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Trasformazioni urbane per contenere il “Grande Gap” oltre la crisi?

Luciano Pilotti

1. Trasformazioni urbane per contenere il “Grande Gap” oltre la crisi?

Dalla crisi economica strutturale che avanza da ben oltre i 7 anni dei “cicli biblici”, e da una stagnazione che colloca la crescita futura dell’Italia sotto l’1 % con effetti devastanti su occupazione, base produttiva e ruolo stesso dei nostri sistemi di PMI si esce con una politica industriale che abbia la crescita (investimenti, consumi e qualità dei contesti) negli obiettivi prioritari e con politiche di sviluppo urbano che facciano da volano e conduzione di politiche di innovazione ecologica e sociale con alla base incentivi alla formazione di capitale umano adatto. Una crisi economica che – come noto – parte da una caduta pluriennale della domanda interna di consumi e investimenti alimentata dal circolo vizioso e deflazionistico tra rinvio degli acquisti e rinuncia agli investimenti uniti da un unico circolo tra “sfiducia” e aspettative negative (Cappellin et al., 2015). Quindi non basta “tagliare (pur selettivamente) la spesa” ma introdurre stimoli alla crescita, certo tagliando rendite monopoli- stiche e conflitti di interesse liberando risorse per gli investimenti innovativi ma anche – e forse soprattutto – migliorando la qualità dei contesti territo- riali (la business atmosphere di marshalliana memoria), (1998, 2000; Teece, 2007). Il quadro che fonda il “Grande Gap” competitivo” (De Giovanni, Sica, 2014), di produttività, innovazione e formazione del capitale umano (tecnico, manageriale e imprenditoriale) è ben rappresentato dal crollo della posizione relativa dell’Italia se confrontata con altri paesi partner europei e fotografato da un solo dato di sintesi: il PIL procapite nel 2000 era di 17 punti sopra la media europea e che nel 2015 scende sotto quella media di 4 punti. Dal 2007-8 si sono succedute due recessioni con riduzione del PIL di 10 punti, ben oltre gli esiti della crisi del 1929.

È noto che non investiamo adeguatamente in innovazione da oltre 30 anni come emerge da tutti gli studi sul tema che fotografano il differenziale degli investimenti in R&S, in infrastrutture e in innovazione. Ma la qualità e la cre- atività si stimolano con politiche di lungo termine e se sostenute da appropriate risorse in R&S e in formazione del capitale umano, intrecciando investimenti pubblici e privati, concentrandoli su specifiche piattaforme aperte di innovazione e assegnandovi continuità (Orsenigo, 2015; Chesborough, 2003). Il Governo (tra 2015 e 2016) dopo anni (o decenni?) di “inazione” ha cercato di invertire la marcia con alcune misure di supporto all’innovazione che elenchiamo e di cui vedremo tuttavia gli effetti compiuti solo a medio termine:

a. credito d’imposta per attività di R&S, Legge di Stabilità 2015; b. patent box, Legge di Stabilità 2015;

c. beni strumentali (Nuova Sabatini) PMI;

d. sconto fiscale per investimenti in beni strumentali (Guidi/Padoan); e. misure a sostegno delle start-up innovative e PMI innovative.

Un insieme di misure che cercano di riavviare il ciclo degli investimenti introducendo stimoli alla fiducia come leve di reticolarizzazione settoriale e intersettoriale (oltre che interregionale) e di condivisione dell’innovazione con misure di accompagnamento di accesso al credito abbassando la rischiosità degli investimenti e del costo del finanziamento. Mancano ancora politiche di ampio respiro sulla ricerca di base e applicata2 che investano su grandi progetti

integrati di piattaforma superando il disaccoppiamento tra quantità e qualità e le debolezze dei meccanismi di trasferimento della ricerca all’industria (Orsenigo, 2015; Pilotti, 2015; Giorgetti, Pilotti, 2015) riconiugando qualità a quantità di ricerca, pubblica in primo luogo e poi privata (Mazzucato, 2014). È infatti del tutto evidente che le carenze infrastrutturali di tipo materiale e immateriale sono conseguenza diretta di una caduta sia degli investimenti pubblici e della loro distorsione allocativa e sia dalle pesanti inefficienze della spesa corrente accumulate nel medio-lungo termine che sono tali da segnalare il diffuso “malfunzionamento” (oltre al malcostume corruttivo mai sedato) di istituzioni pubbliche e private nella gestione delle risorse pubbliche e le pesanti eredità “consociative” del welfare degli anni ’70 e ’80 che hanno frenato cambiamento e innovazione.

2. “Città densa”: veicolo connettivo tra crescita e sviluppo di lungo periodo

Partendo dunque dai territori vediamo che nel ranking europeo, per esem- pio, solo la Lombardia è in linea pur debole con la media europea. Da qui allora agire per il ruolo che può essere svolto proprio dalle regioni e dalle aree metropolitane che si configurano come vere aree multi-distrettuali e multi-servizio integrate e dense di nuove funzioni produttive la cui dematu- razione (infrastrutture, smart city e cicli della formazione/alta formazione in un quadro regionale/multiregionale, ricerca e innovazione) può rappresentare una leva fondamentale di crescita bottom-up di tipo locale e/o multilocale al servizio di percorsi “glocali” di sviluppo (Asheim et al., 2007). Tanto più rile- vante visti anche i “ripensamenti” planetari emergenti nella crisi sulla tenuta e qualità del Made-in-Italy come l’abbiamo conosciuto finora e che necessita di aggiornamenti. La crescita manifatturiera non può più fare a meno della spinta e fuelling derivanti dal contributo offerto dalla ricchezza del tessuto urbano e delle sue trasformazioni. Questo rappresenta infatti un fattore di densificazione dell’accesso e uso di una risorsa strategica come la conoscenza

2 “Assorbendo” il cosiddetto “paradosso europeo” e italiano in particolare: rispetto agli USA noi

non scontiamo tanto debolezze legate alle capacità di generare ricerca (ancorché frammentata) ma alla nostra capacità di trasferire i risultati della ricerca all’industria e poi a consolidarle con ricorso a brevettazione e protezione della proprietà intellettuale.

a supporto del salto tecnologico e di esperienza utile ad agganciare crescita a sviluppo, riaccoppiando tecnologia a innovazione, cultura a creatività, talenti a comunità. Una densificazione di modelli produttivi verso un allargamento del focus specializzativo che deriva da una espansione della divisione tecnica e cognitiva del lavoro tra imprese e favorita sia da customizzazione radicale di prodotti e servizi e sia da crescente porosità dei confini settoriali e intersettoriali verso una “modernità sostenibile” (Rullani, 2010).

Modelli produttivi più flessibili dinamici e interattivi sostenuti da nuove basi cognitive di reti e filiere integrate che pongono al centro conoscenza e creatività utili a riallargare le basi di crescita tecnologica e occupazionale, soprattutto di qualità e di tipo stabile con effetti di trascinamento anche su funzioni e ruoli unskilled (Pilotti, 2015). Modelli che guardano anche alla contaminazione interdistrettuale e interspecializzativa di connessione tra aree distrettuali e aree metropolitane (Belussi et al., 2003) ridisegnando le dinamiche evolutive della cosiddetta Terza Italia (Brusco, 1989; Mariotti et al., 2006). Il territorio urbano/extra-urbano nelle sue interrelazioni tende infatti a spingere l’inspessimento del tessuto geografico-culturale di condivisione unendo fattori micro, meso e macro, ossia individuo e società, comunità e spazi di interazione multidisciplinari e multisettoriali dentro un più generale e diffuso “Ritorno dei Produttori” o dei “Makers” per dirla con la formula di Chris Anderson (2013) nella formazione arborescente di “ecologie del valore” e mercati conversazionali (Prahalad, Ramaswamy, 2004).

3. Contesti urbani e politiche di innovazione per “idee motrici” tra

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