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L’UTILIZZABILITA’ DEGLI ATTI DI INDAGINE NELLA DECISIONE DA PARTE DEL GIUDICE ITALIANO: IL CONTRASTO CON LA CORTE E.D.U.

IL CONTRADDITTORIO E LA PROVA IRRIPETIBILE NELLA CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

3. L’IMPATTO DELLA C.E.D.U SULLA DISCIPLINA INTERNA DELLA PROVA IRRIPETIBILE DELLA PROVA IRRIPETIBILE

3.1. L’UTILIZZABILITA’ DEGLI ATTI DI INDAGINE NELLA DECISIONE DA PARTE DEL GIUDICE ITALIANO: IL CONTRASTO CON LA CORTE E.D.U.

<<Se vi è un settore del diritto vigente che esce addirittura sconvolto per effetto dell’art. 6, comma 3, lett. d della Convenzione, esso è proprio quello delle letture permesse nel dibattimento: punto delicato e cruciale del procedimento probatorio e dell’intero giudizio284>>. Infatti, confrontato con il quadro convenzionale sopra

283

Tonini, Il testimone irreperibile: la Cassazione si adegua a Strasburgo ed estende

l’ammissibilità dell’incidente probatorio, cit. , p. 885

284 Vassalli, Il diritto alla prova nel processo penale, cit., p. 46. Benché parecchio risalenti nel tempo, le osservazioni dell’A. conservano tutt’oggi una straordinaria attualità. Le norme in tema di letture esigono, a fronte della disciplina convenzionale, una radicale revisione, che conduca a un ridimensionamento della loro portata, mediante un’interpretazione intelligente e sistematica, ovvero, ove questa non sia possibile, mediante la parziale abrogazione delle disposizioni in questione

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disegnato, il sistema probatorio italiano si pone in un rapporto di specialità reciproca sul piano delle garanzie285. Per un verso, la regola del contraddittorio nella formazione delle prova non può dirsi tutelata in presenza di un’occasione assicurata in una sede diversa rispetto a quella in cui le dichiarazioni siano state rese. Per altro verso, le eccezioni previste al contraddittorio consentono di utilizzare le precedenti dichiarazioni anche come prova unica o principale per la condanna, senza che siano richiesti ulteriori requisiti come, ad esempio, la presenza di riscontri. Si tratta di una prospettiva che sposta l’ottica del problema, rispetto al diritto interno, dalle ragioni che hanno determinato l’impossibilità del controinterrogatorio alla valenza probatoria delle dichiarazioni del testimone assente286. A questo punto bisogna chiedersi se le molteplici condanne subite dall’Italia287 sotto questo punto di vista costituiscano delle “semplici coincidenze”, dovute al modo in cui si è sviluppata la vicenda in concreto, oppure se siano la conseguenza d’un assetto normativo che, nonostante le riforme in materia di contraddittorio, sia al di sotto dei

requisiti minimi richiesti dall’art. 6, comma 3, lett d) Convenzione. A favore della prima ipotesi sta l’osservazione secondo cui i parametri

di valutazione della Corte sono strettamente ancorati alle peculiarità del caso ad essa sottoposto (evidenza disponibile, richieste delle parti, ampiezza delle indagini svolte) tanto che si può seriamente dubitare

285

Conti, Le dichiarazioni del testimone irreperibile: l’eterno ritorno dei riscontri tra

Roma e Strasburgo, cit., p. 3; Silvestri, Teste irreperibile e valutazione delle dichiarazioni predibattimentali, cit., p. 284

286

Tamietti, Il diritto ad esaminare i testimoni a carico: permangono contrasti tra

l’ordinamento italiano e l’art. 6 § 3 d) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Cass. pen., 2006, p. 2992

287 ex pluribus: Corte eur. dir. uomo, sez II, sent. 18 maggio 2010 Ogaristi c. Italia; sez. III, sent. 8 febbraio 2007, Kollcaku c. Italia; sez. I, sent. 19 ottobre 2006 Majadallah c. Italia; sez III, sent. 13 ottobre 2005, Bracci c. Italia

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che i giudici europei siano disposti a condannare uno Stato il cui giudice abbia deciso sulla base di dichiarazioni unilaterali rilasciate al pubblico ministero, per fare un esempio, da un paladino dell’antimafia288. Se ne dovrebbe concludere, stando a questa opzione, che la Corte non proclami l’assoluta impossibilità, in qualsiasi contesto, di pronunciare una condanna sulla base delle dichiarazioni divenute irripetibili, né tanto meno l’illegittimità di un ordinamento

che non preveda particolari criteri per la loro valutazione. Nella normativa nazionale, infatti, non esistono, all’evidenza, clausole

che limitino l’impatto probatorio degli elementi che, pur formati in assenza di contraddittorio, confluiscono nel bagaglio conoscitivo spendibile per la decisione, anche di condanna. Ai sensi degli artt. 512 e 526 comma 1bis sono pienamente utilizzabili ai fini della decisione elementi di prova divenuti irripetibili: alle condizioni previste nelle citate disposizioni, l’interesse statale al recupero dei segni del reato

prevale su ogni altra esigenza difensiva dell’accusato. È conclusivamente a sostegno della seconda tesi l’osservazione

secondo la quale il divieto di utilizzare i risultati delle letture è circoscritto al caso del testimone che, per libera scelta, si sia sempre volontariamente sottratto all’esame da parte della difesa dell’imputato (art. 526, comma 1bis), ma non è riferibile alle ipotesi di oggettiva irripetibilità della prova dichiarativa. Anzi, proprio queste ipotesi, riconducibili alle deroghe costituzionalmente ammesse alla formazione della prova, risultano escluse dalla sfera di operatività del divieto enunciato nell’art. 526, comma 1bis. Tuttavia, nella prospettiva europea, è iniquo che il rischio della mancata rinnovazione della prova predibattimentale gravi in toto

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sull’imputato289, soprattutto se si considera lo spirito profondamente garantista dal quale è animata la Convenzione nei confronti di quest’ultimo.

A fronte della lunga serie di condanne inanellate dallo Stato italiano da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, si è sviluppato entro i confini nazionali un dibattito che si è diramato in due direzioni principali. Da un lato si è posto il problema circa la vincolatività e il valore della Convenzione europea, così come interpretata dalla giurisprudenza della Corte e.d.u., rispetto ai giudici e alla normativa italiani, dall’altro lato si sono aperti innumerevoli percorsi esegetici volti a ricondurre la disciplina interna della prova irripetibile alla fisionomia per essa dettata dalle decisioni prese a Strasburgo.

La Corte costituzionale italiana ha cercato, a più riprese, di conferire alla Carta dei diritti dell’uomo un valore preponderante nell’assetto ordinamentale interno. La prima tappa di questo percorso è rappresentata dalla sent. 19 gennaio 1993, n. 10, con la quale le è stata riconosciuta una particolare forza di resistenza all’abrogazione o alla modificazione da parte di fonti primarie successive, al punto che, a partire da quella data, si riteneva fosse entrato a far parte integrante dell’ordinamento giuridico italiano il principio del “giusto processo”. La diffidenza dei giudici di merito e di legittimità ha, però, vanificato, nella prassi applicativa, le conclusioni della Consulta tanto da spingerla a ritornare sul punto in successivi incidenti di costituzionalità. Nell’autunno del 2007, la Corte Costituzionale ha riconosciuto alla Convenzione la forza di parametro interposto di legittimità costituzionale ai sensi dell’art. 117, comma 1 Cost. in virtù del quale al giudice spetta interpretare la norma interna in modo

289

Inter alios: Zacchè, Lettura di atti assunti senza contraddittorio e giusto processo, cit., p. 437; Cesari, Dichiarazioni irripetibili e metodo dialettico, cit., p. 257

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conforme alla disposizione internazionale. Qualora ciò non sia possibile, si dovrà verificare preliminarmente che la norma Cedu sia compatibile con l’ordinamento costituzionale italiano (sent. 24 ottobre 2007, n. 348); in caso affermativo dovrà proporsi questione di legittimità costituzionale della norma interna contrastante con la

Cedu (sent. 24 ottobre 2007, n. 349). A promuovere ulteriormente di grado la Carta europea è giunto,

infine, il Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, il quale, per effetto della sostituzione dell’art. 6 Trattato Ue, comporta che tutte le norme della Convenzione diventino direttamente operanti negli ordinamenti nazionali degli Stati membri, con il grado e la forza delle norme comunitarie, ai sensi dell’art. 11 della Costituzione. Ciò non significa, ha sottolineato la Corte Costituzionale, l’avvenuta comunitarizzazione della Convenzione, che potrà avvenire eventualmente con l’adesione ad essa dell’Unione europea. Così considerate, le evoluzioni della giurisprudenza costituzionale non destano alcun problema. Il risultato, infatti, sarebbe quello di considerare vincolante un principio generalissimo come il giusto processo o una fattispecie altrettanto generica come il diritto di esaminare o far esaminare i testimoni a carico. Dunque, per quanto interessa in particolare al presente lavoro, non significa ancora stabilire che è assolutamente vietato affermare la responsabilità dell’imputato sulla base di prove dialetticamente deficitarie, che è regola applicativa ricavata dalla giurisprudenza europea, seppur mediante un’interpretazione dell’art. 6, par. 3, lett. d Convenzione. Il quadro si complica nel momento in cui la vincolatività della Cedu è affermata sulla base delle interpretazioni che di essa dà la Corte europea. Le affermazioni contenute nelle c.d. sentenze gemelle hanno suscitato più di una perplessità290. In primo luogo

290

Le osservazione che seguono nel testo sono state efficacemente esposte da Ferrua, La prova nel processo penale, cit., p. 237-238

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l’interpretazione della Convenzione, non essendo formalizzata in uno specifico dispositivo, unica parte della sentenza effettivamente vincolante, si ricava induttivamente dalla motivazione alla soluzione della controversia, la quale al contrario non dovrebbe esserlo. In secondo luogo, nel censurare lo svolgimento del processo, la Corte europea assume come parametri i principi generali della Convenzione e non una legge analitica, avvalendosi in pratica di enormi spazi di discrezionalità, che la trasformerebbero, se le interpretazioni da essa operate dovessero essere considerate vincolanti, in un vero e proprio legislatore, per giunta affatto democratico. Infine, non bisogna mai perdere di vista il fatto che la Corte, nell’accertare la violazione dei principi convenzionali, tiene conto di una serie di elementi ancorati alla specificità del caso concreto: si limita ad accertare se in un determinato processo vi sia stata o no violazione della normativa convenzionale e solo in quel contesto decisorio i suoi dicta dovrebbero essere costrittivi291. In senso contrario alle presenti osservazioni c’è, però, il dato292 secondo il quale costituisce una peculiarità della Convenzione europea il riconoscimento che la sua definitiva uniformità di applicazione è tutelata proprio dalla Corte europea, alla quale spetta l’interpretazione della Carta, a cui dovrebbero, perciò, conformarsi tutti i Paesi obbligati alle norme

291

Il che può portare a condanne dello Stato in ipotesi in cui i suoi agenti hanno violato le norme interne, formalmente ineccepibili, ovvero alla sua “assoluzione” quando la legge nazionale, pur presentando aspetti estremamente problematici, è applicata in un modo e in un contesto tali da indurre a ritenere che la sostanza dei diritti fondamentali del ricorrente non sia stata infranta. A questo proposito, si possono ricordare le ipotesi in cui le dichiarazioni predibattimentali, la cui utilizzazione sia consentita dalle norme interne, non costituiscono il principale mezzo di prova a carico. Tamietti, Il diritto di interrogare i testimoni tra Convenzione

europea e Costituzione italiana, cit. , p. 512; Ubertis, Contraddittorio e difesa nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, cit., p. 1092

292

Così Ubertis, La corte di Strasburgo quale garante del giusto processo, cit. , p. 372

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pattizie. Del resto, in successive pronunce la Corte Costituzionale ha attenuato la rigidità dell’originaria presa di posizione, affermando che l’obbligo di uniformarsi alla giurisprudenza europea debba realizzarsi “in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza”293; che agli Stati membri vada riconosciuto un “ margine di apprezzamento” sugli indirizzi di Strasburgo294; fino a concludere che “è solo un diritto consolidato, generato dalla giurisprudenza europea, che il giudice interno è tenuto a porre a fondamento del proprio processo interpretativo, mentre nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento ormai divenuto definitivo”295.