Aspetto ulteriore del rapporto tra divinità e spazio, che affianca la questione del radicamento degli dei nel territorio espresso attraverso la toponimia e le epiclesi divine, riguarda quella che potremmo chiamare modalità di presenza della divinità all’interno dei luoghi di culto.
Si tratta infatti di un tratto importante nel quadro del sistema concettuale polivalente su cui si costruisce nel politeismo la relazione tra divinità e comunità e la sua concettualizzazione dal punto di vista spaziale, per affrontare il quale è necessario riflettere sul posizionamento, in un contesto
255 Cfr. F. Fontana, I culti di Aquileia repubblicana. Aspetti della politica religiosa in Gallia Cisalpina tra il III e il II
sec. a.C.,Roma 1997, pp. 136-153; sulle divinità venetiche a cavallo della romanizzazione cfr. Ead, Forme di culto lungo la via Annia: divinità del territorio e divinità in viaggio, in ALTNOI. Il santuario altinate: strutture del sacro a confronto, cit., pp. 415-430.
256 Cfr. G. Breyer, Elemente Etruskischen Sprachgutes im Lateinischen, in Id. Etruskische Sprachgut im Lateinischen
unter Ausschluss des Spezifisch Onomastischen Bereiches, Leuven 1993, p. 316.
257 Cfr. V. Bellelli, Vei: nome, competenze e particolarità cultuali di una divinità etrusca, in V. Nizzo, L. La Rocca
Antropologia e Archeologia a confronto. Rappresentazioni e pratiche del sacro. Atti del 2 congresso Internazionale di studi, (20-21 maggio 2011) Roma 2012, pp. 455-478.
258 Com’è noto con struttura si fa riferimento sì ad un sistema coeso, identificabile grazie alla comparazione di fenomeni diversi riconducibili ad uno stesso schema, ma anche ad un modello teorico, che se risolve il nesso individualità-generalità rischia di livellare alcune differenze salienti.
topografico e materiale specifico, di un'immagine divina, generalmente una statua, sovente detta “cultuale”.
Questa, insieme alle altre immagini votive, godeva certamente di una posizione preminente nello spazio architettonico del tempio, ricoprendo dunque un significato centrale per lo stesso edificio. Nel mondo antico, com’è noto, il tempio non è un luogo di riunione, ma innanzitutto la sede della divinità; i fedeli si incontrano nello spazio antistante, come si deduce dal lessico usato dalle fonti e dalla posizione dei santuari. Il luogo di culto deve essere quindi adatto alla divinità, la cui immagine cultuale, in una posizione elevata, su un piedistallo, costituisce il fulcro concettuale e rituale dello spazio.
Che cosa è, o cosa rappresenta, dal punto di vista del rapporto tra dei e comunità, la statua di culto? Quale funzione svolge nel contesto cultuale in cui è inserita?
Le fonti scritte ci informano del fatto che le statue degli dei fossero destinatarie di una serie di gesti rituali che si compivano periodicamente, in alcune particolari occasioni religiose; è plausibile tuttavia che il rapporto 'fisico' tra le immagini e i fedeli o gli operatori di culto fosse molto più ampio, e che anche quotidianamente le immagini fossero oggetto e fulcro di un'ampia gestualità rituale che per ovvi motivi è difficile ricostruire. Questi con ogni probabilità traevano la loro origine da un complesso di riferimenti, che rifletteva le relazioni che i fedeli intessevano con i propri dei. L'elemento legato all'uso dello spazio, anche simbolico, doveva costituire in questo senso una chiave interpretativa fondamentale.
La statua di culto di un dio specifico, quale oggetto materiale costruito dall'uomo in accordo con la volontà del dio (degli dei) che quell'oggetto di culto rappresenta259, è infatti direttamente connessa al
“focus spaziale” della divinità260. Nessuna statua di culto poteva funzionare come tale
indipendentemente o fuori dal contesto spaziale nel quale era posta, tanto che è il luogo di culto che designa una statua come oggetto cultuale, e non viceversa261.
Se precedentemente abbiamo distinto concettualmente l'immagine cultuale dalle altre immagini divine, talora impropriamente dette votive, in realtà il lessico non consente di distinguere immagini offerte alla divinità dall'immagine ufficiale di culto, quella che generalmente occupa la parte centrale del tempio, e ne costituisce se così si può dire il fulcro.
Per quanto riguarda il greco solo il termine hedos (sede, dimora della divinità) sembra avvicinarsi all'idea moderna di statua di culto, mentre agalma, xoanon e bretas non costituiscono un riferimento preciso; la statua in greco può essere definita hydruma (ciò che viene eretto), come anche il tempio;
259 C. Ando, The Matter of the Gods: Religion and the Roman Empire, Berkeley 2008, pp. 147-8.
260 Il termine spatial focus è usato da M. Lipka, Roman Gods, A conceptual approach, Leiden, 2009, pp. 17-19. 261 S. Estienne, Statues de dieux “isolées” et lieux de culte: l'exemple de Rome, in «Cahiers du Centre Gustave Gloz»
il verbo hidryo ha infatti il duplice significato di ‘fondare’ e ‘consacrare’262. Dall'altro lato in latino
simulacrum, signum, imago, effigies non definiscono un contesto specifico di culto. Talvolta
l'immagine divina è evocata direttamente tramite il termine theos/thea, come in Pausania, o
deus/dea in Plinio e in altri autori latini263.
Se le immagini scolpite sugli altari e le stele, sovente poste nella corte o lungo i portici del tempio, si prestavano costantemente allo sguardo, la statua cultuale di una divinità era invece abitualmente accessibile solo al personale sacerdotale; motivi cultuali potevano infatti impedirne in alcuni casi la vista ai fedeli, cui la statua poteva essere mostrata solamente in alcune occasioni264.
Sappiamo infatti che questa era generalmente conservata in una parte interna e non accessibile del tempio265, l’àdyton, sistemata su una base sul fondo della cella, in asse con la porta di ingresso e
dunque rivolta verso l'altare esterno situato di fronte al tempio266.
Il rapporto spaziale tra la statua e le altre componenti strutturali del luogo di culto, in primis la cella, è evidentemente variabile dal un contesto all'altro, e muta nel corso del tempo. La monumentalità delle immagini di culto erette in Grecia a partire dalla metà del VI sec. a.C., costruite con massiccio impiego di materiali preziosi e rilucenti come il marmo, il bronzo e l'oro, ad esempio, ha permesso di dedurre che a quest’epoca venne affermandosi una maggiore attenzione per il rapporto tra statua e luce interna del tempio, con un avanzamento della base verso il centro della cella, così da aumentarne la spettacolarità e l'efficacia rappresentativa. In età ellenistica la sistemazione della statua si situa più frequentemente a ridosso della parete di fondo; tuttavia nel rapporto tra dimensioni dell'effigie divina e spazio interno della cella manca una qualche regolarità costruttiva. Le grandi porte di ingresso e la larghezza della cella, che talvolta poteva essere di forma quasi quadrata, dovevano favorire una particolare relazione tra l'immagine della divinità e la luce interna, nella prospettiva di una visione frontale che doveva enfatizzare l'impressione di superiorità e di grandezza della divinità.
Constatato il ruolo centrale che l'immagine ricopriva a livello visivo e volumetrico nel contesto del tempio è necessario prendere in considerazione il problema concettuale.
Il concetto di statua di culto veicola l'idea che una statua incarnasse in modo permanente la presenza divina, o che rappresentasse il fulcro del culto. Possiamo tuttavia chiederci se i termini della questione siano davvero validi.
262 G. Hock, Griechische Weihegebrauche, Wurzburg 1905. 263 Ad es. Liv. 29.14.10-14; cfr. infra.
264 cfr. Paus. 2.13.3.
265 Eur., Iphig. Taur., 92-103; Paus. 10.24.5; Plin. 26.32.
266 Ciò è valido almeno a partire dalla fine del VI sec. a.C. In età arcaica, come testimoniano infatti le basi di alcune antiche sculture (come la triade di Dreros a Creta, l’Hera di Samo, e l’Atena di Chio), erano poste fuori asse rispetto all'ingresso, questa collocazione risulta poco frequente.
Se la struttura spaziale dei templi greci e romani sembra rispondere a questo tipo di logica, negli ultimi decenni è stato infatti avviato un dibattito teso a definire non solo il ruolo delle effigi nei rituali, attenuando ad esempio la distinzione tra statua di culto e statua votiva267, ma anche la loro
‘natura’ cultuale. Cosa rappresenta per un greco o per un romano la statua della divinità? La rappresenta, la sostituisce, o partecipa essa stessa della natura divina?
Nel narrare come nel 204 a.c. i Romani portarono a Roma da Pessinunte la statua della dea Cibele, con la delibera del senato sulle modalità e sui mezzi necessari per trasportarla, Livio non sceglie di usare i termini simulacrum o signum, generalmente usati per indicare la statua, ma parla di dea. È possibile che la natura del manufatto fosse sottintesa, come suggerirebbe un approccio razionalizzante; tuttavia l'interrogativo rimane, tanto più che le righe seguenti non chiariscono l'ambiguità su questo punto, oscillando tra dea e lapis. Livio spiega infatti come il re frigio Attalo dopo aver ricevuto amichevolmente i Romani, li portò a Pessinunte, diede loro la pietra sacra (sacrum lapidem) che i locali dicevano fosse la madre degli dei, e ordinò di portarla a Roma268.
Reputato migliore tra tutti i suoi cittadini e scelto per accogliere la nave ad Ostia Cornelio Scipio trasse dunque la dea dalla nave e il giorno prima delle Idi di Aprile si occupò di installarla sul Palatino269, luogo da cui Romolo iniziò a tracciare il solco di fondazione di Roma, dunque in una
collocazione che poteva esprimere adeguatamente la sua condizione di estraneità da un lato e di preromanità dall'altro270.
Nel discorso liviano confluiscono altri elementi indicativi del fatto che per un romano, come anche per un greco, tra statua di culto e divinità sussistesse un legame molto più forte rispetto a quello puramente rappresentativo che si sarebbe tentati di attribuirgli. Nella stessa prospettiva si può comprendere come per impedire che Apollo lasciasse la città gli abitanti di Tiro gettassero delle catene intorno alla sua statua271.
267 Cfr. F. Prost, L'odeur des dieux en Grèce ancienne: Encens, parfums et statues de culte, in L. Badiou, D. Frère, V. Mehl (ed.) Parfums et odeurs dans l'Antiquité, Rennes 2008, pp. 97-103; cfr. anche V. Platt, Facing the gods:
Epiphany and Representation in Graeco-Roman Art, Literature and religion, Cambridge 2011.
268 Liv. 29.11: is legatos comiter acceptos Pessinuntem in Phrygiam deduxit sacrumque iis lapidem quam matrem
deum esse incolae dicebant tradidit ac deportare Romam iussit
269 Liv. 29.14.10-14.
270 cfr. J. Scheid, Pouvoir et religion à Rome, Paris 1985, p. 68. cfr. C. Brian Rose, Architecture and Ritual in Ilion,
Athens and Rome, in Architectureof the sacred, cit., p. 192 “If viewed in this light, the Trojan festival was structured
so as to forge a bond with the temple that towered over the festivities, thereby creating yet another network of symbiotic relationships: the cult’s Trojan origins were emphasized, as was Rome’s Trojan ancestry, and Cybele’s temple was pulled into the same legendary framework as the Palatine cave where the Lupercalia were staged”. Sulla topografia sacra e sui percorsi processionali legati al culto di Cibele cfr. P. Pensabene, Il culto di Cibele e la
topografia del sacro a Roma, in B. Palma Venetucci (ed.), Culti orientali tra scavo e collezionismo, Roma 2008,
pp. 21-39.
Ma di che tipo di legame si tratta? Nel trasferimento di Cibele cosa trasportano i Romani, la dea o la sua immagine, che nello specifico non la rappresentava, quanto piuttosto la materializzava nelle forme di una pietra nera?
Una stessa oscillazione lessicale e semantica tra la scelta di dea e di imago divae ricorre nei Fasti, nella descrizione dell'arrivo di Cibele a Roma; Ovidio si riferisce generalmente alla “dea” tranne in un caso, in cui parla di imago divae272. In un contesto religioso e storico mutato, quello dell’avvento
del cristianesimo, il praefectus urbi Quinto Aurelio Simmaco, opponendosi alla rimozione dell'altare della Vittoria nella curia Iulia, parla di praesentia numinis273.
La cura di cui erano oggetto le statue delle divinità nel politeismo greco-romano, riservata probabilmente ai soli sacerdoti e ritenuta un privilegio (geras o venia)274 non è assimilabile ai rituali
mesopotamici funzionali all'animazione delle statue degli dei275 o al rito dell'apertura della bocca in
Egitto276; la possibile allusione in Aristofane a un'offerta di cibo per consacrare o riconsacrare una
statua di culto, suggerita dal riferimento a pentole, non è ovviamente sufficiente ad elaborare una prospettiva di questo tipo277.
Al di là del carattere pratico di conservazione dovuto a qualsiasi oggetto prezioso, alcuni specifici gesti di cura, inseriti in occasioni specifiche legate alla festa della divinità, avevano senz'altro un carattere rituale. I gesti potevano infatti essere rivolti ad un rinnovamento o ad un miglioramento dell'aspetto delle immagini: i colori potevano essere ravvivati - Jupiter capitolino veniva periodicamente ridipinto di minio, essendo il rosso il colore dell'etere, ovvero, secondo Servio, dello stesso Giove278; si faceva abitualmente uso di olio, con lo scopo concreto di far brillare le immagini
divine279, rendendole più luminose e visivamente appariscenti, ma anche, probabilmente, per
assimilazione con le pratiche umane legate all'abluzione e all'aspersione di olio profumato dopo il
272 Ov. Fast. 4.3.17. 273 Symm. Rel. 3.5.
274 Paus. 5.14.5; CIL 8 620= ILS 4908.
275 Si tratta del rito detto Mis-pi con cui le statue venivano animate tramite gesti volti ad aprire loro occhi e bocca, affinché potessero vedere, parlare e mangiare; cfr. K.L. Wilson, Oh, statue, speak. Divine and royal images in
Ancient Mesopotamia in «American Journal of Archaeology» 101, 2, 1997, pp. 382-383; M. B. Dick, "Pīt pī und Mīs pī" in Reallexikon der Assyriologie und Vorderasiatischen Archäologie, vol 10, Berlin 2005, pp. 580–582.
276 Tale rito era tuttavia legato principalmente alla sfera funeraria, attraverso la quale si trasmetteva alla materia inerte la forza vivificante della divinità cfr. A.-M. Roth, The Peseshkef and the 'Opening of the Mouth' ceremony: a ritual
of birth and rebirth, in «Journal of Egyptian Archaeology »78, 1992, pp. 113-147; Ead., Fingers, stars and the 'Opening of the Mouth' : the nature and function of the ntrwy-blades, in «Journal of Egyptian Archaeology» 79,
1993, pp. 57-79.
277 Arist. Pax 922s; Plut. 1197ss.. 278 Serv. Ad Verg. Ecl. 10.27.
279 Cfr. ad ex. Paus. 9. 41. 7; IG 9.2, 154 A 21-22 in cui si menziona un unguento alla rosa utilizzato per la cura della statua di Hera. L'immagine di Dea Dia a La Magliana è unta più volte d'olio nel corso del rituale primaverile a lei dedicato, il primo giorno nella residenza del presidente della confraternita, il secondo nel bosco sacro; cfr. J. Scheid, Le collège des Frères Arvales. Étude prosopographique du recrutement (69–304), Roma 1990. Anche l’effigie del genius, protettore dell'individuo e della casa, veniva cosparsa di olio il giorno dell'anniversario della nascita, vd. Tib. 1.7.49-52.
bagno, finalizzate a conferire al corpo bellezza e vigore280. All'olio deve essere riconosciuta inoltre
una funzione olfattiva, che nel contesto sinestetico del rituale antico non era certamente secondaria281. Le statue, soprattutto quelle delle divinità femminili, potevano essere completamente
immerse nelle acque del mare o di un lago: a Roma Venere veniva bagnata il giorno dei Veneralia282,
pochi giorni dopo la lavatio di Cibele283.
Al di là dell'intento caricaturale, la descrizione attribuita da Agostino a Seneca, tesa a criticare comportamenti ritenuti superstiziosi come la cura delle statue cultuali, può fornire un'idea di come le relazioni tra fedeli e dei, nella forma delle loro effigi, si costruissero con gesti attinti dal mondo delle relazioni umane:
“Capitato sul Campidoglio mi dovetti vergognare della follia collettiva, che un furore ingiustificato si attribuisce come un dovere. Uno appioppa dei nomi a Giove, un altro gli annuncia le ore, uno compie il gesto di massaggiarlo, un altro di ungerlo, imitando i gesti di chi compie quell'azione. Ci sono di quelle che riordinano i capelli a Giunone e Minerva (muovono le dita come acconciatrici, pur essendo lontane dal tempio e non solo dalla statua) ed altre che sorreggono lo specchio.”
L'immagine di culto e le modalità di presenza della divinità nello spazio rituale si intrecciano al problema della concezione antica della corporeità divina. Il corpo degli dei costituisce infatti una questione fondamentale che riguarda non solo le modalità con le quali questo possa essere pensato e rappresentato, ma anche, penetrando a fondo il problema nei suoi fondamenti epistemologici, porta ad interrogarsi sulla validità del concetto di rappresentazione, inteso in termini moderni.
Per la mentalità moderna occidentale, sulla quale hanno agito, ed ancora agiscono, fondamenti teologici e logici propri della sfera monoteista e cristiana, il come sia possibile pensare l'incommensurabile, l'invisibile, l'immortale, nei limiti del corpo, per natura imperfetto e deperibile, si presenta come una questione centrale, presente già in antico nelle discussioni filosofiche dei presocratici e poi di Platone. Allo stesso modo, classico appare il problema della rappresentazione antropomorfica del divino, che è stata spesso affrontata più sul versante della storia dell'arte e più recentemente dell'antropologia dell'immagine piuttosto che in prospettiva storico-religiosa284. La
convenzionalità della realizzazione delle fattezze divine era ampiamente riconosciuta, come emerge
280 Ad esempio D. H. Garrison(ed.), A Cultural History of the Human Body in Antiquity, Londres-New Delhi-New York-Sydney, 2014.
281 Cfr. F. Prost, L’odeur des dieux en Grèce ancienne, cit. 282 Il 1 aprile.Ov. Fast. 4.133-139
283 La lavatio avveniva il 27 marzo cfr. Arnob. 7.32: Amm. 23.3.7.
284 Cfr. S. Estienne, F. Lissarrague, Le corps des dieux dans le monde grec et romain: bilan historiographique in «Dialogue d'histoire ancienne» Suppl. 14, 2015, pp. 19-29, che riporta la bibliografia recente sul tema.
nel dialogo ciceroniano De natura deorum, il cui pontefice Cotta sottolinea come la rappresentazione degli dei sia dettata esclusivamente dai tratti forniti e trasmessi da pittori e scultori, e immediatamente riconoscibili per ogni romano; proprio in virtù della loro convenzionalità tali tratti variano da una cultura all'altra:
Nobis fortasse sic occurrit, ut dicis; a parvis enim Iovem, Iunonem, Minervam, Neptunum, Vulcanum, Apollinem, reliquos deos ea facie novimus, qua pictores fictoresque voluerunt, neque solum facie, sed etiam ornatu, aetate, vestitu. At non Aegyptii nec Syri nec fere cuncta barbaria; firmiores enim videas apud eos opiniones esse de bestiis quibusdam quam apud nos de sanctissimis templis et simulacris deorum.285
Ciononostante luogo comune dell'accusa di idolatria proveniente dalla critica filosofica e poi cristiana è proprio il culto delle statue, la cui pregiata manifattura, con l'uso di materiali preziosi avrebbe secondo le fonti cristiane ottenebrato le menti semplici del volgo286.
Come sottolinea Clifford Ando le domande che siamo portati a porci di fronte al problema dell'immagine di culto e della relazione tra questa e la divinità ad essa associata sono viziate da un'impostazione mentale in parte inconsapevole, dovuta essenzialmente alla ricezione cristiana di Platone, che dà priorità a forme di ideazione pseudo-razionalizzanti. I problemi dell'esegesi moderna – se gli antichi pensavano che le immagini cultuali davvero contenessero almeno parte dell'essenza divina, o se i riti compiuti di fronte a una specifica immagine fossero più significativi o efficaci rispetto ad altri, o ancora se fosse necessario che immagine e dio si assomigliassero, o quale fosse il codice di iconicità corretto – perdono parte del loro significato nel confronto con una mentalità per la quale riferimenti e rappresentazioni che possono apparire antagonisti si possono considerare quali materializzazioni sulle quali si fonda un’ontologia divina comune e coerente, che ha nella materialità, più che nell'astrazione, il suo fondamento287.
Inoltre se si guarda al rituale come a un processo comunicativo il quadro concettuale condiviso dai partecipanti al rito poteva anche non coincidere con il quadro epistemologico delle rappresentazioni
285 Cic. De nat deor. 1.81. A noi forse capita quello che dici: da quando siamo piccoli abbiamo conosciuto Giunone, Minerva, Nettuno, Vulcano, Apollo e gli altri dei con l'aspetto che i pittori e gli scultori vollero, e non solo i tratti, ma anche gli ornamenti, l'età, gli abiti. Ma questo non vale né per gli Egiziani né i Siriani né per gli altri popoli barbari. Presso di loro potresti trovare delle credenze più salde per certi animali di quelle che noi abbiamo per i sacri tempi o per le immagini degli dei.
286 Min. Fel. Oct. 24.5
287 Cfr. U. Fabietti, Materia sacra; corpi, oggetti, feticci, immagini nella pratica religiosa, Milano, 2015. Cfr. anche C. Ando, The Matter of Gods, cit., cap. 2 Idols and Their Critics, pp. 21-41.
dell'azione rituale; in altre parole la partecipazione al rito e la sua efficacia esulano dalla consapevolezza razionale circa la sostanza di ciò che viene venerato288.
Se disponiamo di alcune informazioni riguardanti la cura e la manutenzione delle statue, e alcuni riferimenti ad una ritualità che le interessasse direttamente è vero che molte delle fonti scritte non pongono l'accento sulle immagini di culto nel descrivere lo svolgimento di rituali o nel prescrivere