il caso Agenzia delle Entrate
4.8 Le resistenze al cambiamento e la cultura organizzativa delle Entrate
Un vero cambiamento non si ottiene solo con le norme. Nessuno cambia “per convenzione”, ma almeno quando percepisce nel cambiamento una possibilità di miglioramento, un beneficio che compensi il costo che esso comporta, la perdita di qualcosa.
Le resistenze al cambiamento devono essere considerate fisiologiche e connaturate al tipo di sistema in cui si verificano.
Gestire il cambiamento consiste, innanzitutto, nel partire da una conoscenza delle cause sistemiche (ancor più che individuali) di tali resistenze, da una ricostruzione delle razionalità ad esse sottese, anziché dal giudizio.
Imputare un insuccesso del cambiamento - nonostante un progetto razionale e ben pianificato - alle resistenze e all’inerzia del sistema, vuol dire avere una concezione tecnocratica e astratta del cambiamento.
Vuol dire perdere di vista un dettaglio fondamentale, quello che non esiste nessun processo di apprendimento che possa essere realizzato dall’esterno, a priori - o addirittura a prescindere - dal sistema che deve attuarlo.
In altri termini, quando delle strategie di cambiamento - apparentemente razionali e innovative - falliscono, è prassi assai comune, nelle organizzazioni, darne colpa al sistema, il quale non avrebbe saputo recepire e attuare quella strategia; è opportuno, invece, rivedere principalmente proprio la strategia che, probabilmente, non è stata formulata in modo da favorire l’attivazione di un processo di apprendimento da parte di quel sistema.
In Agenzia, i fenomeni di resistenza al cambiamento sono stati, nel complesso, pochi e circoscritti, a volte critici ma tutto sommato gestibili grazie ad una comunicazione mirata e alla definizione di metodologie in grado di produrre un impatto accettabile e sopportabile sulle persone coinvolte, mantenendo alta la motivazione e garantendo l’accettazione del cambiamento e la continuità del servizio ai contribuenti e alla collettività. La letteratura presente sul fenomeno evidenzia come le persone tendano, in
primis, ad ipotizzare possibili conseguenze al cambiamento, ricercando
analogie con esperienze simili, vissute in prima persona o riportate74.
Uno dei fattori che ha reso possibile l’accettazione del cambiamento e la circoscrizione delle resistenze in casi limitati ed isolati è stata la capacità di gestione delle risorse umane, da parte dei dirigenti, durante il processo di mutamento.
Le reazioni del personale hanno assunto connotati e caratteristiche differenti nelle diverse fasi in cui si sono manifestate durante l’operazione di cambiamento.
Prima dell’annuncio si sono verificati classici fenomeni riconducibili a voci di corridoio che hanno, in parte, contribuito a generare preoccupazioni. Il fenomeno e le sue conseguenze sono stati comunque limitati dal fatto che i dipendenti avevano coscienza che, in seguito alla creazione dell’Agenzia, sarebbero cambiati status e modi di lavoro. Questo ha evitato che le voci di corridoio sostituissero le informazioni ufficiali, creando tensioni e preoccupazioni generalizzate e amplificate.
A seguito del decreto legislativo e dei processi di cambiamento, le reazioni si sono manifestate, a livello collettivo, in comunicati diffusi dalle rappresentanze sindacali sui propri organi di stampa. Le maggiori preoccupazioni per il cambiamento riflettevano, prevalentemente, i timori del personale.
Durante il processo di mutamento vero e proprio le persone hanno mostrato un rapido adattamento al nuovo contesto, non mostrando comportamenti, individuali o collettivi, frenanti.
È interessante rilevare come le reazioni e le resistenze dei dipendenti siano state differenti a seconda della sede alla quale appartenevano.
Nella sede centrale di Roma, ad esempio, il contatto con i vertici ha favorito lo scambio di informazioni, riducendo drasticamente possibili
74
D. Boldizzoni, R.C.D. Nacamulli, C. Turati, Integrazione e conflitto, relazioni sindacali, flessibilità e
timori mentre problemi maggiori sono stati riscontrati nelle sedi meridionali che, infatti, sono state le ultime a partire anche per gli uffici unici.
Le tre indagini effettuate hanno mostrato, nei fatti, un cambiamento profondo di natura culturale75 in quanto si è passati dalla cultura del ruolo ad una dell’obiettivo, da una cultura ministeriale - burocratica, basata sull’adempimento, ad una più vicina a quella aziendale, fondata maggiormente sull’obiettivo da conseguire, sui compiti assegnati e sui risultati da raggiungere.
Seguendo Cartwright e Cooper (1993)76 possiamo affermare che la cultura organizzativa iniziale del Dipartimento delle Entrate può essere definita come una “role culture”, mentre quella che man mano si è sedimentata in Agenzia in dieci anni (2001-2010), può essere definita una “task culture”. I tratti distintivi di una cultura “role”, vicina al modello burocratico, sono riscontrabili nei seguenti aspetti:
• le relazioni irrilevanti fra unità di lavoro e funzioni organizzative;
• l’autorità formale alla base della responsabilità per le decisioni aziendali;
• uno stile manageriale impersonale e distante.
La cultura del ruolo è tipica di organizzazioni in cui le unità organizzative di lavoro sono altamente specializzate e l’attenzione è posta più sulle funzioni che sulle persone. Esistono molte regole che limitano gli ambiti di lavoro e la gerarchia è estremamente formalizzata.
75 D. Bodega, op. cit, 1996.
76 Sulla base di dati empirici raccolti in numerose organizzazioni coinvolte in operazioni di ristrutturazione, acquisizione e fusione, Cartwright e Cooper hanno studiato la relazione tra la combinazione di culture organizzative e il risultato dell’operazione.
I due autori hanno elencato quattro tipi di cultura, i cui tratti prevalenti sono riscontrabili nelle diverse organizzazioni:
• Power culture: questo tipo di cultura organizzativa è caratterizzata da una evidente
centralizzazione del potere, tipica spesso di strutture di dimensioni più ridotte e con un leader carismatico. Le decisioni sono prese solo dal management e sono spesso basate sull’intuito. Può essere di tipo patriarcale quando il potere è legittimato dai dipendenti che sono trattati dal
management in modo protettivo e paternalistico oppure di tipo autocratico, quando il potere non
è legittimato dal basso e il commitment dei dipendenti è limitato.
• Role culture: è tipica di organizzazioni in cui le unità di lavoro sono altamente specializzate e
l’attenzione è posta più sulle funzioni che sulle persone. Esistono molte regole che limitano gli ambiti di lavoro e la gerarchia è estremamente formalizzata.
• Task culture: l’enfasi è principalmente posta sui compiti, la cui natura determina come lavorare.
I dipendenti hanno la responsabilità del proprio lavoro e, sulla base dei risultati personali, vengono premiati o penalizzati.
• Person culture: l’organizzazione è egualitaria e la struttura è minima. La crescita e lo sviluppo
degli individui è il fattore più importante. Le decisioni sono prese collettivamente e tutte le informazioni sono condivise. È tipica di organizzazioni no-profit.
Nonostante Cartwright e Cooper non identifichino una cultura migliore di altre per il successo organizzativo, affermano che le differenti culture creano diverse conseguenze psicologiche per i dipendenti. L’adattamento al caso di studio è una nostra elaborazione.
Cfr. S. Cartwright, C.L. Cooper, “The role of cultural compatibility in successful organizational
marriage”, Academy of Management Executive, Vol. 7, 1993; S. Cartwright, C.L. Cooper, HR Know- how in mergers and acquisitions, Institute of personnel and development, London, 1993.
I tratti tipici di una cultura “task”, più vicina ai nuovi modelli di gestione manageriale delle risorse umane, sono principalmente:
• l’enfasi sul raggiungimento degli obiettivi dei compiti individuali;
• l’importanza, per un nuovo membro dell’organizzazione, dell’iniziativa personale per portare a termine i compiti;
• lo stile manageriale democratico e aperto.
La cultura del compito è maggiormente tarata sugli obiettivi, la cui natura determina come lavorare. I dipendenti hanno la responsabilità del proprio lavoro e, sulla base dei risultati personali, vengono premiati o penalizzati. In base alla teoria di Cartwright e Cooper (1993), nonostante il possibile
shock culturale derivante dalle caratteristiche della nuova organizzazione,
soprattutto per coloro più vicini ad una cultura con caratteristiche tipiche della “role culture”, un iniziale impatto negativo è riscontrabile nei fenomeni di resistenza, particolarmente nella prima fase del cambiamento77.
La prevalenza di una cultura per obiettivi è, oggi, evidente in Agenzia78. Dalle risposte date dai dipendenti alle varie rilevazioni è possibile definire l’Agenzia delle Entrate un’organizzazione “task culture”, ossia un ente che ha sviluppato un patrimonio di conoscenze che pone il focus sulla responsabilità degli individui sul proprio lavoro.
Ciò è particolarmente evidente dalle considerazioni dei dipendenti - che emergono dalle indagini fatte nel 2003 e nel 2007 - su:
• senso di appartenenza, lealtà, coinvolgimento e integrazione;
• sicurezza e partecipazione;
• adeguata espressione delle proprie capacità;
• importanza del proprio ruolo e del valore della professionalità posseduta;
• forte senso di responsabilità e valore riconosciuto al proprio lavoro;
• consapevolezza degli obiettivi e dei risultati della propria attività;
• orgoglio di vivere la condizione lavorativa di pubblico dipendente presso l’Agenzia delle Entrate;
• distinzione tra autonomia operativa e autonomia decisionale;
• fattori strategici per lo svolgimento del lavoro: competenze, capacità professionali, responsabilità;
• insofferenza verso le deroghe ad una rigida definizione dei compiti;
• ampia e diffusa responsabilità operativa;
• buone opportunità di formazione e innovativi strumenti di lavoro. La trasformazione culturale è stata graduale ed a cascata: dai dirigenti ai responsabili, ai collaboratori e così via e, probabilmente, è ancora in atto.
77 S. Cartwright, C.L. Cooper, op. cit., 1993.
78 Lo stesso direttore dell’Agenzia delle Entrate, nel suo messaggio di augurio per le festività 2010 - 2011, nel riconoscere i meriti del personale per i risultati raggiunti, parla di “un cambiamento culturale, che non ha molti precedenti in Italia”.
In funzione dei mutamenti descritti e delle forme di apprendimento messe in campo possiamo ricondurre il mutamento presso l’Agenzia, utilizzando le categorie del I capitolo, ad un cambiamento tramite “incrementalismo culturale” che comporta lo sviluppo di nuovi valori e assunti fondamentali attraverso un processo di apprendimento concettuale che interessa strategie e procedure di implementazione79.
Concluso il “processo di cambiamento macro” l’Agenzia, negli anni, ha dato vita a vari “assestamenti organizzativi micro”, l’ultimo dei quali, nel 2009-2010, è rappresentato dall’istituzione delle Direzioni Provinciali, una “evoluzione organizzativa” che, come abbiamo descritto precedentemente, ha “provincializzato” l’attività di controllo - prima frammentata nei vari uffici locali - e ha istituito il ruolo del Direttore Provinciale, una figura dirigenziale responsabile delle attività dell’Agenzia per tutta la Provincia e omologa del Prefetto, del Questore, dei Comandanti provinciali delle forze armate (Guardia di finanza, Carabinieri), dei responsabili provinciali di Inps, Inail, Equitalia, delle Direzioni del Ministero del lavoro, ecc., tutti interlocutori istituzionali dell’Agenzia delle Entrate.
Anche sulle riorganizzazioni successive ci sono state varie resistenze, ovviamente di impatto e misura estremamente inferiori, per il timore di eventuali demansionamenti, spostamenti di sede e disagi nelle procedure ma, tutto sommato, anche quest’ultima evoluzione organizzativa è stata ben metabolizzata dal personale dell’Agenzia.