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Problemi di planimetria: modello 'punico' e 'modello romano' a confronto

Sulle categorie del contatto culturale

1.1 Problemi di planimetria: modello 'punico' e 'modello romano' a confronto

La 'reazione' postcoloniale accademica cui si è accennato appare giustificata alla luce del suo scopo, quello di valorizzare, dopo svariati decenni di discredito, le specificità 'africane' delle culture materiali dell'Algeria, della Tunisia o della Libia antica.

Le prospettive di autori come Marcel Bénabou si spingevano tuttavia oltre, tratteggiando una nuova immagine delle realtà africane, le quali, seppur sottomesse al potere di Roma, avrebbero fatto prova di una resistenza culturale, nei tratti religiosi, artistici, architettonici, all'imposizione di un modello romano519.

L'idea di una resistenza religiosa locale rispetto al modello romano, leggibile attraverso l'architettura o attraverso la collocazione spaziale dei templi, ha dunque avuto un'influenza notevole nello studio e nell'interpretazione della vita religiosa e del pantheon della città. Basandosi su questi presupposti le caratteristiche architettoniche degli edifici e in particolar modo degli edifici di culto hanno dunque giocato un ruolo tutt'altro che secondario, in quanto storici e archeologi si sono spesi in un'intensa ricerca di un modello planimetrico detto “di tradizione africana” derivato da modelli orientali, connessi ai luoghi originari di provenienza dei navigatori fenici poi installatisi nell'Africa settentrionale.

517Esaminando il repertorio delle iscrizioni in Zeugitana M. Sebaï segnala ben 31 città rette da magistrature autoctone: suffetati, equivalenti al consolato a Roma, sono testimoniati per Tepelte, Avitta Bibba, Thibica, Apisa Maius, Apisa Minus, Sucubi, Biracsaccar, Abbi[r---], Aradi, Curubis, Chul, Thinissut, Vina, Siagu, Thuburnica, Althiburos e Masculula; sono centri forniti di magistratus Vina, Furnos Minus, Gori, Biracsaccar et Thabarbusis ; l' undecimprimato è presente a Bisica, Gens Bacchuiana, Hr Debbik, Sutunurca, Furnos Minus, Sicilibba, Chidibbia, Hr ben Glaya e Thignica. Alcuni centri come Vina, Furnos Minus, Biracsaccar riportano attestazione di una doppia magistratura, come suffetato e magistrato, undecimprimato e magistrato. Non sono chiari i contorni e le funzioni degli undecimprimi e del

magistratus, ma esistevano comunque probabilmente delle variazioni interne alle funzioni stesse. Cfr. S. Belkhaia, G.

Di Vita-Evrard, Magistratures autochtones dans les cités pérégrines de l'Afrique proconsulaire, in Afrique du Nord

antique et médiévale, Actes du Vle colloque international su l'histoire et l'archéologie de l'Afrique du Nord, (Pau, octobre 1993) Paris 1995, pp. 255-274.

518 È la civitas a dedicare i monumenti, finanziati pubblicamente, con l'autorizzazione dei decurioni, mentre l'esecuzione rimane competenza dei suffeti.

I presupposti e i risultati di questa prospettiva, che trae inoltre linfa da un'idea di esegesi riconosciuta come “directement issue du romantisme allemand et du courant philosophique français de l’histoire”, sono stati di recente discussi e in larga parte ridimensionati, in quanto riconosciuti in larga parte debitori di una certa obsession des origines legata non solo alla ricerca delle radici puniche ma anche di quelle fenicie o più in generale semitiche520.

Nonostante lo smantellamento di gran parte delle premesse su cui si fonda un'interpretazione etnica della strutturazione dei luoghi di culto, nella bibliografia recente permangono alcune istanze ad essa direttamente connesse, a partire dal “modello planimetrico semitico”, venutosi a creare sotto l'influsso degli studi di Alexandre Lézine sull'architettura religiosa punica521, che avrebbe modellato

svariati luoghi di culto africani, mantenendo alcuni elementi planimetrici quali tratti distintivi e identitari, diretto esito della planimetria del tempio semitico per eccellenza, quello di Gerusalemme522. Secondo questa prospettiva le comunità locali avrebbero infatti coscientemente

mantenuto questi elementi planimetrici quali tratti distintivi e identitari, prova di un “attachement des Puniques aux traditions de leur mère patrie”523.

Se la tipologia “italica” si definisce in base all'assialità, ovvero l'organizzazione dello spazio che subordinando la composizione a un asse - reale o concettuale - determina una direzionalità, in questo caso verticale, nella tipologia “africana” (che Le Glay descrive a partire da un consistente numero di templi dedicati a quella generalmente considerata come la “più africana” delle divinità romane, Saturno) le proporzioni si sviluppano secondo un asse orizzontale, con le cellae, generalmente tre, disposte poste sul fondo di una corte, delimitata da un recinto524, che si

configurerebbe quale eredità diretta delle aree a cielo aperto525.

La scoperta, tra XIX e XX sec. da parte di Alfred Merlin e Louis Carton di tracce che richiamavano il modello dell'area sacra a cielo aperto - come a Thugga, Thuburnica, Jebel Bou Kournein - contribuì in modo importante alla messa a punto di un modello interpretativo 'originario' ed etnico

520 M. Sebaï, La construction d’un mythe contemporain: les temples “sémitiques” d’Afrique romaine, «Anabases» 11, 2010, pp. 165-179 (165).

521 A. Lézine, Resistance à l'hellénisme de l'architecture religieuse de Carthage, cit., pp. 247-261, teorizza uno schema evolutivo in tre fasi, di cui la prima vedrebbe un betilo al centro di una corte circondata da portici, nella seconda una cella prenderebbe il posto del betilo, e successivamente la struttura acquisirebbe altre celle (due o tre), giustapposte.

522 Questo è descritto dall'Antico Testamento come un edificio di forma rettangolare, la cui entrata era incorniciata da due pilastri, e composto da tre parti in successione, in senso verticale: il vestibolo, la sala di culto e il Qodesh ha- Qodashim con altre camere laterali destinate al servizio cfr. Re, 6-7:17; A. Parrot, Le temple de Jérusalem, Paris, 1954, p. 7-50; cfr. anche J.Z. Smith, To Take place, cit., cap. 2.

523 A. Lézine, Résistance à l'hellénisme de l'architecture religieuse de Carthage, cit., p. 256.

524 Alla definizione della tipologia africana concorse infatti una valorizzazione del recinto recinto sacro, nel quale una piccola edicola che conteneva l'immagine della divinità, preceduta da un altare per i sacrifici, come si volle rintracciare a Thinissut.

525 S. Saint-Amans, Topographie Religieuse de Thugga, (Dougga) Ville romaine d’Afrique Proconsulaire (Tunisie), Bordeaux 2004, p. 226.

'di questa tipologia architettonica, cui fu dato il nome di “tempio africano d'origine semitica', e a cui si affiancò quasi naturalmente una lettura parimenti etnica delle divinità associate a questi spazi. La disposizione dei templi e dei santuari fu dunque assunta con decisione a prova dell'origine punica di un culto. È vero che, parlando in modo molto generale, lo schema degli edifici religiosi africani presenta delle differenze e delle specificità rispetto ad altri contesti geografici come l'Italia, la Gallia o la Spagna, e che l'elemento distintivo in Africa oltre ala presenza di una corte con portici, in fondo alla quale si posizionano una o più cellae e un altare, è spesso l'assenza di un

podium.

Tuttavia la tipologia semitica o africana mostra al suo interno differenze anche marcate, e che si concretizza in edifici in cui principi di simmetria e assialità, considerati “tipicamente romani”526,

non sono assenti, bensì operativi.

Gli edifici religiosi di impianto punico, manifestano tra loro differenze anche accentuate, e comportano dissonanze planimetriche con quelli che sono considerati gli schemi orientali dell'area fenicia, come i siti di Amrith, Sidone e Sarepta, comunque toccati e influenzati, com'è naturale attendersi per la storia di quei luoghi, da elementi egiziani, assiri e achemenidi; anch'essi, se considerati nelle loro specifiche caratteristiche, mostrano delle differenze non trascurabili527. Tali

discontinuità, in Africa come anche in Sardegna, non appaiono meno significative rispetto a quelle che intercorrono con modelli più propriamente 'romani', in cui invece le differenze vengono generalmente evidenziate in modo più netto.

Come ha mostrato M. Sebaï le forzature sottese al modello di Lézine, le quali talvolta non colgono o deformano la cronologia delle diverse fasi dei complessi cultuali presi in analisi (come a Thinissut, El-Kenissia e Bulla Regia) o gli stessi dati epigrafici, si comprendono nel panorama di una ricerca sistematica di modelli dualistici. Tali modelli sono per molti versi analoghi a quelli che da un lato continuano programmaticamente a evocare la natura autentica e le caratteristiche originali delle diverse divinità, dall'altro tendono a distinguere tra una “religiosità popolare”, che si

526 S. Saint-Amans, Topographie Religieuse, cit. p. 222 e n. 41 che rimanda a M. Le Glay, Saturne Africain, II.

Monuments, cit., p. 280 n.3: evidentemente non è possibile ascrivere il principio di assialità all'epoca romana o

ellenistica; principi assiali sono operativi infatti nei templi egiziani e Fenici (A. Parrot, Le temple de Jerusalem, cit., p. 14 fig. 3), così come nel palazzo cipriota di Vouni all'epoca arcaica. È vero però che l'assialità si sviluppa in modo particolare nella Grecia asiatica, per trionfare nello schema ippodamico del V secolo e divenire caratteristica dei monumenti ellenistici.

527 Le strutture templari di Amrith e di Sidone risentono in modo evidente della monumentalità achemenide; M. Dunant, N. Saliby, Le temple d’Amrith dans la Pérée d’Aradus in «Bibliothèque archéologique et Historique«, CXXI, Paris 1985; M. Dunand, Le temple d’Echmoun à Sidon. Essai de chronologie, in «Bulletin du Musée de Beyrouth» 26, 1973, pp. 7-24. Sarepta mostra una struttura meno monumentale, ma probabilmente ulteriori scavi potrebbero portare nuovi elementi secondo J. B. Pritchard, Sarepta. A Preliminary Report on the Iron Age, Philadelphia 1975.

suppone conservativa e meno coinvolta dal contatto culturale, e una “religiosità colta”, permeata di quella riflessione filosofica considerata necessaria all'elaborazione dei modelli sincretici528.

I dati archeologici relativi alle planimetrie e alle fasi di costruzione, associati ai dati epigrafici e ai rinvenimenti statuari, ad esempio a Thinissut, hanno permesso invece di tratteggiare quadri diversi, rispondenti ad istanze ed esigenze di ricerca differenti, e meno preconcette529. È possibile in questo

modo porre sotto diversa luce quei tratti considerati specifici ed etnicamente rilevanti, come quello della generale assenza dell'elemento del podio tipicamente italico-romano.

Tenendo presente che in Africa Proconsolare alcuni podia sono comunque presenti, seppur in modo sporadico, come ad esempio a Cuicul e a Thuburnica530 - e che inoltre è possibile che elementi quali

la terrazza o la piattaforma potessero sostituirvisi con una funzione analoga - quest'assenza può essere in parte dovuta al posizionamento dei santuari, che coerentemente alla conformazione territoriale montagnosa e al rilievo di molti siti, si situavano nella gran parte dei casi in luoghi elevati, ben visibili anche a distanza.

Un ulteriore tratto planimetrico da valutare è quello della corte con portici e cella situate nell'asse dell'entrata dell'area santuariale, che A. Lézine, e successivamente G. Ch. Picard e M. Le Glay hanno tentato di isolare quale elemento essenziale di una persistenza dell'area sacra a cielo aperto. Sottraendosi alla logica evolutiva tesa all'identificazione di un modello originale, nulla vieta di considerare queste configurazioni come varianti di un elemento costitutivo noto e diffuso anche in Grecia e a Roma, atto ad accogliere i fedeli e le attività rituali che si svolgevano sotto il portico e intorno all'altare, e fungendo da mediazione architettonica tra la sfera umana e le attività funzionali al culto e la sfera della divinità a cui è invece riservata la cella.

Nella misura in cui lo lasciano intuire le vestigia archeologiche da un lato e la comparazione con altre aree dall'altro, ogni luogo di culto “romano-africano” a prescindere dalla sua planimetria, era portatore di una sua specificità e originalità nella ripartizione degli spazi interni e nelle composizioni architetturali, tanto da ridimensionare la portata e l'importanza delle presunte origini orientali. D’altro canto la creazione di nuove forme di spazio cultuale va di pari passo con la creazione di nuove divinità, la loro reinterpetazione e rifunzionalizzazione in vista degli interessi della diverse e nuove comunità civiche.

528 M. Le Glay, Les syncrétismes dans l'Afrique ancienne, cit., pp. 123-151, (124). Si veda la discussione in A. Motte – V. Pirenne-Delforge, Du “bon usage” de la notion de syncrétisme, cit., pp. 11-27, (15) e M. Sebaï, Stéréotypes

contemporains, stéréotypes antiques: cit., pp. 129-141 (133-134).

529 Si vedano da ultimo i contributi di H. Dridi, M. Sebaï, De Tanesmat à Thinissut. Nouvelles observations sur

l'aménagement d'un lieu culte africain, in Études d'Antiquités Africaines, 2008, pp. 101-117, e le osservazioni di B.

D'Andrea, più legato però allo schema evolutivo proposto da Lézine; cfr. infra.

530 Anche in questo caso si tratta di un podio naturale, benché venga integrato tra i templi romano-africani con podio da M. Le Glay, Saturne Africain..Histoire, I. cit., p. 281; esso presenta cinque gradini con la funzione di raccordo tra la corte e il pronaos, che seguendo il declivio del piano su cui è costruito il tempio si trovano su due livelli diversi.

La prospettiva che guarda al microcosmo della comunità civica come al fulcro della vita religiosa africana, non adombra o depotenzia le prospettive di ricerca sulla categoria di spazio rituale, così come l’abbiamo definita nella prima parte di questo lavoro, sottoponendola a vagli multidirezionali; anzi, sottraendole al dominio fenomenologico a vocazione assolutista, le precisa calandole nei precisi contesti di cui si va ad occupare.

Lo spazio del tofet, connesso a specifici rituali legati ala mondo ctonio, rappresenta un caso emblematico e importante di una discontinuità non assoluta, che si declina nei diversi casi, anche con il mantenimento di alcuni gesti rituali, con alcune differenze, secondo un calendario definito dalla comunità. Alcuni complessi cultuali “extraurbani” come quello di Thinissut, dedicato in epoca punica alla coppia Ba’al Hammon e Tanit e successivamente a Saturnus e Caelestis mostrano in modo più chiaro rispetto ad altri esempi che gli spazi cultuali erano soggetti a una riformulazione perpetua.

Conseguenze dirette si hanno anche sulla disposizione dei luoghi di culto nella topografia di una città, definita da regole specifiche, relative alla storia delle divinità, alla loro funzione intrinseca, al ruolo che rivestivano in seno alla comunità, umana (e divina). L'integrazione degli dei nella città rispondeva anche a ragioni legate al ruolo e alla posizione degli dei nella città e alla sfera d'azione di questi.

Inoltre lo spazio concesso ai luoghi pubblici, così come l'evoluzione e l'estensione del quadro urbano e la topografia del terreno erano fattori determinanti nella scelta, da parte delle autorità preposte e degli evergeti, di uno spazio atto ad ospitare un culto. Una discreta influenza sulle scelte doveva avere inoltre un elemento molto pratico, come la divisione dei terreni tra i privati; talvolta gli edifici cultuali, come a Thugga, sono costruiti su spazi privati, anche se non conosciamo esattamente i motivi per i quali alcune famiglie procedettero a queste scelte.

Tali considerazioni rendono dunque evidenti alcuni problemi; in primo luogo la difficoltà di categorizzazione dei luoghi di culto a cielo aperto sulla base di caratteristiche formali o rituali, e la necessità di evitare qualsiasi approccio culturalista nell'analisi dei fatti rituali; in secondo luogo si delinea in modo netto l'interesse, per una ricerca che voglia riflettere sui rapporti spaziali e topografici dei luoghi di culto in un contesto di contatto culturale e religioso, di alcune figure divine connesse a particolari localizzazioni territoriali per motivi strategici o rituali, a cominciare da Saturnus.

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Lo spazio rituale punico