conviene, ma meno che altrove. Questa situazione riflette un insieme di fattori, tra i quali le difficoltà del sistema scolastico italiano e alcune caratteristiche strutturali delle imprese, prima fra tutte la ridotta dimensione. Vi è però il rischio che il paradosso summenzionato segnali una perversa interazione tra la domanda e l’offerta di capitale umano che ne amplifica le rispettive carenze. In presenza di significative difficoltà nel trovare competenze adeguate nel mercato del lavoro, le imprese sembrano aver reagito non innalzando i salari, bensì riducendo la propensione a investire in nuove tecnologie, contenendo di conseguenza il fabbisogno di manodopera qualificata. L’innescarsi di questo circolo vizioso deprimerebbe ulteriormente l’incentivo all’investimento in capitale umano, spingendo inoltre i lavoratori altamente qualificati a emigrare, in cerca di migliori opportunità lavorative. Alcuni studi della Banca d’Italia attribuiscono quasi metà del divario nella quota di laureati tra Italia e Germania a questo tipo di interazioni.” (Ibidem)

Queste parole rendono la situazione ben più preoccupante e va oltre la irri- solta questione del rapporto tra scuola, università e lavoro. Naturalmente non è sempre così e vi sono molte imprese che investono sull’innovazione tecnologica e sulla formazione, tuttavia il problema rimane attuale e viene ripreso anche in un articolo del prof. Fabio Sdogati del Politecnico di Milano, in cui si afferma che “La disoccupazione che osserviamo non è di natura frizionale e dunque transeunte, …. bensì l’effetto di domanda inadeguata di personale qualificato da parte delle imprese” (Sdogati, 2016).

La costruzione di adeguate competenze è obiettivo di lungo periodo e necessita di un lavoro sistemico da parte di tutti gli attori, tanto più se sarà necessario un “pensiero interdisciplinare” (Roland Berger, 2015). Sarà impor- tante legare l’istruzione alle professionalità esistenti nel mondo produttivo del territorio, come ci insegna l’esempio della Dallara in Emilia Romagna (Franco Mosconi in Fim-Cisl, 2015).

La formazione dei lavoratori è un obiettivo importante per il sindacato, tanto più che “i dati italiani mostrano una distribuzione delle opportunità formative molto sperequata a danno degli addetti che hanno un basso titolo di studio, delle persone non più giovani, di coloro che lavorano nelle piccole imprese, di chi è disoccupato. Si accentua, così, il dualismo del mercato del lavoro e la diseguaglianza nella società”. (Cisl, 2015).

Anche per le imprese la formazione da importanti risultati “Le analisi della Fondazione di Dublino mostrano che le imprese più attive sulla formazione e con un approccio inclusivo, che offre maggiori opportunità in termini di per- messi e corsi alla maggior parte degli addetti, hanno le migliori performance economiche ed hanno dipendenti che dichiarano un maggiore benessere sul lavoro.” (Ibidem)

Un ruolo sempre più incisivo nella formazione dei lavoratori devono giocarlo i fondi interprofessionali. Un livello di competenze elevato favorisce innova- zioni di prodotto e processo con maggiore continuità, tanto più se si instaura un sistema di relazioni industriali non conflittuali.

3.4. Produttività

È un tema ineludibile se si vuole risalire la china a livello mondiale. A nostro avviso un approccio corretto verso la produttività non può collegarla solo alla questione salariale perché i fattori che incidono sulla produttività sono molte- plici. Non è una questione salariale perché in Italia i salari sono tra i più bassi d’Europa, inoltre la componente salariale è una delle componenti che incidono sulla produttività ed in alcuni settori non è nemmeno la più importante. Non si può più nemmeno legare la produttività alla flessibilità, perché ormai nei contratti ce ne è a sufficienza. Più correttamente andrebbe studiata in termini di sistema con un forte legame al territorio di riferimento, sempre più luogo strategico dello sviluppo.

In tal senso è giusto parlare di attrattività dei territori e quindi di cosa viene offerto in termini di infrastrutture, materiali e immateriali, tecnologiche, come la banda larga, o di altro tipo. Un esempio può venire dal fenomeno del cosiddetto re-shoring, cioè il ritorno in Italia di produzioni precedentemente delocalizzate in paesi emergenti. “Nella scelta non pesa solo il rincaro del costo del lavoro negli emergenti, ma un mix di fattori che comprendono i costi per la logistica, per la gestione dei materiali e la riduzione dei rischi nella supply chain. Finora sono state proprio le imprese italiane del fashion quelle più attive, negli ultimi anni, nel fare rientrare i processi produttivi. In ragione del maggiore valore percepito del prodotto realmente Made in Italy” (Netti, 2016).

L’innovazione tecnologica sta avendo un forte impatto sui modelli organiz- zativi che si moltiplicano e vengono adattati alle molteplici modalità e necessità produttive, creando opportunità continue per migliorare i fattori incidenti sulla produttività. “La media dei suggerimenti di ciascun operaio per migliorare il processo produttivo a Pomigliano è di trenta l’anno, un valore enorme che è frutto del team working e della rotazione. … Trenta suggerimenti l’anno vuol dire quattro o cinque punti di riduzione dei costi industriali che si cumulano anno per anno: sono cifre molto elevate mai raggiunte nelle fabbriche fordiste.” (Pero L. in Fim-Cisl, 2015).

Vi è quindi un forte legame tra modelli organizzativi e miglioramento della produttività, e nell’esempio riportato è forte pure il coinvolgimento dei lavoratori. Questo è naturalmente più facile laddove si riesce a costruire un sistema di relazioni industriali positive e un 2° livello contrattuale che da per acquisita l’impresa come un bene comune. Va da se che non c’è produttività

senza coinvolgimento, e non c’è coinvolgimento senza partecipazione ai risultati e/o ai processi decisionali.

Produttività vuol dire essere disponibili a migliorare le performance dell’a- zienda/e o del settore nel territorio. La contrattazione decentrata può essere utilissima e conveniente, per il lavoratore e per l’azienda che paga meno oneri, visti gli opportuni sgravi previsti dalla Legge di Stabilità, ma si possono ipotiz- zare anche modelli organizzativi e forme di collaborazione per la produttività, nelle aziende o nei territori, per migliorare le cose, per collaborare, e spostare verso il salario quote di ricchezza ottenute dalla maggiore produttività, proprio laddove la ricchezza viene prodotta.

Questa è in qualche modo la nuova frontiera contrattuale da generalizzare per favorire la produttività; non ci sembra difficile a noi della Cisl, tanto più se immessa in un sistema positivo e collaborativo di relazioni sindacali. Questo sarà possibile con una nuova cultura sindacale e del lavoro, con più regole contrattuali stabili e più partecipazione, con meno conflitto e antagonismo, dando più valore all’impresa per le persone e per il territorio.

4. Conclusioni

La dimensione d’impresa, il credito, le competenze, la ricerca e l’innovazione ed infine la produttività, sono le quattro priorità su cui occorre concentrare gli investimenti. Questi ultimi possono essere materiali ed immateriali. Come abbiamo visto anche la modifica di aspetti organizzativi può comportare importanti guadagni di produttività e di converso liberare risorse o renderle più efficienti. Ma se si ha chiara la direzione sarà più facile unire gli sforzi e le risorse per raggiungere gli obiettivi di miglioramento che in ogni settore devono essere inseguiti.

Bibliografia

Cisl (2015), Osservatorio mercato del lavoro, Numeri e Qualità del Lavoro sotto la

Lente. www.cisl.it.

Fim – Cisl (2015), SindacatoFuturo in Industry 4.0. ADAPT University Press. www. adapt.it.

Istat (2014), Rapporto sulla competitività dei settori produttivi. Roma, www.istat.it. Istat (2015), Struttura e competitività del sistema delle imprese industriali e dei servizi

– Anno 2013. Roma, www.istat.it.

Netti E. (2016), “Reshoring” in accelerazione. Il Sole 24 Ore, 11 gennaio.

Orlando L. (2015), La fabbrica delle macchine. Milano: Ucimu – Guerini Next Editore. Roland Berger Italia (2015), Industry 4.0 – The New Industrial Revolution. Report di

Sdogati F. (2016), Lavoro, le imprese non innovano e (quindi) non assumono personale

qualificato. 11 febbraio. www.economyup.it

Visco I. (2015a), Capitale umano e crescita. Intervento presentato al convegno Il futuro

nell’economia, tenutosi presso Università Cattolica del Sacro Cuore – Facoltà di

Economia. Roma: 30 gennaio.

Visco I. (2015b), Tecnologia, imprese e lavoro: sfide per l’Italia nell’economia glo- bale. Intervento presentato al convegno Prometeia 40 anni. L’economia italiana e

e qualità dei contesti per attrattività,

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