AMBIENTE E APPRENDIMENTO
6.2. Lo spazio è una forma della conoscenza?
Merleau-Ponty (1945/2003) nel testo “Fenomenologia della percezione” affronta il tema dello
spazio chiedendosi che rapporto c’è tra esso e la conoscenza (pp. 326-392). Siamo generalmente
abituati a pensare allo spazio secondo la categoria Kantiana, come indipendente, unico e “a priori” rispetto all’esperienza 26(Kant, 2013/1781) oppure a considerarlo “come un’intuizione soggettiva
elaborata mediante gli organi di senso, specialmente della vista”27 oppure in prossemica, “come
modalità secondo la quale l’individuo, nel suo comportamento sociale, rappresenta e organizza la realtà in cui vive”28.
Seguendo queste considerazioni allora “lo spazio è lo strumento o il mezzo per poter rendere possibile il posizionamento delle cose e dotare di senso l’esperienza” (Merleau-Ponty, 1945/2003, p. 326).
Chi si è sempre occupato della ricerca spaziale come forma della conoscenza del mondo è l’artista, che mette al centro della sua indagine lo spazio riferendolo tanto all’esperienza della conoscenza del mondo quanto al problema della sua rappresentazione.
Ogni epoca storico-artistica ha sviluppato differenti modalità di rappresentare lo spazio. Erwin Panofsky nel suo celebre saggio “La prospettiva come forma simbolica” definisce il “Kunstwollen”, cioè il volere artistico, come il prodotto delle regole della psico-fisiologia della visione, delle visioni di mondo, del rapporto uomo-mondo, delle riflessioni filosofiche e delle conquiste tecniche di quel contesto socio-culturale: “possiamo così ammettere come dimostrato il fatto che il modo di raffigurazione che è tipico di un’epoca artistica […] esprime non i sentimenti personali di un singolo individuo, bensì l’atteggiamento sovrapersonale di tutta un’epoca […] (Panofsky, 1927/1991, p. 150).
25 Merleau-Ponty, M. (1945/2003). Fenomenologia della percezione.
26 “Lo spazio non è un concetto empirico, proveniente da esperienze esterne. Infatti, affinchè certe sensazioni siano
riferite a qualcosa di me (ossia a qualcosa che si trovi in un luogo dello spazio dal mio), e affinchè io possa rappresentarmele come esterne e accanto l’una all’altra – e quindi non soltanto come differenti ma come poste in luoghi diversi – deve già esserci a fondamento la rappresentazione dello spazio. Conseguentemente, la rappresentazione dello spazio non può derivare, mediante l’esperienza, dai rapporti del fenomeno esterno; al contrario, l’esperienza esterna è possibile solo in virtù di detta rappresentazione” (Kant, 2013/1781, p. 20).
27 Disponibile da http://www.treccani.it/vocabolario/spazio/ [27/08/2012]. 28 Ivi.
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Come per Kant, Panofsky indica la necessità di definire la rappresentazione di uno spazio “a priori” entro cui poi collocarvi gli oggetti della rappresentazione e che ne dà un senso generale: “il luogo
esiste prima dei corpi che stanno in esso, e, perciò, nel disegno, deve essere dipinto per primo”
(Panofsky, 1927/1991, p. 64).
Lo spazio come forma della conoscenza era un problema noto già sin dall’antichità e in tutta la storia dell’arte la ricerca della rappresentazione spaziale si è evoluta dal segno bidimensionale a quello tridimensionale (Arnheim, 1954/2004, p. 187) in vari modi: ribaltando gli oggetti a partire dalla rappresentazioni di una o più linee di terra, fissando un asse verticale di proiezione come nel caso della prospettiva curva pompeiana29, con una linea di orizzonte ad unico punto di fuga centrale
come nel caso della prospettiva di Brunelleschi o nella prospettiva accidentale a due punti.
La prima esigenza che però accomuna l’artista per ciascuna di queste tecniche sviluppatesi in epoche differenti è quella di dare a priori un’identità spaziale entro cui in seguito posizionare alcuni oggetti che stanno in relazione tra loro: sia che si tratti di uno spazio fisiologico e anisotropo - come quello degli antichi della perspectiva naturalis – o di uno spazio lineare e matematico come per quello dell’uomo moderno del Rinascimento. Nel Novecento però, lo spazio subisce una trasformazione significativa: diventa prima totalmente “simbolico - concettuale” con nei quadri di Paul Klee, Mondrian e Kandinskij per diventare con lo spazialismo il vero soggetto fisico dell’opera d’arte: qui lo spazio è l’opera d’arte.
29 Il tema della rappresentazione dello spazio sin dall’antichità, è strettamente collegato a quello dell’idea di spazio.
Gli antichi Greci e Romani conoscevano già, mille anni prima di Brunelleschi, le leggi della prospettiva. Alcuni esempi sono ritrovabili negli affreschi di Pompei, come nella Casa di Augusto, nel Cubicolo delle maschere e nella Villa dei Misteri. Questa prospettiva - chiamata perspectiva naturalis - e la differenza con quella rinascimentale – chiamata -
perspectiva artificalis, ci viene spiegata da Panofsky nel testo “Prospettiva come forma simbolica”.
La prima, quella “naturale”, segue maggiormente le leggi della visione e della fisiologia dell’occhio: prospettiva per gli antichi corrisponde ad optikè, cioè alla scienza della visione. L’ipotesi di Panofsky è che questa prospettiva sia maggiormente realistica di quella rinascimentale, perché basata sulla proiezione curva delle immagini proprio come avverrebbe nell’occhio umano. Anche la rappresentazione qui è maggiormente sferica, segue la conformazione tipica ad asse verticale di prospettiva - con più punti di fuga - e forma la caratteristica lisca di pesce. La prospettiva rinascimentale, è chiamata anche scientifica o matematica, perché si basa sulle proprietà della geometria e della matematica, ma qui il risultato è più freddo e meno realistico. Tanto la prospettiva naturale che quella scientifica derivano dal “Kunstwollen” dell’epoca di appartenenza e, in particolare, dell’idea differente di spazio che culturalmente in quell’epoca si sviluppa.
Per gli antichi lo spazio si divide in spazio finito e spazio infinito: nel primo sono contenuti i corpi e all’uomo è dato poter rappresentare solo questa tipologia; lo “spazio infinito” appartiene invece alla divinità e quindi non è rappresentabile, pena il peccato di Ybris contro gli dei. L’uomo moderno Rinascimentale, grazie alla fede nella tecnica e nelle scienze arriva anche a rappresentare l’infinito: il punto della prospettiva centrale e il tendere delle profondità di tutti gli oggetti a quel punto, testimoniano la centralità dell’uomo rinascimentale che è misura di tutte le cose e grazie all’intelletto riesce a dominare con la sua rappresentazione anche lo spazio infinito. Per gli antichi quindi lo spazio è finito, fatto di oggetti, discontinuo, è anisotropo – cioè non possiede tutte le stesse caratteristiche nello spazio. Per i moderni lo spazio è infinito, continuo, oggettivo, è isotropo, cioè possiede caratteristiche fisiche sempre uguali nello spazio. Tali concezioni differenti dell’uomo, del rapporto con il divino, del “Kunstwollen” dell’epoca di appartenenza, hanno quindi condizionato il rapporto dell’uomo con lo spazio, ritrovabile proprio nelle differenti modalità della rappresentazione artistica.
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Giulio Carlo Argan chiarisce il fine dello spazialismo: “non era una teoria né una poetica dello spazio, era soltanto l’affermazione lucida e ferma che qualsiasi cosa coscientemente si faccia è un fare lo spazio” (Argan & Bonito Oliva, 2002, p. 299). Inoltre “il gesto negativo di Fontana è anche un gesto conoscitivo: si dica pure, puramente intellettuale” (Ivi).
La creazione dello spazio avviene qui grazie a un movimento – controllato e misurato - e ad un’azione entro la materia: il gesto scava la materia e da qui prende forma lo spazio.
Riusciamo a comprendere lo spazio attraverso un’azione diretta sulla materia o, come per altre sue opere30, introducendo la luce come mezzo per creare uno spazio che prima era inesistente e che qui
è il soggetto e il fine dell’opera stessa.
Merleau-Ponty (1945/2003) restituisce la sua idea di spazio che va oltre a quello di semplice contenitore ma è esso stesso agente attivo di connessioni significative tra gli oggetti presenti al suo
interno: lo spazio non è quindi “un etere in cui sono immerse tutte le cose” ma di più, “dobbiamo
pensarlo come la potenza universale delle loro connessioni” (p. 327).
Inoltre è il soggetto che dà senso allo spazio e comprende il sé e il mondo attraverso la ricerca di un’esperienza attiva del proprio corpo: lo spazio e il corpo interagiscono nella ricerca reciproca di
senso. Il corpo allora dialoga con lo spazio, e questa relazione genera un insieme di “azioni
possibili”: “il mio corpo come sistema di azioni possibili, un corpo virtuale il cui ‘luogo’ fenomenico è definito dal suo compito e dalla sua situazione” (Ivi, p. 334).
Di più, lo spazio deve essere dotato di una serie di articolazioni e varietà tali da permettere la libertà di movimento del corpo del soggetto che apprende: “il mio corpo è in presa sul mondo quando la mia percezione mi offre uno spettacolo il più possibile vario e chiaramente articolato, quando le mie
intenzioni motorie, dispiegandosi, ricevono dal mondo le risposte che attendono” (Ivi, p. 335).
Al pari del possesso della voce che permette di cambiarne il tono, il possesso del corpo e le
potenzialità di movimento che lo spazio suggerisce, permettono di comprendere lo spazio stesso
(Ivi). La persona e il suo “essere”, assumono quindi significato se sono “situati” all’interno di uno spazio:
“l’essere è sinonimo di essere situato” (Ivi, p. 336).
Tra le percezioni possibili, la vista costituisce un canale privilegiato di comprensione dello spazio, a tal punto che anche gli oggetti in esso contenuto devono poter avere una collocazione spaziale che per mezzo dello sguardo faciliti la loro comprensione. Nell’esperienza di capovolgere un oggetto,
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dice Merleau-Ponty, “non significa privarlo del suo significato. Il suo essere d’oggetto non è quindi un essere-per-il-soggetto-pensante, ma un essere-per-lo-sguardo che lo incontra sotto una certa angolatura e non lo riconosce diversamente” (Ivi, p. 337). L’oggetto quindi, non smette di esistere, ma c’è e assume significato in funzione principalmente dell’azione dello sguardo e delle leggi della “Gestalt” e della percezione visiva (Hachen, 2007).
Merleau-Ponty collega il concetto di “spazio” a quello di “corpo” e di “azione”, di fatto anticipando di molto il concetto di “agency” e di “capacità combinate” del “capability approach” di Amartya Sen (1992; 2000) e di Martha Nussbaum (2001; 2002 & 2008).
Per le considerazioni fin qui fatte possiamo dire che “lo spazio che dà forma alla conoscenza” Merleau-Ponty (1945/2003) deve possedere alcune caratteristiche, tra cui:
- permettere al corpo dei soggetti di liberare “il sistema di azioni possibili” (Merleau-Ponty, 1945/2003);
- connettere le “potenzialità universali” (Ivi, p. 327) degli oggetti al suo interno; - essere vario ed articolato;
- suscitare l’interesse dello sguardo di tutti.