In sintesi, la politica economica deve indirizzarsi verso un forte sostegno alla domanda aggregata: senza uno shock espansivo, è difficile che l’Europa e specialmente alcuni paesi possano uscire dalla stagnazione attuale. Già nel 2012 lo stesso Fondo monetario internazionale auspicava una politica di sostegno della domanda aggregata. I consumi delle famiglie che, come abbiamo visto, sono diminuiti in diversi paesi, possono essere favoriti da una dinamica sala- riale più sostenuta – che sarebbe utile anche per contrastare la deflazione – e da un alleggerimento della pressione fiscale. Sono però gli investimenti, ancor più crollati nel periodo di crisi, che devono essere rilanciati. Gli investimenti privati dovrebbero essere sostenuti con una politica monetaria che mirasse a migliorare l’assetto del sistema finanziario. A questo fine, oltre ad una solu- zione più definitiva per le sofferenze bancarie, è indispensabile – soprattutto in Italia – lo sviluppo di nuovi intermediari finanziari, diversi dalle banche tradizionali, specializzati nel sostegno degli investimenti, dell’innovazione e della crescita delle imprese.
Gli investimenti pubblici potrebbero essere ampliati, a livello nazionale, tramite una ricomposizione della spesa pubblica, l’impiego delle clausole di flessibilità che già l’attuale Patto di stabilità permette e (in futuro) l’auspicata adozione di una golden rule per gli investimenti. Tuttavia sono soprattutto gli investimenti pubblici a livello europeo che dovrebbero essere stimolati, attra- verso un grande “piano europeo”, molto più ambizioso dell’attuale – e per molti versi deludente – piano Juncker, caratterizzato da risorse limitate, eccessivi “effetti leva” auspicati e tempi lunghi di realizzazione.
Questo “piano europeo per gli investimenti” non dovrebbe limitarsi alle reti trans-europee o ai grandi progetti: per inciso le grandi opere pubbliche sono soggette a lunghi tempi di attuazione ed altri inconvenienti; il piano dovrebbe riguardare investimenti nei trasporti e comunicazioni (agenda digitale), ma anche nella R&S e nel capitale umano. Dovrebbe riguarda- re anche svariati micro-investimenti, da realizzare ad esempio nelle aree urbane, come sopra indicato nella nostra proposta di creazione di nuovi “mercati-guida” nelle aree urbane, quali: trasporto locale, edilizia popolare e scolastica, protezione ambientale, efficienza energetica, sanità, turismo e beni culturali, e così via. Il piano potrebbe essere finanziato dalla BEI (le cui obbligazioni dovrebbero essere acquistate dalla Bce su vasta scala) o tramite l’emissione di eurobond.
In prospettiva, un grande piano d’investimenti necessiterà di un rafforza- mento del bilancio comunitario, almeno per l’area euro. Con un bilancio UE dell’1% del Pil difficilmente si riesce a far fronte agli shock reali e finanziari o a favorire la convergenza reale tra Paesi. Perfino in assenza di un auspicabile
“piano europeo per gli investimenti”, un piano almeno nazionale potrebbe essere idoneo. Le risorse necessarie potrebbero essere ricavate non solo da azioni più efficaci di “revisione della spesa” – e dal pieno utilizzo delle “clau- sole di flessibilità” che le regole europee consentono – ma anche da scelte fiscali differenti da quelle degli ultimi anni. Un piano d’investimenti potrebbe avere effetti moltiplicativi sull’economia, più elevati fin dall’inizio, rispetto, ad esempio, a una riduzione generalizzata delle imposte, il cui effetto di stimolo sui consumi risulta limitato in condizioni economiche depresse.
In particolare, potrebbe essere avviato un programma annuale di maggiori investimenti privati e pubblici pari all’1% del Pil in ciascuno dei singoli pae- si, finanziato in parte con risorse private e in parte con i fondi della politica regionale di coesione dell’UE. La crescita dei fondi di questa politica potrebbe essere finanziata con un uguale aumento del contributo al bilancio comuni- tario da parte degli Stati nazionali beneficiari dei fondi aggiuntivi destinati alla politica regionale di coesione nel paese stesso. Tale programma potrebbe prevedere la libertà di alcuni paesi, che non ritenessero prioritario tale sforzo di investimento aggiuntivo, come la Germania ad esempio, di non partecipare a questa iniziativa (opting out), che potrebbe avere quindi a geometria variabile tra i Paesi membri.
Per quanto riguarda la parte di finanziamento privato potrebbe essere prevista la possibilità per le banche ordinarie, la Cassa Depositi e Prestiti e per la Banca Europea degli Investimenti di scontare presso la Banca Centrale Europea il valore delle obbligazioni (project bonds) emesse da società certificate di progetto e di investimento. I finanziamenti creditizi aggiuntivi potrebbero essere riservati, ad esempio, al solo finanziamento di grandi progetti urbani, che siano stati selezionati nell’ambito delle misure considerate nella “dimensione urbana” della politica regionale europea.
Per la parte pubblica, dovrebbe essere prevista che le istituzioni locali possano finanziare investimenti pubblici, compiuti da società di servizi pubblici locali in ospedali, università, costruzioni di edilizia sociale, di pre- venzione antisistmica ed altre infrastrutture e nuovi servizi complementari agli investimenti privati suindicati fino ad un importo prefissato (ad esempio 10% del totale degli investimenti). Chiaramente, dovrebbe essere prevista una clausola di flessibilità del vincolo del patto di stabilità per tali investi- menti pubblici degli enti locali e per il suindicato contributo aggiuntivo al bilancio dell’Unione Europea, a carico dello Stato nazionale considerato. La valutazione dei progetti da parte delle banche nazionali, da parte della BEI e delle autorità di monitoraggio della politica regionale di coesione dovrebbe essere sufficiente per rassicurare i Governi di alcuni Paesi, che non si stanno regalando fondi a imprese o a individui particolari, ma solo rilanciando gli investimenti, ove ci sono le possibilità e soprattutto la volontà di promuovere la crescita nazionale.
Dal rilancio degli investimenti, privati e pubblici, non solo trarrebbero un beneficio nell’immediato la domanda aggregata, la ripresa economica e l’occu- pazione; ma nel lungo andare aumenterebbe anche l’offerta aggregata, dato che aumeterebbe la capacità produttiva, con ricadute positive sia sull’occupazione sia sulla produttività aggregata. La competitività dei paesi periferici ne trarrebbe giovamento, in modo più efficace rispetto alle svalutazioni interne degli anni passati tramite riduzioni dei salari: quella che una volta era chiamata “la via alta” alla competizione globale.
Non ci si può illudere che le forze del mercato agiscano sempre nella giusta direzione e con i ritmi adeguati. La politica industriale potrebbe promuovere fusioni, integrazioni verticali o alleanze strategiche, ad esempio tra attività complementari che fanno parte di una specifica filiera produttiva. È un fatto che in Europa, soprattutto in Italia, le innovazioni non possono basarsi solo sulla R&S interna alle imprese; date le caratteristiche del sistema industriale, vanno piuttosto sostenute le reti di innovazione tra imprese, coinvolgendo, come indicato dal modello della “quadruplice elica”, i diversi attori dei “sistemi produttivi locali”: imprese, sindacato, istituti di credito, università, istituzioni pubbliche e associazioni dei cittadini.