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In modo analogo a quanto si è detto sul concetto di spazio, nel parlare di 'rituale' ci troviamo di fronte ad una categoria moderna. Le sue origini sono da ricercare nelle scienze sociali, in modo particolare nella storia delle religioni e nell'antropologia religiosa, sebbene anche gli archeologi, per quanto riguarda l’applicazione alle culture antiche, abbiano portato contributi fondamentali per la messa a punto.

Le prospettive aperte sul rituale da tali discipline sono ovviamente molteplici. Una discrepanza di visioni, talora sfumata, talora accesa, emerge già dalla definizione di ‘rito’ e di ‘rituale’, sulla quale ancora oggi non vi è accordo generalizzato tra gli studiosi. Nella letteratura scientifica numerosissime teorie si sono succedute fino ad oggi, tanto che una loro trattazione anche sommaria costituirebbe una parentesi troppo ampia da aprire in questa sede.

Le criticità che l'uso del termine 'rituale' pone sono diverse, a partire dall'associazione quasi automatica della sfera rituale al concetto di religione, quando la ritualità può aver luogo anche in

contesti non propriamente religiosi. Certa è la derivazione del termine dal latino ritus, che definisce nell’antica Roma atti e pratiche religiose, ma anche abitudini e comportamenti, e che è termine connesso con il sanscrito rtà- concetto fondamentale della religione vedica, che indica l'ordine che plasma il cosmo sia la società sia l'individuo, e a cui questi devono conformarsi – e con il greco

arithmos157.

Considerato dal padre della sociologia Durkheim come un mezzo di trasmissione di un sapere collettivo, il rito viene definito da aspetti diversi, finanche contraddittori, tra i quali non è semplice definire il tratto distintivo specifico. Attribuire un rilievo particolare a uno tra gli aspetti molteplici, spesso non linguistici, rappresenta infatti una scelta precisa, tanto che nella storia degli studi di volta in volta sono stati prediletti alcuni aspetti - i rapporti di potere, la dimensione sociale, il contenuto religioso, o ancora l'aspetto simbolico - a seconda delle prospettive teoriche o ideologiche di chi li ha proposti. A partire dall’approccio durkheimiano, che vede nel rituale un modo di creare solidarietà sociale158, gli antropologi, che si trovano sovente citati per supportare differenti

interpretazioni delle fonti antiche, si sono divisi sull’interpretazione e sul senso del rito. Se la corrente antropologica ‘maggioritaria’ ha cercato a lungo di interpretare il significato dei riti indicando i sistemi culturali di tipo discorsivo sottesi ai simboli evocati159, successive ricerche sul

campo hanno mostrato come specifici rituali possano avere luogo senza che sussista alcun interesse per i significati, e che talvolta gli informatori si rifiutino di indicarne un senso, avanzando come unica autorità la tradizione, ovvero la ripetizione di schemi gestuali appresi160. Una definizione di

sintesi può essere quella che qualifica come rituali attività che nel loro svolgimento sono portatrici di una intenzione 'speciale' (non ordinaria), e che sono specifiche di un particolare gruppo di persone161.

È possibile dunque da un punto di vista moderno riferirsi a rituale quale categoria analitica utile all'osservatore esterno162 per isolare e analizzare una serie di comportamenti interpretandola come

sequenza coerente e significativa. Le pratiche rituali possono inoltre essere considerate come 'codici ristretti' di attività corporee, in cui le innovazioni sono ridotte al minimo, le pose e i gesti si

157 Cfr. LSJ s.v. arithmos

158 E. Durkheim, Les formes elementaires de la vie religieuse, Paris 1912.

159 A partire da V. Turner, Il processo rituale. Struttura e anti-struttura, Brescia 1972, e Id. Dramas, Fields, and

Metaphors, cit.,; Humphrey e Laidlaw vedono invece l'azione ritualizzata come uno spazio semiotico vuoto nel

quale sono proiettati dei significati, che possono essere differenti per partecipanti differenti C. Humphrey, J. Laidlaw, The Archetypal actions of Ritual: A Theory of Ritual Illustrated by the Jain Rite of Worship, Oxford 1994, pp. 31-37.

160 Ad ex. G. Lewis, Day of Shining red:an essay on understanding ritual, Cambridge 1980; nega il significato del rito anche F. Staal, Rules without Meaning: Ritual, Mantras, and the Human Sciences, New York 1989.

161 Ritual is an etic category that refers to set activities with a special (not-normal) intention in action, and which are

specific to a group of people. Cfr. E. Kyriakidis, Finding Ritual: Calibrating the Evidence, in E. Kyriakidis (ed.), The Archaeology of Ritual. Third Cotsen Advanced Seminar, Los Angeles 2007, p. 294.

162 La ricerca antropologica sul campo ha mostrato che attività che un osservatore esterno è propenso a definire rituali possono non essere considerate tali da coloro che vi sono direttamente coinvolti (performers).

conformano a un repertorio limitato, le persone svolgono ruoli predeterminati e stabiliti dalla tradizione e nei quali la loro individualità è scarsamente rilevante163.

Poiché nel rito vengono attraversati gli aspetti materiali e simbolici di una cultura, nella loro intima connessione, l'aspetto performativo è cruciale164. È stata Catherine Bell a contribuire in modo

determinante al dibattito sulla performance e sul rituale, producendo una posizione di sintesi tra analisi del rituale e concettualizzazione del processo sociale. Secondo la studiosa la caratteristica principale della ritualizzazione è l'assenza di discorso o narrazione; l'aspetto primario del dispositivo rituale risiede nell'azione e nel corpo, tanto che il suo scopo ultimo può essere visto come quello della creazione di un corpo ritualizzato, che risponda ad un imperativo ad agire, e ad agire in modo che l'azione attribuisca all'atto uno status privilegiato165.

La performance si configura come un processo fondato su momenti di transizione spaziale e temporale, con ripetizioni e variazioni, in cui soglie e barriere connesse anche alla spazialità e alla corporeità, umana e divina, vengono evocate e attivate da forme, suoni, gesti specifici. Rientrano in questa categoria i movimenti e le espressioni cinetiche strutturate temporalmente, come processioni, danze, genuflessioni, e gesti sovente ritmici166.

È necessario tenere a mente inoltre che la partecipazione al rito passa anche tramite l'osservazione, e quindi tramite il ruolo del pubblico; in questa prospettiva i rituali possono essere intesi come mezzi di comunicazione, che attraverso le differenti forme di partecipazione, anche visuale, mettevano in luce diversi gradi gerarchici, identitari, di appartenenza. In questo senso la sfera visiva, quella sonora e quella gestuale sono coinvolte in un duplice movimento, transitando dal piano dell’espressione e della pratica a quello dei concetti, e viceversa.

In una direzione analoga a quella di Bell si muove la riflessione di Jonathan Z. Smith, per il quale: Ritual is a relationship of difference between “nows” - the now of everyday life and the now of ritual place; the simultaneity, but not the coexistence, of “here” and “there”. Here (in the world) blood is a major source of impurity; there (in ritual space) blood removes impurity. Here (in the world) water is the central agent by which impurity is

163 S. Buckland, Rituali, corpi e memoria culturale, in« Concilium» 31, 1995, pp. 87-97.

164 Cfr. anche N. Bourque, An Anthropologist’s view on Ritual, in E. Bispham, C. Smith, Religion in Archaic and

Republican Rome and Italy, Evidence and Experience, Edinburgh 2000, pp. 40-41.

165 C. Bell, Ritual Theory, Ritual Practice, cit.

166 Walter Burkert insiste sulla ripetizione e la strutturazione del gesto come strumento di comunicazione non verbale, situato in un determinato contesto sociale: W.Burkert, Ritual between Ethnology and Post-Modern Aspects:

Philological-Historical Notes, in E. Stavrianopoulou (ed.), Ritual and Communication in the Graeco-Roman World Liège 2006, pp. 23-35; in modo parzialmente analogo Roy Rappaport sottolinea il ruolo cruciale della performance

quale sequenza di atti e di enunciati formali più o meno invarianti e non interamente codificati da chi li esegue, R.A. Rappaport, Ritual and Religion in the Making of Humanity, Cambridge 1999.

transmitted; there (in ritual) washing with water carries away impurity. Neither the blood nor the water has changed, what has changed is their location167.

In questa prospettiva, in cui ritornano elementi cruciali quali il sangue e l’acqua, centrali nella definizione della purezza rituale, sono la categorizzazione e la collocazione di diversi elementi, a qualificare l'azione che li coinvolge come rituale, e non l'azione stessa.

Dunque, nel contesto degli spazi adibiti all'esecuzione del rito, o definiti anche provvisoriamente dall'azione rituale, diventano fondamentali le azioni performative, come i movimenti e le espressioni cinetiche strutturate temporalmente. Analizzare la funzione dei siti di culto in un contesto rituale più ampio richiede dunque una definizione che non si focalizzi solo sullo statuto giuridico e sulle sue implicazioni ma anche sulle attività che avevano all'interno dei santuari; sovente il rituale comprende azioni suscettibili di ampliare lo spazio rituale, come le processioni, che oltre ad essere visibili dall’esterno consentono di acquisire temporaneamente dello spazio all’esterno del focus spaziale principale, luogo di culto o santuario168. Non secondario inoltre è il

ruolo del pubblico, la sua composizione, la sua divisione in gruppi coinvolti in modo diverso nelle attività con la partecipazione attiva, l’osservazione da lontano, anche solo transitando nei pressi del luogo di culto o del santuario.

Cosa accade alla categoria di rituale, calata nel mondo nell’antichità? È evidente che quando l'oggetto della ricerca antropologica è il passato, in una delle sue molteplici declinazioni, non è possibile avere accesso diretto alla pratiche rituali che potrebbero essere osservate in una società contemporanea. L'impressione è che, nel settarismo che è stato a lungo tipico delle discipline accademiche, sovente gli archeologi abbiano classificato come 'rituale' qualsiasi contesto che non era direttamente riconducibile ad un'attività pratica o economica, in particolar modo per quanto riguarda i periodi pre-storici o proto-storici169.

Come abbiamo visto, a costituire una risorsa essenziale per lo studio e la comprensione della realtà rituale o più in generale religiosa sono infatti espressioni performative e corporee che dal punto di vista archeologico lasciano, nel migliore dei casi, rare e deboli tracce, per lo più iconografiche. D'altronde appare per molti versi comprensibile come spesso la ricerca archeologica si astenga dal

167 J.Z. Smith, To take place, cit, p. 110.

168 Nelle processioni lo spazio aveva evidentemente un ruolo centrale, in quanto si delimitavano simbolicamente i confini territoriali di una polis cfr. F. de Polignac, La naissance de la cité grecque, cit. nella caratterizzazione di queste manifestazioni, secondo la terminologia di F. Graf, come centrifughe o centripete, sulla base di elementi come lo spazio attraversato, i partecipanti e gli scopi cfr. F. Graf, Pompai in Greece: Some considerations about

Space and Ritual in the Greek polis, in The Role of Religion in the Early Greeek Polis, cit., pp. 55-65.

169 Un esempio concreto è l’interpretazione femminista dei sepolcri/santuari di Çatalhöyük, J. Mellart Çatal Hüyük: A

Neolithic Town in Anatolia. London 1967; contra I.Hodder, Women and Men at Çatalhöyük in «Scientific

American Magazine» 290, n.1, 2004, pp. 67- 73; cfr. anche E. Kyriakidis, Ritual in the Aegean; The Minoan Peak

tentare qualsiasi riferimento alla sfera rituale, in quanto senza dubbio alti sono i rischi di sovrinterpretazione e dell'eccesso di ricostruzione170.

Tuttavia la prospettiva legata all’azione, alla performance e alla materialità è stata valorizzata recentemente in diversi modi. Da un punto di vista teorico infatti con sempre maggiore frequenza storici e antropologi invitano a pensare alla religione come a un sistema di pratiche materiali e sensoriali piuttosto che a un sistema di credenze171; ciò è valido in misura maggiore per quanto

riguarda il formalismo romano, esito di una religione definita “ritualista”, che sprovvista di dogmi come di un solido apparato mitologico si reggeva sulla corretta esecuzione dei riti, ovvero sull’ortoprassia172.

Inoltre, le azioni performative in ambito anche rituale sono state valorizzate quali possibili e sensibili oggetti di ricerca dalle recenti tendenze della sensory archaeology, che ambisce a mettere in luce i modelli sensoriali prodotti dalle culture, con i significati e i valori ad essi implicati173.

Gli archeologi afferenti a questo prospettiva esprimono l'intenzione di studiare i rituali come costrutti socio-culturali complessi, in tensione costante tra norma e performance, o tra stereotipo e variabilità, un processo, che si costituisce tramite le modificazioni e i cambiamenti comportati dall'agency umana, e che si riflette viceversa nel suo contrario, nel momento in cui il rito modifica in qualche modo coloro che vi prendono parte174.

Adottando questo punto di vista le categorie di religion e di ritual non costituiscono strumenti pienamente sufficienti per capire o interpretare le esperienze umane e culturali.

Il corpo umano e quello che Y. Hamilakis chiama trans-corporeal somatic landscape diventano allora dei punti di riferimento essenziali per comprendere aspetti negletti quali la realtà esperienziale, e quindi anche corporea, del passato; prestando una nuova e diversa attenzione alle tracce materiali, il quadro interpretativo si apre a un'ottica che abbia come fulcro il senso privilegiato della nostra cultura, quello della vista, ma che valorizzi anche gli altri sensi175.

170 Il complesso neolitico di Stonehenge, da questo punto di vista, ha avuto un ruolo emblematico nell'alimentare le più fervide suggestioni per quanto riguarda comportamenti e significati rituali di cui il luogo poteva essere stato teatro, cfr. ad esempio A. Burl, The Stonehenge People, London 1987, pp. 213-214.

171 Ph. Mellor, Chr. Schilling, Re-forming the Body. Religion, Community and Modernity, London 1997; J.Z. Smith, To

take Place, cit., V. Anttonen, Rethinking the Sacred, cit.

172 J. Scheid, Quand faire, c’est croire. Les rites sacrificiels des Romains, Paris 2005, pp. 7-12; C. Bonnet, “L’histoire

séculière et profane des religions”(F. Cumont): observations sur l’articulation entrerite et croyance dans l’historiographie des religions de la fin du XIXe et de la première moitié du XXe siècle, in N. Belayche, C. Bonnet,

J. Scheid (eds.), Rites et croyances dans les religions du monde romain, huit exposés suivis de discussions.

(Vandoeuvres-Genève, 21-25 août 2006), Genève 2007.

173 Cfr. J. Day (ed.) Making Senses of the Past: towards a sensory archaeology, Carbondale 2013; M.T. Lucas, J.M. Schablitsky, Archaeology of the war 1812, Walnut Creek 2014.

174 A. Chaniotis, Introduction in A. Chaniotis (ed.) Ritual Dynamics in Ancient Mediterranean: agency, emotion,

gender, representation, Stuttgart 2011.

È vero infatti che se la tradizione occidentale, in cui si sono poste le basi anche della moderna ricerca scientifica, ha il suo centro di valore nel senso della vista, il primato dell’orizzonte visivo fa spesso dimenticare che la natura della realtà è multisensoriale. Dunque anche gli strumenti per la sua conoscenza e decodificazione, e quindi il processo della disciplina archeologica, necessitano di una ridefinizione che apra, per quanto possibile, anche agli altri sensi.

Ciò significa che quello che viene generalmente analizzato in termini visivi in ambito rituale deve essere considerato anche dal punto di vista tridimensionale, e quindi spaziale e tattile. Le statue e le immagini cultuali non costituiscono solo un riferimento visivo, ma implicano, almeno in alcune occasioni, anche il tatto e l'olfatto. Esse venivano infatti abitualmente toccate, unte di olio e profumate dagli operatori rituali, che si occupavano direttamente della manutenzione delle immagini; e in occasioni specifiche probabilmente un accesso ravvicinato alle statue di culto era consentito anche ai fedeli.

Le fonti ci informano della presenza nei contesti culturali di fiori, ghirlande, e dell’esistenza di apparati decorativi transitori o deperibili di diverso tipo, applicati alle statue come anche alle stele176, che arricchivano l'esperienza sensoriale in alcuni specifici contesti.

La dimensione olfattiva, in particolar modo, nettamente percepibile pur sfuggendo all’orizzonte visivo e a quello tattile, doveva acquisire un valore peculiare, derivato dalla capacità di connettere sfera materiale e immateriale177.

Nel rituale sacrificale antico odori peculiari quali quello della carne, del grasso, dell'incenso o delle offerte vegetali bruciate, potevano costituire un ponte tra mondo umano e mondo divino, che tramite fumi e fumigazioni, abbracciava anche la sfera visuale. È noto d’altro canto che nel mito e nella pratica rituale il mondo divino è sovente connotato da odori o profumi propri, emanati dagli stessi dei, che in Grecia assumono quell’aroma di immortalità proprio dell'alimento di cui si nutrono178, o creati dall'uso rituale, circoscrivendo uno spazio specifico.

Le modalità sensoriali, per quanto universalmente importanti, sono culturalmente determinate; se l'uso dei sensi e le percezioni sono comuni, diverso è il modo in cui questi sono elaborati

culturalmente; difficile è dunque non solo ricostruire l'esperienza sensoriale degli antichi, ma soprattutto comprendere come questa venisse codificata.

176 Si veda a questo proposito S. Estienne, Parer les dieux à Rome: ornatio, ornamenta et ornatus deorum, in V. Huet, F. Gherchanoc, De la théatralité du corps aux corps des dieux dans l’Antiquité, Brest 2014; M. Sebai, Orner les

dieux en Afrique romaine. Dédicants ou Divinités? Gestes de pietas sur quelques stèles d’Afrique romaine in De la théatralité du corps aux corps des dieux dans l’Antiquité, cit., pp. 165-176.

177 Fonti letterarie relative alla dimensione olfattiva a Roma R. Jenkins, God, Space cit. pp. 39-43.

178 Ad es. in Eurip. Ippol. Verg. Aen 1.415-17. Sulla sfera olfattiva nel suo rapporto con la divinità e la regalità cfr. C. Grottanelli Da Myrrha alla mirra: Adonis e il profumo dei re siriani, in Adonis. Relazioni del Colloquio di Roma

(22-23 Maggio 1981), Roma 1983, pp. 35-60; Id. Kingship and Perfumes: Antiochus IV and Alexander the Great, in

È dunque lecito pensare che nella sfera rituale eventi sensoriali specifici e codificati, fossero coinvolti nella definizione di una dimensione specifica e differente dalla temporalità quotidiana, creando un forte effetto mnemonico sul corpo, vissuto non solo e non tanto individualmente, ma come corpo sociale e collettivo.

Nel tentativo di comprendere i concetti utili all'analisi delle pratiche spaziali in contesto religioso si è potuto capire come, enfatizzando non tanto o non solo la 'sacralità' di un luogo ma piuttosto la strategia di azione ritualizzata attraverso la quale alcune distinzioni nello spazio sono create e privilegiate, il punto di vista del rituale consente innanzitutto, a livello teorico, un'interpretazione dinamica dello spazio, attraverso l'azione e il movimento; i movimenti incorporati nella

performance rituale la cui intensità è aumentata, possono costituire un punto di riferimento nel

tempo e nello spazio179. A questo proposito importante leggere e studiare ogni indice informativo, a

partire dalle immagini o dai rilievi sulla pietra e sulle stele, in cui sono rappresentati gesti che possono essere veri e propri indici per capire situazioni, gesti e significati180.

In tale prospettiva si possono osservare perciò i modi in cui l'azione qualifica una determinata attività come rituale, evitando di supporre o di creare una rigida e permanente distinzione tra “sacro” e “profano”181. In secondo luogo tale approccio permette di osservare nel loro contesto le

relazioni che sussistono tra i riti e lo spazio, così come l'identificazione e la circoscrizione di determinati spazi su diversi piani, quello lessicale, architettonico, o iconografico, proponendo delle ipotesi sui valori che lo spazio assume di volta in volta nei diversi contesti.

Rinunciando dunque programmaticamente all'idea di poter ricostruire un quadro astratto che definisca in modo univoco un complesso di azioni, rappresentazioni, idee attraverso le quali le società antiche elaboravano a livello spaziale il rapporto tra divino e umano, si tenteranno di indagare le ragioni per le quali alcuni luoghi assumono carattere religioso in risposta ad esigenze diverse, per osservare sul piano lessicale, architettonico o iconografico l'identificazione e la circoscrizione di determinati spazi a scopo rituale.

Si possono dunque percorrere alcune vie, nella consapevolezza del carattere ipotetico e sperimentale delle eventuali ricostruzioni, rispondendo agli inviti sempre più frequenti e urgenti a decostruire una categoria di “spazio sacro” intesa come struttura simbolica rigida e priva di sfumature182.

179 J. Connelly, Ritual Movement through Greek Sacred Space, in Ritual Dynamics in the Ancient Mediterranean, cit., p. 324.

180 Cfr. V. Huet, Watching Rituals, in R. Raja, J. Rüpke (eds.) A Companion to the Archaeology of religion in ancient

World, Malden-Oxford, 2015 pp.144-152.

181 C. Bell, Ritual Theory, Ritual Practice, cit.

Parte seconda: Lo spazio rituale nel Mediterraneo