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Cronache Economiche. N.325-326, Gennaio - Febbraio 1970

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CAMERA DI COMMERCIO

INDUSTRIA ARTIGIANATO E AGRICOLTURA SPEDIZIONE ,N A B B O N A M E N ^ Y ! C . POSTALE (III GRUPPO) - 70 DI TORINO O ^ O O

CRONACHE

ECONOMICHE

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o o

ARATTI

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cronache

economiche

mensile a cura della camera di commercio industria artigianato e agricoltura di forino

numero 325/6

gennaio-febbraio 1 970

Corrispondenza, manoscritti, pubblicazioni deb-bono essere indirizzati alla Direzione della Ri-vista. L'accettazione degli articoli dipende dal giudizio insindacabile della Direzione. Gli scritti firmati e siglati rispecchiano soltanto il pen-siero dell'autore e non impegnano la Direzione della Rivista nè l'Amministrazione Camerale. Per le recensioni le pubblicazioni debbono es-sere inviate in duplice copia. É vietata la ri-produzione degli articoli e delle note senza l'autorizzazione della Direzione. I manoscritti, anche se non pubblicati, non si restituiscono.

sommario

L. M a l i e

3 Francesco Ladatte scultore di corte torinese

G. M . Vitelli

21 La regione franco-italiana delle Alpi

A. Russo F r a t t a s i

28 Considerazioni sullo sviluppo del traffico aereo delle merci

G. Gaetani d ' A r a g o n a

52 Nuove leggi per la montagna

A. C i m i n o

56 II mercato internaziona!e dei metalli non ferrosi

C. C o s t a n t i n o

60 Orticoltura in Gran Bretagna e Mercato Comune Europeo

A. Trincheri

65 Dalle vicende del marco al dominio degli eventi economici

N. Bottinelli

68 I criteri informatori della riforma della disciplina del commercio

M . Clava e U. M o n t e v e c c h i

70 II budget pubblicitario

A. Bastianini

76 La difesa del suolo e l'intervento pubblico in Piemonte

A. V i g n a

85 Alimentazione e commercio nella grande Mostra del Valentino

U. Bardelli

92 La Palude di Cabras in Sardegna * * * 98 Autostrada Torino-Alessandria-Piacenza 103 Tra i libri 109 Dalle riviste Direttore responsabile: Primiano Lasorsa Vice d i r e t t o r e : Giancarlo Biraghi

Direzione, redazione e amministrazione

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C A M E R A DI C O M M E R C I O

I N D U S T R I A A R T I G I A N A T O E A G R I C O L T U R A

E U F F I C I O P R O V I N C I A L E I N D U S T R I A C O M M E R C I O E A R T I G I A N A T O Sede: Palazzo Lascaris - Via Vittorio Alfieri, 15.

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B O R S A M E R C I

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G A B I N E T T O C H I M I C O M E R C E O L O G I C O

Laboratorio analisi chimiche - 10123 Torino -Via Andrea Doria, 15. Telefono: 55.35.09.

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Francesco Ladatte

scultore di corte

torinese

Luigi Malie In copertina a colori: F r a n c e s c o L a d a t t e G r u p p o di p u t t i ( t e r r a -c o t t a ) - T o r i n o , M u s e o C i v i -c o . (Foto Ar-ch. M u s e o Civi-co, Torino).

Francesco Ladetti o Ladetto — che francesizzò il nome in Ladatte quando visse a Parigi — nacque a Torino il 9 dicembre 1706 (non come sosteneva il Paroletti, nel 1707, a Parigi) e inori a Torino il 18 gennaio 1787.

Esplicite notizie documentarie sui modi delle prime prove man-cano. Stando al Dussieux, Fran-cesco tentò i primi passi nella scultura (e pare anche nella pittura) ancor bambino se, quan-do il padre, addetto alla corte del principe Vittorio Amedeo di Savoia-C arignano, presentò al suo protettore varie opere del figlio, questi aveva solo dodici anni. Fu allora, nel 1718, che il principe trasferendosi a Pa-rigi da Torino, prese con sé ritenendolo meritevole d'aiuti allo studio il piccolo Ladatte. Questi aveva avuto a compagno, alla stessa corte dei Savoia-C arigna-no, il quasi coetaneo Carlo van Loo, amicizia destinata a rian-nodarsi più tardi a Parigi, con analogie, anzi comunanza di si-tuazioni culturali nelle due car-riere artistiche pur nelle diver-genze di linguaggio e tempera-mento.

Non sappiamo esattamente con chi studiasse Francesco appena giunto a Parigi nel '18 e anni subito successivi, perfezionan-dosi per un decennio fino a

concorrere con successo ai premi dell' Accademia di Francia. Ma tra il '18 e il '29 — durata del primo soggiorno — ci è facile ricostruire ragionevolmente se non i precisi contatti materiali e gli effettivi corsi seguiti, il clima d'influenze subite e di suggestioni più spontaneamente accolte.

Ormai prossimo a scomparire il Coysevox, ma lasciando un'ere-dità fondamentale, che Ladatte non ignorò, erano in pieno fer-vore Nicolas e soprattutto Guil-laume Coustou, le cui opere del '20-30 lasciano segni anche sul-l'intervento di Francesco alla corte di Torino nel '32; ed erano in fama, e nello stesso giro aulico, René Frémin e Robert Le Lorrain (più severo e classi-cistico) nonché J. B. Lemoyne I , il cui nipote Jean Baptiste I I , che avrà poi a dare impulsi anche al Ladatte tardo, sarà proprio coetaneo di questi, es-sendo nato nel '04.

Coetanei pure e pieni di slan-cio nelle prime prove parigine, gli Slodz (Paul Ambroise e Michel-Ange, nato quest'ultimo nel '05) e i lorenesi impulsivi Adam: in particolare Lambert-Sigisbert e Nicolas-Sébastien, con i quali, nel periodo '30-50, il Ladatte segna molti e patenti paralleli. Non erano ancor di scena Pigalle e Falconet, in avvio solo dal '40 circa, né i

più giovani ancora Caffieri e Pajou, in avvio dal '50 circa, i quali tuttavia non ancor per-sonalità riconoscibili neppure ai giorni della seconda sosta pari-gina del Ladatte, avranno da partecipargli valori utili nella sua fase tarda, dopo il '60. L'esperienza dell'Académie fu comunque fondamentale per il torinese. Ventiduenne, nel '28, Ladatte vi ottenne il secondo premio di scultura col bassori-lievo « Joram e Naaman » e nel '29 colse il primo premio col bassorilievo « Joachim re di Giu-da distrugge il libro di Geremia ». Ladatte interruppe allora la di-mora parigina per l'agognato soggiorno di studio a Roma for-nitogli dal premio e là nell'am-biente dell'« Académie de France à Rome » ritrovava artisti fran-cesi già conosciuti a Parigi o anche piemontesi che vi si sta-vano perfezionando. Quando vi giunse nel '30 se non forse ancor nel '29 stesso, vi lavorava tuttora Claudio Beaumont torinese, già affermato alla corte sabauda e residente a Roma da un settennio (ed era già per lui un secondo soggiorno); e vi era l'amico

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F r a n c e s c o L a d a t t e c. 1 7 3 2 - C e r v o in b r o n z o - S t u p i n i g i , C u p o l i n o d e l i a P a l a z z i n a di C a c c i a .

(Foto Arch. M u s e o Civico, Torino)

e al '33 i due altri) mentre se n'era forse appena allontanato il Natoire.

In quel clima raffinato dalle sottili commistioni e fusioni di classicismo romano e di classi-cismo francese, il primo già per più versi venato di grazie e purismi francesi, assaporati per discendenze dirette o mediate, il secondo giungendo nell'Urbe carico d'una secolare eredità tan-to profondamente nutrita di suc-chi romani, il giovane Ladatte tra i suoi ventidue e i venticinque anni maturò decisamente : le ope-re immediatamente successive per la reggia torinese sono dimostra-zioni eccellenti d'una elezione lungamente epurata di gusti, d'una coerenza stilistica luci-damente controllata, d'un carat-tere vigoroso al di là delle grazie

gentili, d'una perizia tecnica eccezionale. E veramente, nella sua città natale, il Ladatte ormai così maturo nonostante V ancor giovane età, poteva rappresen-tare a quel momento un richiamo nuovissimo e affascinante, un filone di cultura più aulico ma al tempo stesso più brillante, ricercato, spiritoso ed elegante di tutto quanto il Piemonte da tempo conoscesse, orientato come era in scultura su direzioni più strettamente locali e in buona parte d'accenti popolareschi: fos-sero le tante sculture devozionali lignee o fossero gli stucchi diff usi e ricchi anche nelle residenze aristocratiche o alla stessa reggia, ove permaneva calcato un sapore di doviziosa artigiania provin-ciale perfino nei ricchi intagli lignei, solo al chiudersi del '600

trovando accenti più raffinati, pili brillanti e anche tecnica-mente ingentiliti e impreziositi ma con densità e foltezza ancor tanto estranee ad una sbriglia-tezza rocaille ormai scapricciante in pittura, con squisitezze sa-lottiere e divagamenti amabili.

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fron-1

F r a n c e s c o L a d a t t e - A r p i e ( b r o n z i al m o b i l e d e l P i f f e t t i n e l l a S t a n z a d e l l a R e g i n a - T o r i n o , P a l a z z o R e a l e ) .

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-f

te a tutti questi, operanti da tempo oppure proprio allora arri-vati di persona o invianti opere, il Ladatte dovette segnare, nel '32, un entusiasmante rinnova-mento di gusti e di vitalità.

Anche dinanzi a quegli ultimi, variamente modulanti una ere-dità berniniana su corde sensibil-mente accad emizzanti — e il Cornacchina e il Cametti, essi stessi, non senza consonanze, almeno, con certe soluzioni fran-cesi — e tuttavia ancor piuttosto complicati e appesantiti da re-sidui secenteschi, il Ladatte in-troduceva un fiotto di più libera vita, di spigliato linguaggio in cui, la cultura sottile faceva tut-t'uno con la sottigliezza d'una poetica e con una vena fresca dì

coquetteries, sempre trattenuta

sul filo della innata compostezza che lascia le cadenze « rocail-le » slanciarsi, impuntarsi, im-pigliarsi ma le trattiene ora fuori di gravezze e complica-zioni (non sfuggite, invero, in fase tarda) ed esclude sofistica-zioni. E si può notare che se quel gruppo di romanizzanti, in cui rientrò anche Simone Mar-tinez, ebbe sulla scultura pie-montese largo e duraturo ascen-dente toccando la vecchiaia del Plura, la maturità del Tantar-dini e poi influendo largamente sul Perucca, sul Bernero e sul Clemente, di fronte a quella cor-rente il Ladatte costituisce un apporto particolare, il più vivo e moderno ma che fu, per l'am-biente plastico locale, meno frut-tuoso e venne a costituire piut-tosto un fatto essenziale consi-derato sotto il punto di vista della scultura decorativa d'in-terni, in ciò dando luogo a un capitolo primario, squisitamente collegato alle regìe di Juvarra e di Benedetto Alfieri o, come nel caso di Vicoforte, di Fran-cesco Gallo e alle collaborazioni con i più esperti argentieri o intarsiatori o ebanisti della corte di Torino. Ladatte inoltre venne così a presentarsi come l'unico scultore in Piemonte vivamente

allineato con le più moderne, colte, preziose correnti di pit-tura aulica nella regione, suscet-tibile al pari di queste di assu-mere un timbro « internazionale » in perfetta aderenza al clima europeo della metropoli torinese in splendente ascesa.

Nel 1732 Ladatte lasciò Roma per Torino dove trascorse un primo periodo d'attività per la corte; nel novembre era pagato — in una successione di rate per un cospicuo ammontare atte-stante l'importanza dell'incari-co — per « metalli zisellati... per ornamento delle scrivanie cioè coffano forte per Sua Mae-stà »; il Rovere informa che « i lavori di bronzo dorato e cesellato a figure e ornati » delle scansie intarsiate dal Pìffetti nel gabinetto di toeletta della regina « furono fatti nel 1732 da Fran-cesco Ladatte » e pagati lire 4612. Lavoro per noi fondamentale, questo, che fa constatare nel ventiseienne bronzista una piena maturità tecnica ed espressiva, un gusto compiutamente orien-tato; di qui il Ladatte in logica successione trascorrerà, solo am-pliando e irrobustendo le forme (e più tardi appesantendole), alla « Giuditta » del Louvre, al « Trionfo delle arti liberali » (Pa-rigi, Musée des arts décoratifs) al tabernacolo di Vicoforte, al pendolo col « Tempo ». V'è, nei bronzi applicati agli stipi del gabinetto di toeletta, minor com-plicazione o ammassamento di elementi, minor turgore e spes-sezza di forme che, pur nella plastica corposa, manifestano più arioso e macchiato pittoricismo e — perfino mostrando qualche gentile gracilità — avviano una vicenda chiaroscurale palpitan-te, intenerita, che cederà, più avanti, a luci e ombre più fisse, tese. Se elegantissimi e preziosi, pur nel compatto sboccio, sono i bustini di donne-arpie, a tutto tondo, deliziosi appaiono i bas-sorilievi leggeri, alitati dei pan-nolini incorniciati da palme e « rocailles », con puttini (le

Sta-gioni) e i motivi di nastri e trofei dal morbidissimo cesello.

È anche un momento ecce-zionale di accordo tra intarsia-tore e bronzista; non più ripreso in tali termini. Quando Piffetti eseguirà lo stipo ora al Quirinale non gli sarà accanto un bronzista ma un intagliatore per le due belle, grandi cariatidi in legno dorato. Ma ci chiediamo se un pensiero per queste non venisse dal Ladatte, non potendosi sup-porre per le due figure scivolanti, tese (come nate da mente di bronzista) un'invenzione da par-te d'alcun altro scultore piemon-tese del tempo.

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F. L a d a t t e e A . B o u c h e r o n - T a b e r n a c o l o d e l S a c r o P i l o n e ( b r o n z o e a r g e n t o d o r a t o ) 1 7 5 0 - V i c o f o r t e , S a n t u a r i o .

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Nel gennaio 1733 Ladatte era testimone a Torino, in San Fi-lippo, alle nozze di Carlo van Loo con Cristina Somis; nel feb-braio 1734 veniva, pagato « per due puttini di metallo con cascate di conghiglie e foglie in acqua » e per «altri lavori per il nuovo appartamento di Sua Maestà » nonché per un « modello in cera fatto per una pendulla ». Poiché dopo questa data cessano le men-zioni nei conti della Real Casa, è giusto pensare che fin dall'ini-zio del '34 Ladatte fosse rien-trato a Parigi. Del resto un certo periodo di attività già

svolta colà dopo l'assenza, rende più logico il fatto ch'egli venisse accolto — « agrée » — all'Acca-demia parigina il 29 gennaio 1736; la nomina ad accademico segui il 30 dicembre 1741 dietro presentazione — come « morceau de réception » — d'una Giuditta in marmo ora al Louvre, tema più volte trattato dallo scultore se la lettera di sua nomina ad ac-cademico, firmata da Cristophe da Largillierre e da Oudry, ac-cenna esplicitamente a vari esem-plari: « les divers ouvrages en marbré de ronde bosse représen-tant une Judit tenant la tète

F r a n c e s c o L a d a t t e ( r e p l i c a d a ) s e c . XVIII - G i u d i t t a ( t e r r a c o t t a d o r a t a ) - T o r i n o , M u s e o C i v i c o . (Foto Arch. M u s e o Civico, Torino).

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1738 egli esponeva una Madonna col Figlio, bozzetto in creta (ri-masto al Salo ti ) e una testa di S. Paolo in terracotta; nel 1740 le terrecotte di uno stemma reale con due putti e di un S. Ago-stino, una terza terracotta a bas-sorilievo con Plutone e Pro-serpina e la ninfa Oxianci, te-ma, questo « ratto », che sembra sia stato caro a Ladatte se poco più tardi lo riprese in un gruppo, da ritenere ridotto alle due figure di Plutone e Proserpina, al ri-torno a Torino; nel 1741 il gruppo iti terracotta di Diana uscente dal bagno con due ninfe, due putti e un cane; nel 1742 un bozzetto d'altare con tre scene figurate, rispettivamente costi-tuite da due gruppi e un basso-rilievo, simbolizzanti la Reli-gione con un cherubino, ful-minante l'Eresia; un angelo e un cherubino che calpesta l'amor profano; Clodoveo, Clotilde e l'Arcivescovo di Reitns; e sempre nel '43 una terracotta allegorica con una donna su naviglio nau-fragante, un gruppo in terracotta con l'Abbondanza e l'Amore; nel 1743 il bozzetto per il mau-soleo al Cardinal de Fleury a seguito dì concorso indetto dal re, partecipandovi Letnoyne, Se-bastien Adam, Vinache e Bou-chardon che f u poi il prescelto.

Era stato esposto nel '38 al Salon il bozzetto in terracotta del « Martirio di S. Filippo » la cui realizzazione in bronzo (non in marmo come scrissero Auvray e Bellier) per la Cap-pella del Castello di Versailles ove è tuttora, fu compiuta solo nel 1746 dai bronzisti Slodtz (collaboratori anche di Lemoyne). Iti quel periodo Ladatte esegui pure i gessi d'una Madonna col Figlio {da modello in terra-cotta del '39) e di S. Genoveffa per la Chiesa di S. Luigi a Parigi; le figure e gli ornati marmorei per l'altare della Ver-gine alla cattedrale di Reitns (1742); il Bachaumont parla anche di sculture per il giardino dell'Hotel Dufour a Parigi e

dell'Hotel de la Popelinièrc (un altro ratto di Proserpina) a Passy. Un decennio, dunque, fittissimo; e la varietà e disloca-zione degli incarichi provano che Ladatte, in una Parigi ricca di scultori e di fama, primeggiava. Sostiamo ad alcune fra le opere sopra citate. La statua di Luigi XV al Pcilais des Consuls di Rouen, che poteva dimostrare le attitudini dell' artista nella scul-tura aulica monumentale, andò distrutta.

Maggiormente ci trattiene la « Giuditta ». Il tema stava a cuore a Ladatte: una terracotta al Salon nel '38, un'altra al medesimo nel '39 (entrambe, sta-tue) non necessariamente la stes-sa; e nel '41 il marmo come

« 7tiorce.au de reception », certo

traduzione del precedente o d'imo dei due precedenti bozzetti. Il marmo ora al Louvre è d'alta qualità; i frutti del recente sog-giorno romano si scoprono, dai riattacchi berniniani rivissuti at-traverso le discendenze più ba-roccheggianti e le più accade-miche, compenetrate e, anche qui, si vorrebbe avanzare una, paren-tela di cultura fra il Ladatte sul '40 e un Simone Martinez degli stessi anni. Patetica e respirante questa Giuditta, in recitatissima posa, minuziosa nel prezioso dettaglio su carni e panneggi, frusciando come una dama o dea dipinte da van Loo e da Boucher, pezzo di virtuosismo ma di spontanea grazia. Si notino certe sottigliezze: il gioco di pieghe alla vita, il panno attorno e sotto la spada, marez-zato dalle ombre come per tre-muli tocchi di colore, la gracile spalla nuda nel ricamato scollo. I legami son chiari con i bronzi torinesi del '32; e si può, nella testa d'Oloferne, trovare elementi per assegnare al Ladatte, come faremo più avanti, un bozzetto del « ratto di Proserpina » ine-dito, collimano alquanto ma più ancor ladattiano; e giova fin d'ora sottolineare come in La-datte, sul '40, siano ferme le

basi per la giovinezza e tutta la prima fase d'Ignazio Collino che il suo, sia pur non lungo, alun-nato presso il bronzista, dovette trascorrerlo intorno al 1746-1747.

Un bozzetto della « Giuditta » in terracotta dorata (Torino, Mu-seo Civico) risponde nell'im-pianto al marmo; non vi rispon-dono alcuni particolari nella ese-cuzione che nel bozzetto è più risentita, più disegnativa, priva delle vibrazioni pittoriche mor-bide del marmo e che nel boz-zetto si attenderebbero più mosse e calde. Gli attributi, le vesti, l'acconciatura, sono più rigidi e ricercati; ad esempio sul capo, invece del libero nodo che è nel marmo, c'è un diadema. Più che supporvi uno dei precedenti boz-zetti del Ladatte (che poi la doratura più tarda aggravò an-cora) propendiamo a ritenerlo « d'après Ladatte », salvo mi-glior lettura consentita dalla ri-mozione della doratura o, almeno, ridoratura.

Il bassorilievo in bronzo al-l'altare della Cappella del Ca-stello di Versailles, con il « Mar-tirio di S. Filippo » è uno dei punti più alti della attività la-dattiana; ma ciò che soprattutto fa stupire dell'oblio in cui è caduta un'opera di cosi alta qualità e di cosi insigne ubica-zione, è che essa è fra le cose migliori prodotte dalla scultura a Parigi intorno al '40. Al for-mato molto allungato, splendi-damente s'adegua la ricca lega-tura narrativa del discorso, fitta nei due raggruppamenti laterali e sapientemente spaziata nel mo-to sospeso atmo-torno al nodo com-positivo del carnefice.

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ro-F. L a d a t t e c . 1 7 7 0 - C a n d e l i e r e c o n s c e n e di c a c c i a , p a r t i c o l a r e ( b r o n z o ) - T o r i n o , P a l a z z o R e a l e , G a l l e r i a d e l D a n i e l .

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F r a n c e s c o L a d a t t e ( ! ) - R a t t o di P r o s e r p i n a ( n . 5 0 ) ( t e r r a c o t t a ) - T o r i n o , M u s e o C i v i c o d ' a r t e a n t i c a . ?.. (Foto Arch. Museo Civico, Torino)

mano, sembra non rifiutare qual-che eco veneta (« romanisante » essa stessa, s'intende). Se c'è qualche convenzione, qualche par-ticolare generico, la scena è però tutta sostenuta da un'alta ten-sione, che non è solo di ordito strutturale dalle ben chiare tra-me geotra-metriche in profondità e in superficie, ma è anche di ner-vosità del ductus — se pur tenuto sul filo d'una parlata aulicissima e risonante — e di pulsazione chiaroscurale. Ma sarà neces-sario puntare sui berninismi, filtrati attraverso una lunga serie di meditazioni romane compiute

da francesi, quali proprio in questo torno di tempo, però, è Ladatte a riassumere e fissare in moduli che ritroveremo, e certo con più autorità di configurazione, più leggerezza e volo di tratto e più ornativo capriccio, in Coustou e nei due più noti Adam, che di prove del genere ne daranno dopo il '50 e oltre, con più fluide dissolvenze pittoriche. Il Ladatte, nel carnefice, sembra voglia del resto ritrovare idealmente, se non i valori formali, la posa del David berniniano mentre lo stes-so scorcio quasi paradossale del Santo è un richiamo a classicismi

d'una Accademia romana ancora ossessionata da spericolatezze ba-rocche secentesche che alcuni più giovani scultori di Parigi sa-pranno più facilmente eludere.

Il ritorno definitivo di Ladatte a Torino avvenne il 18 luglio 1744. L'8 gennaio 1745 il re gli assegnava un annuo stipendio di lire 800 come « scultore in bronzi di Sua Maestà » con l'impegno, oltre a svolgere la sua professione negli incarichi per la corte, di « insegnare l'arte sua a quegli imprendizzi che gli ve-nissero destinati » Nel corso del-l'anno era pagato per « 24 paia griglie da fuoco di bronzo do-rato » per la reggia. Negli anni 1747-1750 esegui « placche di metallo dorato a forma di giran-dole per la Galleria del Daniel e Gabinetto attiguo », una cornice per ritratto sabaudo, altre 22 gri-glie da fuoco; inoltre, in argento, piatti, candelieri e « surtout ». Gli incarichi erano molteplici e vari: dalle « guarniture » in car-tapesta per una illuminazione di gala al Teatro Regio ai basso-rilievi per ornamento d'una nuo-va teca della SS. Sindone.

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assorbito anche Crosato ( Veneri, sorelle di questa « Virtù ») e Giaquinto e da cui De Mura già fuoriesce.

A questo superbo esito avvici-nerei, per stile, finezza e data, due gruppi di putti in terracotta al Museo Civico di Torino, cui alluse il Vesme, identificandoli come allegorie dell'i Acqua » e del « Fuoco » e ritenendoli bozzetti per due dei quattro gruppi get-tati in piombo dal Ladatte dopo il 1744 e situati attorno alla vasca del giardino reale, poi scomparsi. Se Giovanni Battista Boucheron citava quei gruppi — coppie di putti — come « Ele-menti », il Dussieux li disse allusivi alle « Stagioni ». Le due terrecotte del Museo .s'accordano m.eglio al secondo tema, generi-sticamente interpretato; il Mu-seo stesso conserva tre terrecotte minori, ognuna con una coppia di puttini, due delle quali cor-rispondono esattamente alle due maggiori; si tratta dunque d'una più piccola serie, già di quattro gruppi, confermanti la tematica delle Stagioni, però di esecuzione piuttosto rigida (e spettano del resto a seguace), mentre i mag-giori sono di tenerissimo e lumi-noso modellato. Ci chiediamo se tali bozzetti amabili non siano stati tradotti anche in bronzo; in ogni caso costituiscono, pro-seguendo lo spunto dei putti nel gruppo degli Arts Décoratifs, un punto importante per il con-fronto — convergente e diver-gente — con i putti bronzei più tardi del Ladatte.

Proponiamo, al nome del La-datte, una terracotta del Museo Civico di Torino, col « Ratto di Proserpina » fine, mosso, pitto-resco, specie nel Plutone, più liscio e lucente nella Dea, con timbri francesi e tuttavia con-tatti forti con l'ambiente pitto-rico e plastico della Torino 1750 circa, cioè al punto d'incontro tra la piena maturità del La-datte, ancor impregnato delle soste parigine (ma già orien-tantesi verso una sua maniera

più larga e robusta, non sempre altrettanto vibrante e sensuosa) e le prime esperienze di Ignazio Collino che fu suo allievo tra il '46 e il '48 e che anche quando andrà nel '48 — e fino al '64 — a classicizzarsi a Roma, non dimenticherà il Ladatte e non mancherà di arieggiare an-cora grazie francesi alla Pigolic (e risalendo all'indietro, fino a Coysevox che ricorderà ancora dopo il ritorno a Torino) o alla Falconet, dimostrando di conoscere anche gli Adam e Caffieri stesso. Il «ratto » in que-stione, ch<? attaglia ad una data 1748-1750, si connette con i due scultori, parendo però troppo vibrante e caldo per Ignazio. La conoscenza, per documenti, dell'esecuzione del Ladatte d'un « Ratto di Proserpina » nel pe-riodo parigino, e d'un altro dopo il rientro a Torino (e a fine '700 esposto all' Accademia delle Scienze), induce a ritenere que-sta terracotta bozzetto per uno di quei gruppi (ch'erano in marmo), in relazione, in tal caso, forse col secondo, compiuto verso la fine del quinto decennio e non col primo che raffigurava, oltre ai due dei, la ninfa Oxiana.

Il 30 dicembre 1749, insieme all' orafo Andrea Boucheron, La-datte si obbligava con l'Ammini-strazione Civica di Mondavi per i lavori del Sacro Pilone del Santuario di Vico forte, secondo il disegno dell' architetto Fran-cesco Gallo, utilizzando bronzo e argento donato dai fedeli; i lavori erano compiuti in due anni, il collaudo fu fatto nel '51 dal Vittone. L'opera monu-mentale e sfarzosa, legata alla necessità di formare tabernacolo o meglio edicola al pilone antico — il tutto sviluppandosi sotto l'architettura del baldacchino alla romana — risolve le materiali imposizioni con eccezionale fan-tasia; e nel capolavoro or afesco dei due maestri, il bronzista e l'argentiere, la struttura archi-tettonica dell'edicola quadrilate-ra, di per sé costrittiva e

mas-siccici, è superata come tale ri-solvendosi in mossi ed esuberanti valori decorativi con mensoloni a volute che smussano i lati, girali, fogliami, conchiglie, me-daglioncini « rocaille », teste d'an-gelo, mazzi di fiori. Mentre al Boucheron spettano i due finis-simi bassorilievi in estrosi me-daglioni rococò con l'Annuncia-zione. e lo Sposalizio della Ver-gine, condotti con squisitezza di sbalzo, grazia, respirante levità pittorica, al Ladatte spettano le cornici medesime di quei meda-glioni, le ghirlande, le teste an-geliche accoppiate e i trofei che li circondano, le teste, volute, mazzi sui contrafforti angolari, il fregio formante cornicione, le grandi « rocailles » sventaglianti alla sommità e gli splendidi putti ai quattro angoli superiori.

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«

F r a n c e s c o L a d a t t e - O r o l o g i o c o n a l l e g o r i a « La v e r i t à s c o p e r t a d a l T e m p o » . P a l a z z o R e a l e . S a l a d e l l a C o l a z i o n e .

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Nella splendida coppia di zuppiere d'argento di collezione privata torinese, punzonate da Paolo Antonio Paroletto, il Bar-goni ha proposto il Ladatte come autore del disegno. Condividendo la proposta pensiamo, per la datazione — stando ai marchi di G. B. Carron e di C. Micha, assaggiatori alla zecca di To-rino rispettivamente dal 1753 e dcd 1759 — ad un'esecuzione intorno al '60; ma il pittoricismo fresco e vibrante potrebbe far indietreggiare il disegno a qual-che tempo prima.

Nel 1756 Ladatte ricevette un pagamento per « una portello di metallo dorato alla custodia del-l'oglio santo della Cura Regia » che ancora sussiste con bronzi di buona fattura, pur non fra le cose più fini del maestro, prov-veduta d'un rivestimento ad in-tarsi del Piffetti (Cristo nell'orto).

All'agosto 1757 una lettera del Marchese di Sartirana, amba-sciatore sabaudo, da Parigi alla corte di Torino, informando del-la supplica d'un modeldel-latore di porcellane della manifattura di Chantilly desideroso di venire a far prova a Torino, fa sapere che questo artefice — in verità non precisato col nome — aveva già lavorato a Torino « en qua-lità de sculpteur » proprio con il Ladatte, ciò che conferma l'effet-tivo costituirsi presso di questi d'una bottega vivace di scultura decorativa; in essa dovevano im-mancabilmente pullulare disegni del maestro per ogni genere d'og-getti da chiesa, da palazzo e da collezione, nonché veri e propri tipici disegni esemplari per de-corazione, come nei grandi ate-liers dei celebri « ornemanistes » parigini o dei colleghi inglesi. E quando nel marzo '64 il La-datte, infermo, stenderà il suo primo testamento, egli legherà a Simone Dughé (Duguet) ap-punto quel prezioso patrimonio d'invenzioni e di motivi: « tutti li modelli, forme, carte e disegni esistenti nel suo laboratorio che si trova nella corte laterale al

ma-neggio della Reale Accademia »; patrimonio poi andato disperso.

Nel 1760 è registrato un pa-gamento « per aver modellato in creta una figura grande al natu-rale entro il quale sono riposte l'ossa del Beato Amedeo in Ver-celli ed altro fatto per il corpo del Beato »; e nel '65 per « tre pezzi d'ornati d'argento previsti per il di dietro dell'altare della SS. Sin-done », pagamento seguito da vari altri con lo stesso riferimento.

Nel 1763, alla chiesa juvar-riana del Carmine in Torino era stato eretto, su disegni di Benedetto Alfieri, l'aitar mag-giore con la partecipazione di Giovanni Battista Parodi geno-vese per le sculture in marmo e di Francesco Ladatte per quelle in bronzo. L'altare però subiva già un rimaneggiamento nel 1770, quando per incarico di Carlo Emanuele III l'architetto Birago di Borgaro sostituiva il tempietto sul tabernacolo con al-tro fornito di nuovi bronzi. Rite-niamo che alla data di quell'altare originario si colleghino comunque i due grandi putti portacero in bronzo, già ritenuti scomparsi a seguito dei bombardamenti del 1943 e fortunatamente invece ora rivedibili sulla -balaustrata del-l'altare e che sono fra le cose più note del Ladatte. Stilisticamente, per la pienezza e maggior gra-vità di forme, essi possono stare appunto ad una data intorno al '63; il « rocaille » già va acquietandosi attenuando le di-vagazioni lineari e ritmiche (che il Ladatte serberà ancora spriccianti in lavori di puro ca-rattere ornamentale) ma il mo-dellato mantiene ancora una mor-bidezza che stacca nettamente que-ste gentili e dolci figure dalle forme più levigate e sfreddate d'un decennio appresso. Anche questi putti trovano richiami, prevalentemente tematici, ma a volte con qualche nota di affi-nità di gusto e di stile, con tutta una serie di creazioni francesi, di cui costituiscono anelli, ad esempio, i putti portacero eseguiti

intorno al 1709-1713 da Claude Le Fort du Plessy al Palazzo Dami Kinsky di Vienna o quelli poco più tardi del 1721-1724 al Palazzo del Belvedere nella stessa città; putti qui veduti dal-l'architetto svedese Karl Gustav Tessin che forse, dirigendo a Stoccolma più tardi i lavori a Palazzo Reale, fu lui a richie-derne di analoghi a Jean Phi-lippe Bouchardon nel 1752 (con fusione più tarda) per lo scalone; e si tenga conto che il Bouchar-don in un viaggio europeo del 1750-1751 aveva toccato anche Tot 'ino. Richiami, ripeto che qui si propongono più che altro su un piano di diffusione d'un tema e d'una sua esteriore trat-tazione ma comunque cultural-mente validi e significativi, si-tuando anch'essi nettamente il Ladatte in un gusto che in quel periodo diramava da Parigi a

Vienna a Torino alla Svezia a Pommersfelden a Salisburgo e che trova ancora esiti, per il tema di putti portalanterna, in quelli del Defernex allo scalone del Palais Royal di Parigi, già posteriori ai ladcittiani, toccando il 1768.

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»

tutte in quel torno di tempo, ma anche di un ventennio prima, sul 1747-1750). Per i due esem- % plari maggiori, sulla montatura

di base, combinante un giro di ovuli a giorno con volute « ro-caille », s'innanza il corpo dei candelieri realisticamente inteso come un nervoso e capriccioso tronco d'albero, svettante da un cu nudo di terra e diramato in tre branche suddivise nei rametti portacero. Ai piedi degli cdberi, cani azzannano selvaggina. Lo spunto descrittivo e la tesa

viva-Museo Civico di Torino, in bronzo, traduce un tipo di

ri-tratto^ di corte divenuto tradì-^ B . ^ ^ ^ ^ ^ ^ ^ ^ ^ ^ ^

diminuite proporzioni, nulla per- ..

de di maestà e di piglio volitivo acquista in eleganza e vivezza e meglio si concede alle

„ „ „ • i > , • , , , F r a n c e s c o L a d a t t e - V i t t o r i o A m e d e o III, b u s t o ( b r o n z o d o r a t o c o n b a s a m e n t o i n m a r m o ) - T o r i n o ,

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F. L a d a t t e e A . B o u c h e r o n , 1 7 5 0 - T a b e r n a c o l o d e l S a c r o P i l o n e ( b r o n z o e

V i c o f o r t e - S a n t u a r i o . (Foto A rch. Museo Civico, Torino). a r g e n t o d o r a t o ) 1750

-settatore. L'impianto può anche richiamare ad una ritrattistica regale in voga a Parigi, per mano particolarmente di Jean Bapti.ste Lemoyne il giovane, ma se qualcosa qui resta di uno schema, ne è superato l'atteggia-mento stilistico, più pittorico in Lemoyne pur se con valori di segno acuti e incisivi, a favore d'un plasticismo più liscio e

compatto (ad esempio i piani lucenti della corazza e il risvolto con i nodi di Savoia) e d'una organizzazione del busto più cali-brata anche nei riguardi della fissazione di carattere, balzante immediato e impavido in Le-moyne, più riflessivo e statico in Ladatte. Rilevante la model-lazione elaboratissima del volto. Squisito il basamento

barocchet-to-classicistico che da un lato inclina verso passate delizie bou-cheriane, dall'altro è in parentela con elementi decorativi di prece-denti opere collimane giovanili, come la base inghirlandata della « Vestale ».

Nel 1772 Ladatte riceve il saldo per « uno ostensorio a rag-gio ed altro fatto e provisto per la Beai Chiesa di Superga » (sottratto durante l'occupazione francese); nel 1777 poi, con un primo quinto del prezzo stabilito di lire 5000, per una « custodia di penduta di bronzo dorato isto-riata, rappresentante la Verità scoperta dal Tempo, collocata nel gabinetto d'udienza di Sua. Maestà », opera tuttora esistente e datata 1775; e in tutti questi anni avevano fatto seguito og-getti vari come caffettiere, piatti, vassoi, posate, crocifissi, acqua-santiere, candelieri, vasi da fiori, cornici, alari, ornati per camini.

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per il suo gusto. Circa il pendolo del '75 è da discutere il soggetto raffigurato. Il documento espli-citamente parla di « Verità sco-perta dal Tempo »; in realtà, la raffigurazione come si presenta va, al di là del tema richiesto al Ladatte. Poiché l'identifica-zione del pezzo è indiscutibile, conviene pensare che l'artista si sia comportato con estrema li-bertà poiché le figure non espri-mono esattamente il soggetto asse-gnato. Il « Tempo » in alto, ap-pare del tutto indipendente dalla figura femminile campeggiante in basso, vestita come mai nes-suna « Verità » apparve, reg-gente per di più l'attributo di un disco raggiante e antropomor-fìzzato, presentandosi piuttosto come una « Fama » o equivalente allegoria; e attorno ad essa, i trofei d'armi e bandiere e il pic-colo guerriero con la spada bran-dita. ribadiscono un significato allusivo ad una « gloria mili-tare », fulgente e irruente, sotto il segno inesorabile del « Tempo ».

Dal punto di vista tecnico la « pendulla » del Tempo è forse l'opera più virtuosistica e d'ef-fetto del cesellatore ma non con la grazia squisita e lo spontaneo equilibrio fra forma e forma e tra pieni e vuoti, quali Ladatte dimostrava in precedenza, ad esempio in capolavori come i bronzi montati negli stipi di Piffetti (1732-1734) a palazzo reale, nel Gabinetto di toeletta della regina, o già assai più tardi nei putti e nei motivi de-corativi di fiori, trofei e « rocail-les » al Tabernacolo del Sacro Pilone al Santuario di Vico-forte (1750). Sulla cassa del pendolo la figurazione allegorica è fittissima e perfino carica, d'estrema eleganza componendo un « décor » sontuoso di grande parata: un pezzo da salotti di Versailles d'un buon trentennio prima; ciò che fa dire al Fleming che, al 1775, nella Parigi di Louis XVI esso sarebbe apparso « vieux-jeu », ciò che non ne smi-nuisce la qualità superba di

cesello, la magistrale distribu-zione delle parti in cui il con-trasto un po' troppo forte tra le luci sulle emergenze plastiche calcate e le ombre improvvisa-mente ritagliate, lascia brillare una esuberanza e una preziosità degne d'un Caffieri.

Al pendolo col « Tempo » è da connettere il bellissimo calamaio in bronzo col « Tempo » della collezione Fila di Biella, che

rientra nel gruppo delle presta-zioni tarde. Grandioso nell'im-pianto e negli elementi singoli, porta sul vassoio, incorniciato da vigorose « rocailles » i due vasetti portainchiost.ro e porta-polvere in cui si ripropone la tipica compiacenza per l'acco-stamento di liscie lucentissime modanature e carnosi sviluppi di ornati, in questo caso fogliami e scaglie. Sul vassoio è semidisteso

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F r a n c e s c o L a d a t t e - A n g e l o p o r t a t o r c i a ( b r o n z o ) - T o r i n o , C h i e s a d e l C a r m i n e .

(Foto Arch. M u s e o Civico, Torino).

il « Tempo », di impeccabile ce-sello. Il nesso col pendolo del '75 è scoperto; tuttavia il calamaio potrebbe porsi qualche poco in antecedenza, nel corso del quin-quennio e più vicino al '70.

Nel 1778 Ladatte fu nomi-nato professore alla Reale Acca-demia di pittura e scultura al-lora fondata in Torino ma dal-l'80 la sua salute era sempre più precaria; aveva rinnovato

il testamento nel 1777, riveden-dolo nell'80 e lasciando poi, con codicillo dell' 84, erede univer-sale la figlia Rosalia sposata al pittore Vittorio Amedeo Cigna-roli; ciò spiega il trovarsi, più tardi, cose del Ladatte in pro-prietà della famiglia Cignaroli. Ladatte mori, dopo anni d'inat-tività, il 18 gennaio 1787.

Il Nepote nel suo poemetto -— ed egli era contemporaneo e amico dello scultore — assegnò al maestro il grujjpo in carta-pesta dipinta della Risurrezione di Cristo alla Basilica Mauri-ziana. Obiezioni possono essere sollevate: non risulta che il La-datte mai trattasse quel mate-riale, né che dedicasse la sua attenzione a tal tipo di scultura devozionale, processionale, tea-tralmente popolare. Né i perso-naggi del veramente notevole gruppo rispecchiano tipi stretta-mente ladattiani, sembra piut-tosto ravvisare un timbro alla, Plura. E tuttavia osserveremo che i gruppi figurati devozionali del Plura non ebbero mai, né quella grandiosità d'impianto né quella complessità di relazioni interne, né quel balzante dinamismo. Il panneggiato stesso è qui più libero e organico di quanto non sia di solito nel Plura. D'altron-de, poiché V asserzione del Ne-pote risale ad anni di attività ancor vitalissima e lucida del Ladatte che avrebbe potuto con-trobatterla se inesatta e poiché le figure del gruppo dimostrano

una energia e una tensione al di là delle invenzioni del Plura e possono riflettere una sensibilità di scultore in metallo, ci chie-diamo se fu possibile che il Plura, esperto in gruppi devoti e pate-tici da processione, abbia qui eseguito su disegno di Ladatte che fu spesso, in Torino, so-printendente alle esecuzioni di « macchine » per manifestazioni ufficiali. Ma ciò implicherebbe un disegno ladattiano anteriore al '37, anno di morte del Plura e quindi in tempo di assenza di Ladatte. Forse piuttosto il suo disegno fu assai più tardo, affi-dato per l'esecuzione ad un buon plasticatore di cerchia del Plura? La « Risurrezione » rientrava in una serie di cinque gruppi in cartapesta (unico superstite) già conservati alla Basilica Mauri-ziana, ove un misero dipinto anonimo trasmette la testimo-nianza delle processioni con i cinque gruppi portati su carri.

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La regione franco-italiana delle Alpi

Giovanni M. Vitelli

1. Delimitazione geografica.

Definiamo come regione franco-italiana delle Alpi quella comprendente le seguenti circo-scrizioni:

— -parte italiana: Valle d'Aosta, provincia

di Torino, provincia di Cuneo, provincia d'Im-peria e provincia di Savona;

— ;parte francese: i dipartimenti dell'Alta

Savoia, Savoia, Isère, Alte Alpi, Basse Alpi, Alpi Marittime e Var.

Abbiamo inserito anche la provincia di Savona, perché in essa, esattamente dal Colle di Cadibona, inizia convenzionalmente l'arco alpino italiano, e il dij^artimento della Var, uniformandoci ai criteri seguiti dall'Istituto di geografia alpina di Grenoble.

In tutto una fascia di territorio di circa 60 mila km2, stendentesi dalla Svizzera al Mediterraneo lungo la catena delle Alpi Occi-dentali. Una popolazione complessiva di oltre 0 milioni di abitanti; un'economia varia e dinamica; numerosi i problemi.

2. Caratteri strutturali del versante italiano.

La porzione di territorio italiano, delimitata come sopra, copre una superficie globale di

19.700 km2. La popolazione raggiunge attual-mente i 3 milioni e 300 mila abitanti, ossia il 6% circa del totale italiano. Rispetto al cen-simento del 1961 ha registrato un incremento del 14%, notevolmente superiore a quello, pari al 6%, riscontratosi per l'Italia intera. Lo sviluppo demografico deve attribuirsi in gran parte ai flussi immigratori provenienti dalle altre regioni italiane, specie da quelle meridionali. Pressoché irrilevanti sono invece 1 movimenti migratori verso e dalla Francia.

La popolazione attiva risultava, all'epoca dell'ultimo censimento, pari a 1 milione e 270 mila unità, cosi suddivise: il 20% nell'agri-coltura, il 50% nell'industria e il 30% nelle attività terziarie. La struttura economica è quindi caratterizzata dal settore industriale anche se quello terziario è largamente rappre-sentato e il peso dell'agricoltura non possa

dirsi trascurabile. Ciò trova convalida nelle valutazioni del Tagliacarne sul reddito prodotto che, nel 1967, si è aggirato per l'intera regione intorno ai 2.800 miliardi di lire ed è stato for-nito per 1,8% dall'agricoltura, per il 60% dall'industria e per il 32% dai servizi.

L'industria è presente soprattutto in Valle d'Aosta e nella provincia di Torino, che devono entrambe a questa attività il 60% circa del loro reddito. Le produzioni più rilevanti sono quelle metallurgiche, dell'energia elettrica e delle fibre tessili artificiali in Valle d'Aosta; di autoveicoli, di macchine per scrivere, di cuscinetti a rotolamento, di elettromeccanica, di attrezzature meccaniche in genere, di gomma e di materie plastiche in provincia di Torino. La conurbazione torinese, col suo potente appa-rato produttivo, rappresenta uno dei maggiori e più sviluppati poli economici d'Italia, costi-tuendo insieme a Milano e Genova il cosiddetto « triangolo industriale ».

Anche in provincia di Savona l'industria gioca un ruolo fondamentale, contribuendo col

o 7

42% alla formazione del reddito. Quelli della meccanica e della chimica sono i settori di maggior rilievo.

Se lo sviluppo dell'industria è stato pode-roso, l'agricoltura è venuta sempre più decli-nando: basti pensare che, a causa dei noti fenomeni di esodo dalle campagne e dalla mon-tagna, la popolazione attiva dedita alle attività agricole è passata dal 30 % al 20 % tra il cen-simento del 1951 a quello del 1961 e che tale discesa prosegue tuttora. Ad ogni modo nelle province di Cuneo e di Imperia l'agricoltura riveste ancora una notevole importanza, dando un cospicuo contributo alla formazione del reddito complessivo. Nella prima predominano la viticoltura e la frutticoltura (meli, peri, peschi, nocciolo) nonché le coltivazioni orticole,

* L'Istituto di studi europei dell'Università libera di Bru-xelles ha organizzato nei giorni 27 e 28 novembre 1969 un « Colloquio » su « I.es régions frontalières à l'heure du Marche Commun ».

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quelle del frumento e del granoturco ed infine l'allevamento del bestiame. Nella seconda alli-gnano le colture dell'olivo, dei fiori e degli ortaggi.

Tra le attività terziarie, anch'esse come quelle industriali in fase di sviluppo, il turismo merita particolare attenzione per lo slancio prodigioso che ha dimostrato nel corso degli ultimi quindici-venti anni e per i benefici effetti che ha saputo apportare alle economie locali. Per quanto ci riguarda, le zone turistiche di maggior rilievo sono essenzialmente tre: la Valle d'Aosta, la Valle di Susa in provincia di Torino e la fascia costiera delle province di Imperia e Savona.

3. Caratteri strutturali del versante francese.

Passiamo ora dalla parte francese. La re-gione alpina (comprendente, lo ripetiamo, i dipartimenti dell'Alta Savoia, Savoia, Isère, Alte Alpi, Basse Alpi, Alpi Marittime e Var) si estende su una superficie di 41 mila km2, il 7 % dell'intero territorio francese. La popo-lazione attuale, che si aggira attorno ai 3 mi-lioni di abitanti, presenta un accrescimento del 16% rispetto al 1962. Tale sviluppo demo-grafico, oltre il doppio di quello registrato a livello nazionale, è dovuto molto più al movi-mento migratorio che alla dinamica naturale. Il saldo della bilancia migratoria è infatti lar-gamente positivo nei confronti delle altre regioni della Francia. Le due principali agglo-merazioni urbane sono quelle di Nizza (400 mila abitanti circa) e di Grenoble (165 mila abitanti).

La popolazione attiva raggiungeva al cen-simento del 1962 la consistenza di 1 milione e 60 mila unità ed era distribuita nel modo seguente: il 17% alle attività agricole e l'83% alle attività ext.ragricole. L'apparato produt-tivo è fondato quindi prevalentemente sull'in-dustria e sui servizi, settori il cui peso tende a crescere sempre più. Va invece declinando l'im-portanza relativa dell'agricoltura col defluire della manodopera rurale verso occupazioni a reddito più elevato.

Quali sono le produzioni tipiche della re-gione ? Ci limitiamo per brevità ad elencarle, raggruppando i vari dipartimenti in due distinte aree: Alta Savoia, Savoia e Isère da un lato; Alte Alpi, Basse Alpi, Alpi Marittime e Var dall'altro.

Produzioni della prima area:

a) agricole: cereali (frumento, granoturco,

orzo, avena), f r u t t a (mele, pere, noci, fragole, ri-bes, lamponi), ortaggi, legumi, prodotti di origine animale (carne, latte, formaggio) e legname;

b) industriali: energia idroelettrica, metal-lurgia, (acciai speciali, ferroleghe, alluminio), meccanica di precisione (« decolletage », oro-logi), elettromeccanica, elettrochimica, carta, tessuti e abbigliamento;

c) servizi: qui ricordiamo soltanto il turi-smo che occupa un posto assai importante grazie alla varietà delle sue forme. Le stazioni di sports invernali (frequentate dall'80% della clientela francese dedita a questo svago e alcune delle quali di risonanza internazionale) e le località di turismo estivo sono distribuite numerose su tutto il territorio.

Produzioni della seconda area:

a) agricole: ortaggi, frutta, fiori, vino,

olio, grano, prodotti di origine animale e le-gname;

b) industriali: costruzioni navali e

aero-nautiche, macchine e motori, elettromeccanica, chimica (cloro, olii essenziali), abbigliamento; c) servizi: sono assai sviluppati (commer-cio, trasporti, credito, turismo). Il turismo è presente soprattutto lungo la Costa Azzurra, di cui è superfluo qui ricordare le famose loca-lità balneari e, secondariamente, nei centri alpini di sports invernali.

4. Sviluppo storico della regione alpina fran-co-italiana.

Le due zone di frontiere, di cui abbiamo per sommi capi delineato la struttura, presen-tano una serie di problemi che sono intimamente connessi con quello che è l'elemento comune del territorio: la montagna. Per una loro mi-gliore comprensione sembra quindi utile con-siderare, sotto un'ottica unitaria, l'economia delle Alpi occidentali nel suo processo di evo-luzione.

Si distinguono tre fasi storiche nel corso delle quali le caratteristiche economiche e sociali dell'ambiente montano sono venute pro-fondamente modificandosi. Esse si sono susse-guite, con connotati analoghi, in t u t t o l'arco alpino, ma hanno assunto particolare nettezza e incisività nel settore delle Alpi occidentali.

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disponibili sul posto (metalli, lana, cuoio, ecc.). Sommaria l'organizzazione urbana.

Durante la seconda fase, (dalla metà del X I X secolo alla seconda guerra mondiale) la costruzione delle strade ferrate da un lato e l'impiego dell'energia idroelettrica dall'altro rompono l'antico equilibrio e l'economia alpina entra in crisi. Prende l'avvio un esodo impo-nente di popolazione rurale d'alta e media montagna verso le grandi vallate che, grazie allo sfruttamento dell'energia elettrica, vanno industrializzandosi e urbanizzandosi. L'emigra-zione massiccia provoca oltre allo spopolamento montano altri fenomeni di declino demografico, quali l'invecchiamento della popolazione e il mutamento della composizione per sesso (più femmine che maschi). Nello stesso tempo l'av-vento della ferrovia inserisce il chiuso mondo alpino in un'economia di più ampio respiro: la vecchia agricoltura e l'industria artigianale non reggono alla concorrenza dei prodotti della pianura ottenuti con tecniche più moderne e razionali.

Nella terza fase, che giunge fino ai nostri giorni, si assiste ad un prodigioso sviluppo delle comunicazioni stradali della circolazione automobilistica e del turismo, sviluppo che conduce ad una ristrutturazione di t u t t a l'eco-nomia alpina. Ai precedenti movimenti unila-terali (dall'alto verso il basso) della popola-zione se ne sostituiscono altri più complessi. Mentre prosegue l'emigrazione dalle zone pre-valentemente rurali si instaura un movimento migratorio dalla pianura alle località turistiche di alta quota e alle nuove città industriali delle valli. La risultante è che in molti casi la popolazione delle regioni alpine aumenta, spesso a ritmo intenso. L'industria stessa si trasforma, orientandosi verso la fabbricazione di prodotti di qualità e di pregio.

5. L'agricoltura.

Dopo questa breve escursione retrospettiva vediamo ora quali problemi ed esigenze carat-terizzano al momento attuale l'area di fron-tiera franco-italiana. Le prospettive di sviluppo dell'agricoltura, nelle zone montane ove l'espan-sione turistica non ha determinato l'insorgere di insediamenti urbani sufficientemente ampi da trattenere la popolazione, sembrano piut-tosto limitate. L'eccessiva frammentazione della proprietà e la pendenza dei declivi rendono difficile l'impiego della meccanizzazione; certe colture al di sopra di una data altitudine non possono allignare, l'allevamento del bestiame, dove non sia praticato con criteri moderni, è in declino. È assurdo pensare che l'agricoltura delle regioni alpine possa orientarsi, come nel

passato, verso forme di concorrenza con quella della pianura. Essa deve specializzarsi in una produzione tipica, di alta qualità: frutta e or-taggi nei luoghi in cui la natura del terreno sia favorevole a queste colture, pascolo dove tale sia la vocazione naturale del territorio, e quindi prodotti zootecnici selezionati, bosco altrove.

Molte zone delle Alpi occidentali, sia sul versante italiano che su quello francese, si sono indirizzate verso un'economia rurale organiz-zata razionalmente. In altre resiste pervicace un'agricoltura basata ancora sulla coltivazione dei cereali e della vite. Tuttavia, se le scelte dirette ad una ristrutturazione nel senso mo-derno ora descritto sono sempre auspicabili, da sole esse non bastano a risolvere il problema del declino del mondo rurale. È soprattutto nella ricerca di attività complementari, segna-tamente il turismo, che risiedono le possibilità di raggiungere un nuovo equilibrio.

6. L'industria.

Anche l'industria è alla ricerca di un nuovo equilibrio. La ricchezza di energia idroelettrica, fattore primo di sviluppo industriale delle val-late alpine durante il secolo scorso e nella prima metà dell'attuale, non gioca al giorno d'oggi un ruolo cosi essenziale. Da un lato infatti l'energia idroelettrica tende ad essere esportata sempre più fuori della catena alpina; dall'altro la grande industria fa ricorso via via in misura maggiore a fonti di energia meno costosa e prodotta in regioni non alpine (gas naturale, energia termica). Cosi le tradizionali attività industriali delle vallate (metallurgia, cartiere, ecc.) vanno cedendo il posto a nuove forme di avanguardia, quali l'elettromeccanica, la meccanica di precisione, le materie plastiche. Le Alpi si orientano cioè verso l'industria di qualità, i cui prodotti, poco pesanti e di valore, siano suscettibili di essere trasportati facilmente. Questa trasformazione è avvenuta e prose-gue a vantaggio delle grandi e medie agglome-razioni urbane situate nei fondo valle posti a contatto della pianura e a detrimento delle valli incassate nella montagna, che presentano sintomi di ristagno. La situazione di relativo isolamento di queste ultime trova una via di uscita nel turismo.

7. Il turismo.

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quelle invernali. I riflessi sul piano dell'econo-mia alpina sono stati altamente positivi: basti pensare che il turismo ha dimostrato di essere un valido fattore di inversione del progressivo abbassamento del potenziale demografico. Esso rappresenta in primo luogo una fonte di gua-dagni aggiuntivi per i valligiani che si traduce in un consumo qualitativamente e quantita-tivamente superiore; determina poi un incre-mento di valore dei terreni, data la presenza su di essi di attrezzature turistiche, fornisce da ultimo nuove possibilità di lavoro in attività collaterali, quali le artigianali. Occorre poten-ziare le attrezzature alberghiere e gli impianti sportivi, risolvere i numerosi problemi con-nessi alle oscillazioni stagionali dei flussi turi-stici e soprattutto sviluppare ulteriormente le comunicazioni stradali.

8. La viabilità.

Quello delle vie di comunicazione è, come ha sottolineato autorevolmente la Veyret, il problema dominarne delle Alpi. Basti conside-rare che attraverso queste ultime passano le grandi correnti di traffico che dalle aree indu-striali pili progredite del nord Europa si diri-gono verso il Mediterraneo. Ma le Alpi occi-dentali, il solo settore della catena dove due Paesi del Mercato Comune sono confinanti, si trovano in una situazione poco favorevole, data la loro posizione marginale nel contesto dell'Europa. I passaggi stradali fra l'Italia e la Francia sono sette: traforo del Monte Bianco, colle del Piccolo S. Bernardo, colle del Monce-nisio, colle del Monginevro, colle della Madda-lena, colle di Tenda, Pont St. Louis. Eccettuato quello del Monte Bianco, posto all'estremità settentrionale della frontiera dove la catena alpina inizia a curvare verso oriente, sono t u t t i passaggi di direzione est-ovest, la più parte di difficile accesso, specie nella stagione invernale. La loro direzione est-ovest riveste una portata regionale notevole, ma è di limitata rilevanza internazionale se non viene inserita nel quadro delle principali direttrici nord-sud, attraverso cui si svolge la grande circolazione europea.

L'urgenza del problema è avvertita soprat-tutto in Piemonte, dove l'esigenza di spezzare 1 isolamento determinato da un'ubicazione geo-grafica periferica è vitale per il pieno dispiegarsi delle sue forze produttive nel contesto del Mercato Comune. Per la Francia meridionale la politica delle vie di comunicazione alpine non è altrettanto determinante: essa dispone di una grande direttrice nord-sud, quella della valle del Rodano, che è destinata a collegare il complesso industriale della Ruhr col porto di Marsiglia. La Francia non può tuttavia

disconoscere gli indubbi vantaggi che, sotto forma di ulteriori impulsi all'industria, al com-mercio e al turismo, le deriverebbero da una perfetta integrazione con l'economia torinese e quindi italiana, integrazione che soltanto un adeguato sistema di comunicazioni può assicurare.

I trafori autostradali, visto il successo ripor-tato da quelli del Gran S. Bernardo e del Monte Bianco, sembrano meglio rispondere ad una soluzione ottimale del problema. Sono attual-mente in fase di progetto tre grandi opere lungo la catena delle Alpi occidentali.

— Traforo del Frejus: avrà una lunghezza

di 12,5 km e unirà Bardonecchia a Modane, realizzando il collegamento tra la pianura Padana e la Valle del Rodano lungo la diret-trice Venezia-Torino-Lione. I lavori dovrebbero iniziare nel 1970 e terminare in linea di massima entro il 1975. Riguardo alle strade di accesso al traforo, da parte degli Enti locali piemontesi si è impostato un preciso programma per la ristrutturazione integrale della viabilità fra Torino e Bardonecchia.

— Traforo del Colle della Croce: è ancora

in fase di studio. Sarà lungo 3,3 km e assicu-rerà un allacciamento rapido e facile tra il polo di Marsiglia e le aree del Piemonte e della Lombardia. È destinato a sostituire gli attuali scomodi itinerari che sono all'origine della tendenza sempre più affermata delle imprese italiane a servirsi dei porti belgi e olandesi la cui concorrenza si estende ai porti di Savona e di Genova, complementari di quello di Mar-siglia.

— Traforo del Ciriegia: anch'esso in fase

di studio, avrà una lunghezza di 12,4 km e permetterà un collegamento rapido tra Cuneo e Nizza attraverso il Colle del Mercantour, in sostituzione della strada del Colle di Tenda. Convoglierà verso la Costa Azzurra i flussi commerciali e turistici provenienti dall'Europa settentrionale, completando l'asse Germania-Svizzera-Monte Bianco-Torino. In merito a quest'opera sono sorte tuttavia divergenze tra i due governi circa i tempi di attuazione. Da parte italiana si sono comunque iniziati i lavori di sondaggio del terreno.

9. Politiche nazionali d'intervento.

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realiz-zare un'utile interdipendenza tra attività eco-nomiche, hanno nel tempo stesso lasciato in ombra larga parte del territorio alpino in cui si sono perpetuate, talora aggravandosi, situa-zioni di ristagno e di disagio. Ci riferiamo in particolare alle fasce intermedie poste tra i fondo valle, dove prosperano l'agricoltura e l'industria e le stazioni di alta montagna, inte-ressate dal fenomeno turistico. Esse sembrano incapaci di creare da sole le condizioni atte a promuovere lo sviluppo e necessitano perciò dell'intervento dei pubblici poteri.

A questo proposito constatiamo che in Italia la politica di aiuti alla montagna è più avanzata che non in Francia. Per quanto ri-guarda l'Italia, con legge 25 luglio 1952 n. 991 venne approntato un piano di finanziamenti, con scadenza 30 giugno 1962, per la concessione di mutui, sussidi ed altre agevolazioni a favore delle iniziative volte al risanamento e allo svilupjno delle zone montane: sistemazione di terreni deteriorati, rimboschimento, migliora-mento di pascoli, impianti di aziende agricole, ecc. Tali disposizioni, prorogate e parzialmente modificate con norme successive (tra cui la legge 18 agosto 1962 n. 1360 e quella 18 giugno 1968 n. 13) si sono rivelate fattore di progresso con risidtati positivi sia in rapporto alle con-crete realizzazioni che alle premesse di sviluppo stabilmente create. Attualmente è in discus-sione al Parlamento un nuovo disegno di legge con cui si vuole revisionare ed integrare le disposizioni in vigore al fine di adeguare gli interventi alla m u t a t a realtà sociale ed econo-mica della montagna. Il problema fondamentale resta comunque quello di difendere l'ambiente fisico dagli squilibri idrogeologici, allo scopo di assicurare la stabilità del suolo quale presup-posto imprescindibile allo sviluppo di ogni altra attività economica.

Sempre in tema di politica di sostegno alla montagna ricordiamo poi la legge italiana 29 luglio 1957 n. 635 che jjrevedeva particolari misure a favore delle nuove iniziative industriali intraprese nei comuni depressi e montani delle regioni centro-settentrionali. Tali misure consi-stevano nella esenzione fiscale decennale da ogni tributo sul reddito per le aziende di nuova costituzione che occupassero fino a 100 operai nei comuni depressi e fino a 500 nei comuni montani.

La legge 635, venuta a scadere, è stata sosti-tuita e modificata dalla n. 614 del 22 luglio 1966, ora in vigore. Detta legge estende le agevolazioni fiscali di cui sopra agli amplia-menti di aziende industriali già esistenti. Non si fa inoltre più riferimento all'occupazione di maestranze, ma all'investimento in impianti

fìssi che non deve superare il limite massimo di 2 miliardi di lire. Sono anche istituite facili-tazioni creditizie consistenti in mutui a medio termine al tasso agevolato del 4-4,5%.

La stessa legge prevede infine interventi finanziari a favore delle iniziative turistico-al-berghiere, nonché delle opere di sistemazione di bacini montani, bonifica, irrigazione, e tra-sformazione agraria.

In Francia manca un programma di aiuti che possa paragonarsi a quello italiano. I pro-blemi specifici della montagna vengono affron-tati nel quadro generale del miglioramento delle zone meno sviluppate del Paese, senza una legislazione elaborata ad hoc.

10. Programmi di sviluppo regionale.

Per una migliore valorizzazione delle risorse umane ed economiche delle Alpi occidentali occorre tuttavia che le politiche di sostegno in atto siano coordinate nell'ambito di piani di sviluppo regionale, che assicurino l'integrazione delle zone montane con quelle vicine più svilup-pate. Forse solo attraverso la programmazione regionale si può addivenire ad una valutazione globale delle prospettive di sviluppo e quindi alla scelta del sistema di interventi più idoneo. In Italia il Piano di sviluppo piemontese, i cui obiettivi principali sono quelli di differen-ziare maggiormente la struttura produttiva (fortemente accentrata nei settori automobili-stico e delle macchine per scrivere) e di ridurre la forza di polarizzazione industriale dell'area torinese, si propone di realizzare nei confronti della montagna il seguente programma:

a) agricoltura: elevare la produttività

me-diante una razionalizzazione delle forme pro-duttive, soprattutto con iniziative volte a valorizzare le risorse della silvicoltura e della zootecnia;

b) industria: riconvertire le aree di più antica industrializzazione dislocate lungo l'arco pedemontano (cotonifici, lanifici, siderurgia di valle, cartiere), favorendo gli investimenti in settori a più elevato rendimento, quali l'elet-tronico, la meccanica di precisione, la chi-mica, ecc.;

c) turismo: concentrare gli interventi in determinate zone suscettibili di sviluppo evi-tando un'eccessiva dispersione degli investi-menti, senza peraltro contraddire le necessità di una valorizzazione turistica di aree sufficien-temente estese attraverso la ricerca e l'utiliz-zazione di t u t t e le risorse ambientali e paesag-gistiche;

d) comunicazioni: creare, mediante

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