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E LA FINE DELLA GUERRA

8. La seconda pace La sconfitta navale di dicembre segnò la fine delle

speranze di Pisa e di Cagliari di tornare all'antico regime: ciò dovette essere percepito anche nella città toscana se il poeta Granchi in quell'episodio indicava il termine del suo lungo dominio nell'isola626. All'indomani dell'attacco di gennaio alle appendici di Cagliari, in Sardegna ancora circolavano notizie di un nuovo impegno pisano a formare una flotta e a reclutare uomini, la cui realizzazione però non sarebbe stata imminente627. Nei fatti, Pisa era sempre più isolata, minacciata anche in Toscana, a seguito della vittoria di Castruccio Castaracani ad Altopascio e della consegna di Firenze al duca di Calabria tra dicembre 1325 e gennaio 1326628. Alcuni osservatori, insistendo sulla debolezza di Pisa, ritenevano che il timore dei nemici toscani, vecchi e nuovi, l'avrebbe indotta più facilmente alla pace, alle condizioni del re aragonese, o comunque avrebbero reso possibile la definitiva conquista dell'isola da parte di quest'ultimo. Sembra che a Pisa si prendesse ancora in esame l'antica ipotesi di concedere la propria signoria a Giacomo II, del tutto impraticabile, vista la contrarietà del sovrano aragonese629. Nonostante qualche tentativo, senza esito, di ottenere aiuti

626 ) GRANCHI, De proeliis, cit., l. IV, vv. 1640-141: calcolava quel dominio in trecento anni.

627 ) A queste notizie faceva riferimento Ramon de Peralta in un'aggiunta ad una lettera all'infante, in cui diceva di

aver saputo a un messaggero del giudice d'Arborea e dei marchesi di Malapina che i pisani e i genovesi ghibellini e guelfi e i savonesi stavano armando 70 galee e mille uomini a cavallo. Secondo il giudice erra prevedibile l'arrivo a metà quaresima o a Pasqua di 400 uomini a cavallo di cui già 200 erano pronti a Bonifacio, in Corsica, e speravano l'arrivo dell'armata fornita di balestrieri e fanti per armare quelle navi che erano già state a Cagliari. Il Peralta chiedeva di inviare una nuova compagnia, per la quale gli indicava alcuni nomi di suoi servitori, e soprattutto cavalli, almeno sessanta, dal momento che quelli sardi erano inadatti. Diplomatario, doc. 147 ([1326], febbraio 1).

628 ) R.DAVIDSOHON, Storia di Firenze, tr. it., Sansoni, Firenze 1956-1968, 8v, IV, pp. 1015-1033.

629 ) A metter in relazione le novità in Toscana con la guerra in Sardegna era una spia che operava Pisa per conto

del re aragonese. I pisani – gli scriveva – difficilmente avrebbero potuto continuare la guerra, per le difficoltà economiche.. Indeboliti, sarebbero stati costretti ad accettare le condizioni del sovrano (“mandata regia”), anche il timore “de adventu duci Calabrie et de vicinitate” del Castracani. Per il mittente, se Pisa avesse ceduto la signoria al re aragonese, ne sarebbero derivate due conseguenze positive: i sudditi della Corona sarebbero stati più sicuri nei mari; i genoivesi ghibellini sarebbero stati costretti a cedere la Corsica all'Aragona. Essi, a differenza dei pisani, sembravano ancora capaci di minacciare i catalano-aragonesi: aveva infatti, saputo da un amicus che si stavano coalizzando con i savonesi. “Malicia, superbia et mala voluntas” contro i sudditi di Giacomo II erano tali che essi dovevano muoversi con cautela e ben armati nel Tirreno: si stavano armando galee a Genova e in Provenza. ACA, Cancilleria, Cartas

reales Jaume II, c. 11.010 ([1326], marzo 18). La spia probabilmente rifletteva ipotesi e considerazioni, del resto non

nuove, discusse nella città toscana, alla ricerca di un signore che gli fornisse garanzie e sicurezza internazionali. Sul punto, vedi CRISTIANI, Nobiltà e popolo nel Comune di Pisa, cit., p. 286. Le intenzioni bellicose dei genovesi fuoriusciti

a Savona erano confermate da un altro anonimo corrispondente di Giacomo II. Si erano riuniti al grido «Moriantur,

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dal re di Napoli Roberto d’Angiò630, nel periodo successivo agli scontri ricordati, Pisa scelse la via della trattativa: i suoi ambasciatori erano a Barcellona all’inizio di aprile. La pace fu firmata il 25 di quel mese, ma pubblicata a Pisa solo il 10 giugno631, lo stesso giorno in cui Cagliari – già Castel di Castro, ora Castell de Càller – passava nelle mani degli officiali aragonesi.

L'accordo raggiunto tra Giacomo II, l'infante Alfonso e il Comune pisano, diversamente dal 1324 quando furono sottoscritte due paci separate, comprendeva anche il re maiorchino, considerato vassallo del re aragonese. Tra i prigionieri per i quali fu stabilito lo scambio si ricordarono anche i genovesi e i savonesi che avevano combattuto a fianco dei pisani. Il centro dell'accordo riguardava Cagliari: Pisa rinunciava alla concessione feudale della città – il castello, le appendici, il porto e lo stagno di Santa Gilla – stabilita nella prima pace. Cagliari passava definitivamente alla Corona aragonese. I rappresentanti pisani avrebbero avuto il compito di convincere gli abitanti cagliaritani, tra cui si trovavano sostenitori di una resistenza ad oltranza, a rendere omaggio al re e all'infante che dovevano riconoscere come loro signori. Venivano cassati i capitoli della prima pace relativi ai censi dovuti da Pisa, d'Angiò, e Genova guelfa, ma una tale decisione era considerata senza esito - «de quo nullo modo venire non possunt» - dallo scrivente, dal momento lui stesso e il Comune di Genova avevano ricevuto la scomunica dal legato pontificio. Ciò – continuava – avrebbe reso più facile la guerra del re aragonese e dei guelfi di Genova contro i fuoriusciti: ACA,

Cancilleria, Cartas reales Jaume II, c. 10.520 ([1326], gennaio 29). Riteneva che avrebbe aiutato la guerra aragonese in

Sardegna l'arrivo di Carlo d'Angiò a Firenze - «proter adventum suum guerra vestra Sardinie meliorabitur», Anguis de Mare, marsigliese, familiare e vicario di Roberto d'Angiò a Genova, il quale comunicava all'infante Alfonso le congratulazione del re di Sicilia per la recente vittoria sui pisani e sui ghibellini nemici di Genova, e lo rassicurava che il suo sovrano aveva respinto le proposte pisane per un allestimento di una flotta: ibidem, c. 10.472 ([1326], gennaio 21).

630 ) A gennaio il vicario di Roberto d'Angiò a Genova tranquillizzava l'infante sulle intenzioni del re chiuse alle

richieste pisane: v. noita supra. A marzo, Bernat Serrià scriveva da Palermo a Giacomo II, che allo loggia dei pisani a Napoli era stata levato lo stendardo di re Roberto d'Angiò insieme a quello del Comune pisano e per la capitale del Regno si annunciava che era stato raggiunta la pace tra Pisa, il re di Sicilia e i toscani i cui procuratori erano giunti nella città partenopea per sottoscriverla. Essa prevedeva che l'Angioino avrebbe aiutato Pisa contro i suoi nemici in Toscana e in Sardegna, in cambio del rifornimento di galle e del versamento di 4.000 fiorini, condizioni probabilmente proibitive per la città toscana. Lo scrivente metteva in evidenza come Roberto d'Angiò fosse venuto meno agli accordi con il re aragonese. Ciò che comunicava lo aveva saputo da alcuni catalani che erano partiti da Napoli il 4 marzo e dicevano che quegli avvenimenti si riferivano al 26 febbraio: ACA, Cancilleria, Cartas reales Jaume II, c. 10.900. Su si essi, v. ROSSI

SABATINI, Pisa al tempo dei Donoratico (1316-1347), cit. p. 141.

631 ) Il testo in Codex Diplomaticus Sardiniae, cit., I, sec. XIV, doc. XXXII (1324, aprile 25). Vedi anche ARRIBAS

PALAU, La conquista de Cerdeña, cit., Apéndice documental, doc. LVII (pp. 445-447). TANGHERONI, Alcuni aspetti

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per la concessione di Cagliari, e il re per il possesso delle saline.

Una serie di capitoli regolamentava la condizione dei pisani e dei burgenses o abitanti di Cagliari, la cui distinzione risulta precisa nel trattato, e delle loro proprietà in città e nell'isola. Essi, se avessero voluto, avrebbero potuto lasciare la città, portando con sé i beni mobili, così come il Comune in quanto proprietario. Il re avrebbe messo a disposizione navi, cocche e galee per il trasferimento a Pisa, senza alcun pagamento del nolo. I burgenses e habitadors del castello e delle appendici avrebbero potuto rimanervi e sarebbero stati trattati benignament, concessione allargata ai cives pisani in un successivo passo del trattato. I beni immobili eventualmente occupati (soprattutto nelle aree coltivate attorno al castello) dovevano essere restituiti ai proprietari pisani o burgenses, i quali avrebbero pagato alla Corona i drets che già versavano al Comune pisano. Erano eccettuati i castelli e le ville, all'interno dei quali, però, mantenevano possessiones singulas proprias. Gli ecclesiastici potevano conservare lochs e beneficis e bens, senza l'eccezione, prevista per gli altri, dei castelli e delle ville.

Al re e ai suoi officiali era permesso di espellere dal castello di Cagliari i pisani o i burgenses considerati sospetti: i loro beni potevano essere venduti entro un determinato tempo, dopo il quale essi sarebbero stati acquisiti dagli stessi officiali secondo la valutazione di estimatori scelti dalle parti. In ogni caso, i sospetti non dovevano esser privati dei loro beni prima del pagamento del prezzo stabilito. Questa clausola, nei mesi successivi, avrebbe rappresentato il principale strumento, utilizzato dagli officiali aragonesi, per cacciare gli antichi abitanti del castello e ripopolarlo con catalani.

Ai pisani era garantito anche quanto dovuto dai sardi e da altri nell'isola, mentre erano cassate loro, oltre che ai burgenses e agli abitanti di Iglesias, le precedenti condanne.

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commerciare e risiedere nell'isola, come i sudditi del re aragonese nella città toscana, e avrebbero potuto esportare merci dall'isola pagando i dazi dovuti, eccetto per i

fruyts, i raccolti che il Comune avrebbe ottenuto dalle ville delle curatorie di Gippi e

Trexenta, che gli venivano concesse in feudo da Giacomo II. L'esportazione di viades non poteva essere proibita verso Pisa, se non quando essa fosse stata vietata ai sudditi del re. Pisa, inoltre, otteneva che i cereali del giudicato di Gallura venissero esportati esclusivamente nella città toscana sia da pisani o da altri mercanti. La garanzia del rifornimento cerealicola dall'isola, da cui dipendeva in massima parte Pisa, era già stata proposta e riconosciuta già nelle trattative del 1309, così come le prerogative sui consoli che il Comune avrebbe scelto per le località marittime sarde e corse. Come diciassette anni prima, esse vennero limitate ai soli mercanti pisani, escludendo quelli che fossero residenti nell'isola (come i burgenses), e alle sole cause commerciali, escluse, quindi, quelle criminali.

La concessione delle curatorie di Gippi e Trexenta, ubicate al confine con l'Arborea, ma non contigue tra loro, zone di notevole produzione cerealicola, comprendeva anche la giurisdizione alta e bassa. Non prevedeva il pagamento di un censo, né servizi particolari, ma il Comune non avrebbe potuto costruirvi fortezze (forces), ma solo case forti (cases forts) senza fossati e verdesche, dove avrebbero potuto raccogliere i raccolti o i prigionieri. Non dovevano, però, essere edificate su rocche, a meno che non vi sorgesse già una villa. Al Comune pisano fu proposto, in cambio delle ville delle due curatorie, il pagamento di un censo annuale di 3.000 fiorini: avrebbe dovuto decidere entro tre anni. Pisa rifiutò la proposta alternativa e tenne le due curatorie632. La cifra di 3.000 fiorini era quella con cui, in un documento del 1309, calcolavano i redditi di Cagliari pisana: la concessione delle due curatorie rappresentava, dunque, anche quantitativamente, la ricompensa per la cessione della

632 ) Su queste curatorie appartenenti al Comune di Pisa nel Trecento, v. F.ARTIZZU, L'Aragona e i territori pisani

di Trexenta e Gippi, in idem, Pisani e Catalani, cit. pp. 133-146; M.TANGHERONI, Due documenti sulla Sardegna non

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città. Con quei territori la Corona non perdeva solo un'importante area di produzione di grano, che, per la sua posizione di confine avrebbe facilmente preso la direzione dell'Arborea e del porto di Oristano, ma anche le ville che erano già state infeudate e i cui titolari dovevano essere risarciti, in un momento in cui i redditi da concedere erano ormai esauriti.

Infine nel nuovo trattato vennero confermati i diritti e i possessi dell'Opera di Santa Maria di Pisa dentro il castello di Cagliari che nelle ville. Ai conti di Donoratico, invece, venivano restituite in feudo tutte le ville comprese nella sesta parte del Regno di Cagliari, eccetto i castelli di Gioisaguardia, Villamassargia e Gonnesa, per un censo annuo di 1.000 fiorini. Nel rinnovare la concessione ai signori pisani, nel dicembre 1326, si precisava che alla Corona aragonese passavano anche i diritti delle miniere già appartenuti al Comune e ai conti633: quest'ultimi erano quindi esclusi dalla zona mineraria necessaria alla realizzazione dei progetti di politica monetaria impostati dall'infante Alfonso poco dopo il suo arrivo nell'isola.

La cerimonia del passaggio del castello di Cagliari nelle mani degli officiali regi - l’ammiraglio Bernat de Boixadors e il capitano di Bonaria Felip de Boyl – del 9 e il 10 giugno, fu conclusa dal giuramento di fedeltà e dall’omaggio dei soli

burgenses al nuovo sovrano di cui diventarono sudditi. Il giudice d’Arborea Ugone II,

allora anche governatore dei sardi, presente alla cerimonia, raccontandola a Giacomo II, ricordava significativamente che il castello cagliaritano era retto e governato «cum

statu pacifico burgensium» e «ad exaltationem vestri nominis [del re] et consolationem burgensium dicti Castri»634, espressione quest’ultima ripresa in una

lettera di risposta di Giacomo II allo stesso giudice635. Nei giorni precedenti, i

burgenses furono informati delle conclusioni dell’accordo tra Pisa e Giacomo II e

probabilmente la loro nuova condizione fu oggetto di discussione tra gli ambasciatori

633 )

Codex Diplomaticus Sardiniae (Historiae Patriae Monumenta, X), a cura di P. Tola, Regio Tipografo, Torino

1861-1868, 2v, I, sec. XIV, n. XXIV (1326, dicembre 18).

634 ) Diplomatario aragonés de Ugone II de Arborea, cit., docc.159, 160 (pp. 201-203).

635 )

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pisani, gli officiali regi e il giudice d’Arborea. Un passo della Memoria de las cosas, contenente molte imprecisioni come la presenza dell’infante Alfonso a Bonaria nel 1326, evidenzia il ruolo del giudice garante degli abitanti di Cagliari: questi, vistisi senza speranza, avrebbero deciso di consegnarsi ad Ugone II che fecero venire a Bonaria dove, secondo la cronaca, raggiunsero un accordo che l’infante promise di osservare636. Come si è visto, effettivamente Ugone II raggiunse Bonaria nei primi giorni di aprile. Pur in modo confuso, il passo della cronaca rimanda ad un effettivo ruolo di mediazione svolto dal giudice tra gli officiali aragonesi e gli abitanti cagliaritani, e richiama l’ipotesi dei burgenses della congiura – ricordato dal console dei catalani - di concedere il castello al giudice prima del definitivo passaggio al re aragonese.

9. La prima organizzazione del Regnum Sardiniae: tempi, orientamenti,

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