Marco R Di Tommaso 1 , Elisa Barbieri
3. Stimolare investimenti e innovazione: dagli strumenti ai metod
La prima considerazione che proponiamo, in maniera provocatoria, a chi legge è che il primo passo per rendere le politiche industriali nuove sia spostare il dibattito dagli strumenti della politica industriale agli obiettivi e ai metodi. La politica industriale non può essere definita, solamente o principalmente, riferendosi agli strumenti che utilizza. E meno ancora a strumenti che hanno fatto il loro tempo. Non è solamente un tema di incentivi per “convincere” le imprese ad investire in innovazione. E non è secondo noi nemmeno tanto il tema di trovare nuovi strumenti, che agiscano, ad esempio sul lato della domanda più
che sul lato dell’offerta attraverso, il procurement pubblico oppure cercando di influenzare i comportamenti di consumo, solo per citare alcune ipotesi. Tutto questo può essere sicuramente desiderabile, ma non è il tema centrale. Da un lato è evidente che le politiche industriali devono essere interpretate come politiche che agiscono sull’industria, ovvero sulla organizzazione della produzione, ma che proprio per questo includono politiche per la formazione, per i territori, per l’innovazione, per l’ambiente (cfr. Bianchi, Labory, 2016). Dall’altro occorre fare una riflessione più approfondita sui metodi, ovvero i processi di disegno, costruzione e attuazione delle politiche industriali, e sugli obiettivi.
Questo implica necessariamente proseguire nella ricerca di riferimenti teorici e metodologici che riportino anche l’azione dei governi al centro degli studi di economia applicata (e in particolare di economia e politica industriale). E in questo quadro occorre in particolare pensare ai possibili rimedi ai cosidetti “government-failure” già in sede di definizione e studio degli interventi di policy.
A tal fine sono possibili diverse strade.
La prima è studiare l’esperienza di altri paesi. Approfondire le pratiche di politica industriale di altre aree del mondo, sia industrializzate che emergenti, può offrire importanti spunti di riflessione sui diversi gradi di efficacia dei governi. Può essere utile a comprendere quali meccanismi siano stati adottati altrove per garantire efficacia ed efficienza dell’azione pubblica di promozione dello sviluppo industriale. Nell’esperienza cinese ad esempio emergono alcuni aspetti interessanti che potrebbero essere adattati anche al contesto italiano (senza per questo suggerire di adottare il “modello cinese”). Il punto non è studiare altri paesi per diventare come loro. Il punto è capire quali aspetti del policy-making di altri possano contribuire a migliorare l’efficacia delle politi- che industriali italiane. In questa prospettiva, alcuni aspetti dell’intervento di politica industriale cinese meritano approfondimenti: l’approccio sperimentale agli interventi (Rubini et al., 2015; Di Tommaso et al., 2013); la condizionalità associata agli interventi di policy in materia ad esempio di investimenti e trasferimento tecnologico (Rubini, Barbieri, 2013); l’ottica di lungo periodo; i meccanismi di incentivo interni alla pubblica amministrazione; la formazione della classe dirigente; l’uso dei premi e riconoscimenti ex-post a comportamenti prevalentemente spontanei (Di Tommaso et al., 2013; Barbieri et al., 2012; Barbieri et al., 2010). In maniera analoga si possono ritrovare nelle esperien- ze della Corea del Sud e di altre economie asiatiche spunti di riflessione (Di Tommaso, Angelino, 2015; Tassinari et al., 2015; Rubini, Pollio, 2015). E allo stesso modo la lettura dell’esperienza di politica industriale negli Stati Uniti può contribuire allo scopo (Di Tommaso, Schweitzer, 2013; Tassinari, 2014; Di Tommaso, Tassinari, 2017). Ma ci sono altri motivi per prestare attenzione alle politiche industriali di altri paesi. Anche in un’ ottica di strategia di investimento privata approfondire lo studio delle pratiche di politica industriale di altri paesi può essere efficace strumento di comprensione e anticipazione dell’evoluzione
della domanda di quei mercati. Conoscere, ad esempio, le strategie di upgrading tecnologico delle economie emergenti ad elevati tassi di crescita diventa un modo di ancorare (e diversificare) gli investimenti alla domanda estera, oltre che a quella interna (Di Tommaso, 2015).
La seconda strada percorribile per migliorare l’efficacia dell’intervento di policy è lavorare a metodologie che possano essere di supporto alle scelte di policy in materia di settori (imprese e territori) strategici. Le priorità di sviluppo, gli obiettivi di lungo periodo da perseguire sono necessariamente una scelta politica, che può essere compiuta anche in partnership con gli altri stakeholders pubblici e privati di riferimento. A titolo di esempio, un percorso di analisi può essere quello di tradurre queste priorità in variabili utili alla misurazione degli obiettivi di lungo periodo. È poi possibile costruire analisi mirate che misurino il contributo che ogni settore – o territorio, impresa, tecnologia – offre alle variabili selezionate. L’utilizzo di indicatori composti, la costruzione di ranking dei settori e l’analisi di robustezza di tali ranking possono essere efficaci strumenti se utilizzati in questa ottica (Tassinari et al., 2014; Barbieri et al., 2015).
Il punto però non è tanto la costruzione, ad esempio, di un ranking dei settori strategici (o degli investimenti strategici) che sia l’ottimo possibile. Il punto è costruire un metodo che diventi anche luogo di discussione aperta e trasparente. La scelta delle variabili rilevanti, dei pesi da attribuire a ciascuna, le variazioni che il ranking subisce se le variabili cambiano possono diven- tare strumento di correzione di potenziali fallimenti, sia interni che esterni. Intendiamo per fallimenti interni le difficoltà che l’insieme delle istituzioni che promuovono le politiche (agenzie, ministeri, dipartimenti, ecc.) hanno per esempio nel trasmettere e seguire obiettivi, strategie, linee attuative. Per fallimenti esterni intendiamo la mancanza di trasparenza nei confronti della società civile, l’attenzione parziale verso le lobby con più capacità di voce, le asimmetrie informative ecc. (Di Tommaso, Schweitzer, 2013; Di Tommaso, Tassinari, 2017). In questo quadro, è importante soffermarsi sulle analisi di robustezza dei ranking, che in esercizi applicati di questo tipo diventerebbero il cuore dell’analisi e che dovrebbero essere rese accessibili e discusse pubblica- mente. Troppo spesso infatti l’uso strumentale di classifiche ad hoc rischia di far degenerare l’utilità dello strumento. Verificare la robustezza di un ranking, dei settori strategici nel nostro caso, diventa cruciale. I test di robustezza, attra- verso ad esempio analisi d’incertezza (Marozzi, 2014), possono infatti essere interpretati come una misura della discrezionalità associata a certi interventi e che, a determinate condizioni, può tradursi in potenziale fallimento di governo (Barbieri et al., 2015; Tassinari et al., 2014). La costruzione di indicatori com- posti, l’analisi e la discussione dei ranking diventerebbero, in questa ottica, un modus operandi che potrebbe essere utilizzato anche per interventi ex-post, in una logica premiale, a favore ad esempio di attori privati che attraverso le loro
caratteristiche e i loro comportamenti abbiano saputo contribuire ad obiettivi economici e sociali prefissati.