Riccardo Cappellin
2. Il ruolo delle imprese in una nuova strategia di crescita
Le diminuzione degli investimenti delle imprese private può essere ricon- dotta a diversi fattori che possono essere illustrati sinteticamente tramite il calcolo finanziario del valore attuale netto di un progetto di investimento
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Infatti, i tassi di interesse (r) sono a livello storicamente molto basso se non persino negativo, ma questo aumenta il peso dei valori posititivi e negativi lon- tani nel futuro rispetto a quelli più recenti. L’innovazione finanziaria (futures) consente di anticipare i ricavi e costi futuri e comporta una maggiore volatilità dei ritorni attesi. Questo induce ad aumentare il risparmio e la propensione alla liquidità e a posporre le decisioni di investimento.
Inoltre, il premio di rischio (u) domandato dagli investitori è troppo elevato e questo è dovuto all’alta volatilità dei mercati finanziari, che è in gran parte la conseguenza di molti errori compiuti nelle politiche di bilancio e monetarie europee negli anni recenti. Invece, compito della politica industriale è proprio quello di aumentare la fiducia e ridurre il rischio per il singolo investitore, defi- nendo una strategia di investimento complementare tra molti diversi investitori privati e pubblici e quindi suddividendo il rischio tra gli stessi o consentendo a ciascuno di essi una maggiore certezza sui costi e ricavi attesi, che dipendono dal coordinamento strategico tra i diversi operatori.
In terzo luogo, i processi di decisione pubblica sono troppo lenti e la con- flittualità tra le imprese private è molto elevata e questo allunga enormemente il periodo di realizzazione dei progetti di investimento e quindi comporta un aumento del costo di investimento (I).
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0 1 t t t t t k C k I r u R − − ∑ > + +Infine, il fattore forse più importante è il fatto che i ricavi (R) e i costi (C) attesi dipendono dalla qualità dei progetti di investimento delle imprese o dalle loro capacità di innovazione, dato che l’innovazione (disruptive technologies) aumenta i ricavi e riduce i costi e aumenta la competitività delle imprese e consente di conquistare nuovi mercati (Kay, 2016). Le limitate capacità di innovazione delle imprese italiane e il loro mancato investimento in ricerca e in progettazione sono quindi la causa principale del crollo degli investimenti e del mancato avvio di nuove “specializzazioni intelligenti” in nuove produzioni.
Nel dibatttito politico attuale in Italia si parla troppo di fiducia sul futuro, supposta eccellenza a scala internazionale delle imprese italiane, previsioni elaborate da diversi centri di ricerca e diverse tra loro di alcuni decimali, esigenza di essere ottimisti, ecc. ma le singole imprese e le loro associazioni per lo più non hanno finora indicato con precisione le loro strategie di crescita operative, i loro piani industriali di impresa, preso precisi impegni in termini di ricerca e sviluppo e progettazione, definito progetti di investimento indivi- duali o in collaborazione, proposto nuovi modelli operativi di collaborazione tra pubblico e privato e di governance territoriale o quantificato la domanda necessaria di capitali. In questo contesto appare difficile per lo stesso settore pubblico definire le specifiche politiche industriali più adatte a sostenere una tale strategia competitiva delle singole imprese, dato che certamente le politiche industriali e regionali dovrebbero essere diverse, ad esempio; per le imprese più innovative e per quelle meno innovative.
Sembra mancare alle imprese italiane la capacità di individuare la loro missione e un senso della direzione verso cui andare. Le imprese dovrebbero comprendere i cambiamenti tecnologici che stanno trasformando il mondo e individuare in tempo le minacce e le opportunità. La funzione dei leaders delle grandi e delle medie imprese è infatti quella di scandagliare l’orizzonte. I managers devono guardare al futuro per individuare segni che qualcosa sta accadendo, cercare di anticipare questi prima che diventino dei pericoli. Se non è l’aspirazione del successo certo anche il timore del fallimento è quello che dovrebbe spingere le imprese ad innovare.
Pertanto, le imprese non solo manifatturiere ma anche delle costruzioni, dei servizi e delle grandi public utilities devono rilanciare l’attività imprendi- toriale, individuare nuove opportunità di investimento e di modernizzazione in Italia e all’estero, definire una nuova strategia, che guardi al futuro e alla crescita dimensionale e sia capace di coniugare ricerca e innovazione con lo sviluppo economico del Paese. Le imprese, soprattutto quelle grandi nazionali e internazionali e quelle di medie dimensioni, dovrebbero aumentare il loro orientamento all’investimento e all’innovazione, mirare a creare nuove produ- zioni innovative e a sviluppare i relativi mercati e la domanda interna e non solo quella estera, valorizzando le competenze produttive e lavorative esistenti nel territorio. Quello che attualmente manca spesso nelle imprese italiane è l’ambi-
zione, che invece caratterizza le imprese delle nuove tecnologie, la loro abilità di innovare rapidamente e le loro straordinarie connessioni con i consumatori. Nelle imprese italiane prevale la logica della concorrenza tramite la ridu- zione dei costi rispetto a quella tramite l’adozione di nuovi prodotti e i processi produttivi vengono sempre più disintegrati verticalmente, procedendo ad una sempre maggiore esternalizzazione di produzioni complementari, e questo rende sempre maggiore il costo di coordinamento, che è invece indispensabile quando si devono affrontare innovazioni rilevanti, come fanno le imprese verticalmente integrate, più grandi, con maggiori risorse e con personale più qualificato.
Il modello di comportamento o la struttura degli incentivi per molte imprese sembrano essere quelli di minimizzare i rischi piuttosto che di massimizzare le opportunità. Troppe imprese si limitano a innovazioni incrementali lungo la stessa produzione e spesso non vogliono investire nella diversificazione in produzioni nuove. Invece, ad esempio Google opera secondo una regola del 70/20/10 ove gli occupati sono incoraggiati a impiegare il 70% del loro tem- po nel core business, 20% nel lavorare con un altro team e il 10% a progetti ambiziosi, di esplorazione e radicali.
Inoltre, fondamentale è il ruolo dell’organizzazione o della governance interna delle imprese. Infatti, anche se le imprese individuano dei pericoli, questo non vuol dire che esse siano capaci di affrontarli. Le imprese devono non solo guardare al loro esterno ma anche guardare intensamente al loro interno. I vincoli interni spesso comportano danni maggiori che le minacce esterne. Il fattore di competizione più importante delle imprese è la loro organizzazione interna e i loro modelli di governo o di decisione e scelta.
In particolare, in Italia le imprese sono ostacolate dalla logica tipicamente italiana degli intrecci azionari e delle collusioni affaristiche, che impediscono la concorrenza e l’emergere degli innovatori rispetto alle imprese consolidate. Il “capitalismo” italiano continua ad essere caratterizzato non solo e non tanto dalla piccola imprenditorialità molto individualista e incapace di collaborare con le altre imprese e le istituzioni, nella filiera produttiva o nel rispettivo territorio, ma soprattutto da network collusivi (capitalismo di relazione) tra le imprese di maggiori dimensioni con forti legami con il mondo della politica e quello delle banche e anche con quello dei grandi quotidiani e reti televisive. Queste lobbies nel settore industriale, dei servizi e delle banche mirano solo ad assicurarsi protezioni politiche per garantire a se stesse elevate rendite in settori di monopolio naturale, comprimendo il potere di acquisto dei cittadini. Mirano a procurarsi aiuti pubblici finanziari o normativi o un accesso privilegiato al credito o a procurarsi grandi affari in settori regolamentati, come accade nel mondo dei servizi a rete o nei salvataggi bancari o nella ristrutturazione delle sofferenze bancarie (non performing loans). Chiaramente queste lobbies condizionano le politiche pubbliche e impediscono che le stesse siano invece orientate a sostenere investimenti innovativi da parte di imprese nuove, sia ita-
liane che estere, e potenzialmente concorrenti. Inoltre, questo sistema collusivo scoraggia i giovani e li costringe ad emigrare e persino dissuade gli investimenti delle imprese multinazionali in Italia e spinge molti manager italiani capaci nelle grandi imprese a restare all’estero o ad abbandonare le imprese italiane per accettare offerte di lavoro in imprese estere. Non è quindi rinviabile un cambiamento nel modello di management di gran parte delle imprese italiane.
Invece, le imprese assieme agli attori sociali, alle Università e alle istituzioni nazionali e regionali, che interagiscono con le imprese sul territorio, dovreb- bero mirare ad una strategia di diversificazione o riconversione verso nuove produzioni innovative, valorizzando sia la domanda interna nazionale sia le competenze produttive esistenti nel territorio. La prospettiva della crescita di nuove produzioni trainerebbe la crescita degli investimenti fissi delle imprese e un maggiore sforzo nelle attività di progettazione tecnica e di ricerca e la qualificazione crescente delle risorse umane manageriali e tecniche.
3. L’innovazione nelle politiche economiche e la nuova politica