Luciano Pilotti
5. Il ruolo delle imprese e le traiettorie di miglioramento del loro profilo oltre la crisi del controllo: dai Big Data alla Manifattura 4
La domanda dalla quale partire: qual’è il profilo medio delle imprese ita- liane e come possiamo aiutarlo ad evolvere, spingendolo verso una mutazione ormai necessitata e ineludibile quale contributo alla crescita del paese di fronte all’incremento di complessità gestionale e operativa oltre che strategica innescata dalla società ed economia della conoscenza e dalla digitalizzazione accelerata dalla manifattura 4.0?
Si dovrà agire in particolare, operando su molteplici gangli del cambiamento: dalla cultura d’impresa, alla struttura societaria, dalla propensione al rischio e all’investimento in innovazione tecnologica, dalle risorse organizzative alla visione dei mercati, dagli investimenti in formazione del capitale umano alla qualificazione dei contesti spaziali di attrazione degli investimenti. Cambiamento che sia in grado di innescare un innalzamento delle soglie di produttività, di attrattività dei talenti migliori, attraverso una superiore apertura societaria, maggiore disponibilità agli investimenti sia in formazione tecnica e sia in alta formazione (scientifica e umanistica) e dei profili manageriali sia di competenza e sia connessi con l’ internazionalizzazione. Spinte utili a fare ripartire inoltre quella mobilità sociale imprenditoriale verso l’alto che si è fermata negli anni ’90 del secolo scorso.
Quindi non basta guardare alla domanda e a come stimolarla, se con abbassamento dei prezzi, e/o con riduzione di tasse (80 euro del Governo Renzi nel 2015 e 2016), ma dobbiamo guardare anche al lato delle imprese, alla loro struttura e alle modalità prevalenti di presa delle decisioni, alla loro percezione del rischio e dell’innovazione nel medio-lungo termine e che va a formare poi l’offerta aggregata. Imprese che hanno un assetto societario spesso sotto-patrimonializzato e a basso tasso di managerializzazione, con una struttura dimensionale spesso troppo fragile per poter reggere la competitività dei mercati globali dell’innovazione, della ricerca e della conoscenza. Dunque se da una parte si può concordare sulla diagnosi dei gap del paese, dall’altra l’accordo è minore sull’analisi delle cause e in particolare quelle che attengono al profilo imprenditoriale, gestionale e dimensionale delle nostre imprese che crescono sempre meno o addirittura decrescono rispetto ai partner internazionali. Ma l’economia reale non si può migliorare solo a partire dalle condizioni esogene, ma anche e forse soprattutto a partire:
a. dalle qualità del capitale umano aziendale e sulle sue scelte strategiche, sulla natura dei processi aziendali (orizzontali e fluidi, o rigidi e verticali?);
b. dalle scelte decisionali (settoriali o intersettoriali, focalizzate o aperte, ecc.) spesso scaricate su logiche di breve termine e più orientate alla salvaguardia del patrimonio che delle capacità di produrre reddito e valore;
c. dai caratteri e stili gestionali dei top manager, sui comportamenti della proprietà e degli azionisti di riferimento spesso troppo autoreferenziali; d. dal ruolo delle famiglie nella gestione e nella manutenzione proprietaria
(quanto aperte a manager scelti fuori dai perimetri familiari e/o amicali come per i soci lungo il perimetro proprietario e secondo criteri di indipendenza?); e. dalla cura del contesto di “prossimità” nel quale l’impresa affonda la propria
storia e le proprie origini identitarie agendo su una crescita osmotica per realizzare tutti i potenziali di ecologie emergenti per una creatività sempre più condivisa che sia locale e globale insieme.
f. dalla promozione del diversity management aprendo soprattutto a giovani e donne per accendere e stimolare risorse creative e ibridare e contaminare le culture aziendali con altre culture “esterne”.
g. dall’assunzione di forte responsabilità etiche da parte di CdA consapevoli vero l’ambiente, i propri collaboratori e le generazioni future.
Dimensioni che negli ultimi 30 anni hanno pesato non poco sui destini di interi settori e aree geografiche o sulle trasformazioni di interi distretti specia- lizzati della Pedemontana alpina e appenninica. Da cui incertezze decisionali e strategiche, ricerca protettiva dal rischio imprenditoriale, riduzione dell’in- vestimento medio, intreccio tra interessi familiari e aziendali e conseguente confusione di ruoli, spesso non guidati dalle migliori competenze, minate da sfiducia nel futuro, short-termism, assenza di visione ecc.
L’attenzione (comunque “protettiva”) al giardino non deve nascondere le fragilità dei singoli fiori e delle singole piante di fronte alla complessità delle trasformazioni globali. Un quadro che non deve nascondere il ruolo di grappoli di imprese medie che negli ultimi anni sono riuscite a sopravvivere alla crisi attraverso i supporti delle forze distrettuali e dei contesti che comunque in molti casi hanno funzionato seppure solo in poche regioni del Centro Nord e nella sola Campania al Sud. Si tratta allora di lavorare ad una ecologia emer- gente capace di restituire fiducia agli attori di mercati diventati vere e proprie “conversazioni” per una ripresa degli investimenti privati (e pubblici) oltre che dei consumi e tuttavia con un rinnovamento del modello aziendale prevalente verso strutture più piatte, relazionali, caratterizzate da leadership partecipative verso più robuste employeeship capaci di dare spazio ai talenti, alla creatività e ai giovani fronteggiando al meglio le sfide della società della conoscenza.
Trasformazioni che consentano l’esplorazione di nuovi modelli di business. È quanto emerge per esempio dal Global Human Capital Trends 2016 (Deloitte, 2016) che suggerisce di cogliere più in profondità le performances dei model- li organizzativi e innovativi prevalenti orientati ad una “grande mutazione genetica” da strutture prevalentemente piramidali, gerarchiche e rigide (con
processi decisionali Top-Down) verso modelli circolari e partecipati sostenuti da processi decisionali bottom-up con al centro il ruolo delle risorse umane.
Ciò che possiamo (e dobbiamo) fare è dunque crescere in rete e guardare alle filiere, superare gli individualismi e aprire l’impresa a nuovi apporti di gestione, patrimoniali e di conoscenza cercando di affermare in ogni settore e filiera, nicchia e supernicchia alcune aziende di riferimento anche dimen- sionalmente significative in modo complementare alla crescita della coorte delle PMI, fluidificando i rapporti tra piccole e imprese medio-grandi creando super-organismi sistemici di imprese. Reimpostando per esempio piani di for- mazione e reinserimento di lungo periodo per accogliere i cambiamenti radicali immessi dalla economia e società della conoscenza e della emergente Fabbrica 4.0. Configurazione della “Quarta Rivoluzione industriale” che sembra dunque spostare gli equilibri planetari verso l’Europa e il vecchio mondo dopo che Internet sembrava avere aperto varchi solo oltre
La concentrazione su eventi congiunturali, su politiche pubbliche e su contesti regolativi per politiche strutturali, non deve dunque oscurare le debo- lezze e le sfide delle singole imprese (e dei loro sistemi integrati) e le rispettive responsabilità gestionali e proprietarie di chi detiene le redini della governance, delle scelte di portafoglio e industriali per poterle adeguatamente supportare nel ripartire lungo un sentiero shumpeteriano sia con un pubblico più efficiente e sia con un privato più competitivo. Entrambi focalizzati ad accrescere la produttività media del sistema, soprattutto cognitiva per riavviare capacità innovative. Con superiore stakeholdership lungo modelli partecipativi e più lungimiranti approcci CSR!
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