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Šilení di Jan Švankmajer 1. I lunatici e il Marchese

CHARENTON. MANICOMIO

6.4. Šilení di Jan Švankmajer 1. I lunatici e il Marchese

Šilení (titolo internazionale: Lunacy, Jan Švankmajer, 2005) inizia con un prologo in cui il regista – su sfondo bianco, guardando in macchina – racconta le motivazioni che stanno alla base del film:

Signore e signori, quello che state per vedere è un film horror, con tutte le degenerazioni peculiari al genere. Non è un'opera d'arte. Oggi tuttavia l'arte è tutt'altro che morta. Al suo posto ci sono delle sequenze in cui Narciso potrà riflettersi. Il nostro film può essere considerato come un tributo infantile a Edgar Allan Poe, da cui ho preso in prestito numerosi spunti, e al Marchese De Sade, cui il film deve la sua blasfemia e la sua eversività. [Il regista si interrompe per guardare una lingua che attraversa il pavimento di legno]. L'argomento del film è essenzialmente una disputa ideologica che si svolge in un ospedale psichiatrico. Fondamentalmente ci sono due modi per dirigere questo genere di posti, ognuno ugualmente estremo. Uno incoraggia la libertà assoluta, l'altro è il vecchio, collaudato metodo del controllo e della punizione. Ma ce n'è anche un terzo, che combina e esacerba gli aspetti peggiori degli altri due. E questo è il manicomio in cui viviamo oggi.

Anche in diversi dei precedenti corti e lungometraggi di Švankmajer lo spazio che precede la finzione è “la sede di un demiurgo”: “qualcuno che suona l'organo in J.S. Bach, muove le marionette de La fabbrica di bare, tira i fili dei burattini di Don Giovanni e mette al mondo i busti degli statisti in [...] La fine dello stalinismo in Boemia […]. Sorta di libertino/regista sadiano, questo demiurgo organizza i quadri a cui gli elementi della rappresentazione, i corpi della rappresentazione dovranno conformarsi” (Pitassio, 1993, p. 50). Švankmajer

adotterà nuovamente l'artificio del prologo nel successivo Surviving Life (Přežít svůj život, 2010) – in questo caso, con lo scherzoso pretesto di aumentare il minutaggio del film.

Il monologo di Šilení ha come sottofondo sonoro un proiettore che gira. Švankmajer enfatizza così il carattere introduttivo del suo intervento: un discorso da fare al pubblico in sala prima che venga chiusa la finestra e silenziata la cabina di proiezione, in attesa dell'inizio del film vero e proprio. Si tratta, inoltre, di rompere da subito ogni idea di trasparenza: il film appartiene al campo dell'illusione. È dunque opportuno che l'autore si manifesti e rifletta sul suo testo, mettendone in mostra la costruzione e persino, con ironia, “il messaggio”. Attraverso i singoli elementi della premessa Švankmajer si premura di dirci:

1) L'opera è un horror, con le sue tipiche “degenerazioni”. È difficile tuttavia accettare senza riserve questa affermazione. Il film ha componenti violente o angoscianti ma il registro dominante è indubbiamente un altro: la novella di Poe Il sistema del dott. Catrame e del prof. Piuma, da cui il film trae larga ispirazione, è infatti classificata tra i racconti del grottesco (non del terrore, né del mistero) dell'autore americano.

2) Il film non è un'opera d'arte. Švankmajer aggiunge ironicamente che l'arte non è morta, ma ormai vive solo del suo specchiarsi in se stessa. La designazione di Šilení come film di genere e la negazione della sua artisticità sembrano funzionali a un'ironica presa di distanza del regista dal suo lavoro. E allo stesso tempo servono a mitigare il (potenzialmente serioso e ingombrante) portato ideologico che viene sottolineato successivamente dal regista.

3) Il film trae ispirazione dalle opere di Poe e di Sade.

4) L'argomento della pellicola è una disputa ideologica che si svolge in un manicomio. In questa duplice precisazione è chiara sin dal prologo la volontà di apparentamento con il Marat / Sade.

5) Infine Švankmajer suggerisce che il suo film è un apologo sul mondo contemporaneo, manicomio che combina i peggiori esiti dell'anarchia con le peggiori degenerazioni della società disciplinare. Un film che parla del mondo in cui viviamo non può che degenerare in una visione orrorifica, in cui non c'è più spazio per l'arte come forma di espressione e comunicazione.

L'informazione che qui più ci interessa riguarda i debiti del film con Sade. Già nel precedente I cospiratori del piacere (1996) – film dedicato nella sua interezza al desiderio, alla privata ricerca di soddisfazione sessuale, allo scatenamento e all'avvitamento del principio di piacere – Švankmajer mostrava nei titoli di testa le illustrazioni di Justine e nominava esplicitamente nei titoli di coda Sade come “consulente tecnico”. In riferimento a questa pellicola, davanti alla domanda esplicita di Peter Hames (2008, p. 129) che gli chiedeva se il film poteva essere descritto come un lavoro sadiano, il regista ceco aveva risposto:

È un film sulla libertà. Come sappiamo, il principio di piacere di Freud, al quale sono soggetti tutti i personaggi del film, è generalmente considerato un sinonimo di libertà. Il film comunque potrebbe essere descritto come sadiano, non tanto perché la relazione tra i due protagonisti […] è sado-masochista, ma piuttosto perché tutti i personaggi realizzano i loro desideri, fremono per la “libertà assoluta”, senza considerare il principio di realtà, senza considerare gli sforzi personali, gli ostacoli, la sofferenza. La libertà, secondo la visione di Sade, prende sempre questa forma assoluta.

Il riferimento al “cospiratore del piacere” Sade si giustifica quindi con il fatto che egli rappresenta l'incarnazione simbolica di un godimento senza limiti, che gioca contro gli stessi interessi dell'individuo. Nell'intervista Švankmajer richiama anche la grande influenza della figura di Sade sul movimento surrealista – incluso quello ceco.

In Šilení i riferimenti a Sade si spingono oltre, in una duplice direzione: lo ritroviamo sia come personaggio diegetico, “il Marchese”, co-protagonista della pellicola, sia come ispiratore di interi brani della sceneggiatura. Il copione attinge in particolare all'opera letteraria di Sade per alcuni monologhi a sfondo blasfemo33. A questo proposito Švankmajer dichiara (in Hames, 2008, pp. 135, 138):

La figura del Marchese era contenuta già nella prima versione della storia, ma la decisione di usare citazioni dai suoi lavori è stata presa solo negli anni Novanta, quando si sono iniziati a pubblicare [in Repubblica Ceca, NdR] i testi di Sade sull'ateismo. Considero in 33 Tratti da un'antologia di testi sadiani in lingua ceca citata nei titoli di coda: D.A.F. De Sade,

Rozhovor kněze a umírajícího a další ateistické texty, a cura di Dagmar Steinová e Aleš Pech,

particolare la sua Filosofia nel boudoir […] uno dei testi più sovversivi mai scritti. […] La blasfemia ispirata da Sade mi sembra fondamentale proprio perché è basata su argomentazioni razionali.

Nel film il Marchese possiede i tratti biografici e le contraddizioni del personaggio storico di Sade. La costruzione del suo profilo è inoltre almeno in parte debitrice del Sade di Weiss/Brook, in particolare per il ruolo di metteur en scène che il Marchese svolge all'interno della casa psichiatrica e per lo specifico trattamento del tema della Rivoluzione francese, anche se l'azione sembra collocata in epoca contemporanea34.

Dopo il prologo, il film si apre sull'immagine dello squartamento di un maiale da cui escono le interiora. La carne è animata attraverso la tecnica dello stop-motion di cui Švankmajer è maestro35. Tutto il film sarà inframezzato da brevi siparietti – sorta di balletti accompagnati da un leit-motiv suonato alla pianola meccanica – in cui i movimenti della carne fungono da commenti analogici all'azione dei personaggi: delle lingue si gettano su un tavolo e bevono dei resti di birra; da un crocifisso escono dei pezzi di carne, che poi salgono sul palco di un teatrino di burattini; delle bistecche vengono incatramate e cosparse di piume... La carne, come vedremo, finirà avvolta nel cellophane e esposta al bancone di un supermercato.

La trama racconta la vicenda di un uomo, Jean Berlot, terrorizzato dall'idea di essere rinchiuso in un manicomio. In un albergo Berlot incontra il Marchese, una persona autorevole, sicura di sé e ricca, che sembra avere il potere di condizionare il prossimo. Il Marchese invita Jean nella sua villa. Durante il tragitto Jean racconta di essere di ritorno dal funerale di sua madre, morta in un istituto, l'ospedale di Charenton. L'arrivo alla casa del Marchese è corredato da qualche cliché da film horror: un temporale che scoppia, una casa isolata, la carrozza... Durante la notte Jean assiste a una messa nera nella cappella del palazzo. Questo passaggio del film sembra costituirsi come una dissertazione in stile sadiano: serve poco alla progressione narrativa ma sposta l'attenzione del film sui temi

34 O forse, come propone Dryje (2008, p. 198), il regista sceglie di non conferire al film una precisa collocazione temporale.

35 Già altre volte la carne è oggetto-attore per Švankmajer, in particolare in Carne innamorata (Zamilované maso, 1988).

dell'ateismo e della blasfemia. All'interno della chiesa, il Marchese recita un monologo di cui Švankmajer nei titoli di coda riconosce la fonte precisa: la messa nera del capitolo XIX di Là-bas di Joris Karl Huysmans.:

O Gesù, principe degli impostori, ladro dei nostri nobili piaceri, ascoltami. Tutto ciò che hai fatto da quando sei uscito dal ventre di quella vergine è stato evitare le responsabilità e infrangere le promesse. Abbiamo aspettato per secoli e tu ancora stai in silenzio. Ci hai promesso la salvezza, ma non hai ancora salvato alcuna anima. Tu, mostro, che nella tua crudeltà hai creato la vita e l'hai inflitta ad ogni anima vivente, ci hai quindi maledetti, nel nome di qualche potere sconosciuto, con il peccato originale solo al fine di punirci nel nome della tua stessa autorità. Ti chiediamo di confessare. Ammetti di averci mentito, confessa i tuoi ignobili, imperdonabili crimini. Spingeremo nuove unghie ancora più a fondo nella tua carne, cingeremo la tua fronte di spine ancora più aguzze, finché il tuo sangue agonizzante non fluisca dalle tue ferite secche.

Il Marchese pianta chiodi su un crocifisso ligneo. Sei commensali – tre uomini vestiti in bianco e tre ragazze seminude con un abito talare nero – tagliano un torta multistrato a forma di croce di uno scatologico color marrone. Mentre il Marchese dipinge croci rosse sulle donne spargendo al contempo sui loro corpi delle ostie, esplode in un nuovo, vibrante monologo ateistico: “Essere inutile, nel cui nome molto sangue è stato versato. Non sei nulla, una proiezione delle stupide speranze e delle paure dell'uomo. Esisti solo per tormentare l'umanità. Quante sofferenze ci saremmo risparmiati se avessimo strangolato l'idiota che per primo pronunciò il tuo nome”.

Si tratta di uno degli innumerevoli brani di Sade che si rivolgono a Dio in qualità di generatore di tormento e disgusto per l'umanità. Su questi passaggi insistono numerose esegesi sadiane, in particolare quelle di Pierre Klossowski (1947 [1967]), che attribuiscono a Sade un'ossessione per il divino, se non altro come obiettivo contro il quale scagliarsi: per poterlo negare, Sade ha paradossalmente bisogno di un Dio, la bestemmia reintroduce la nozione che vorrebbe sopprimere36.

36 In particolare nel capitolo “Sotto la maschera dell'ateismo” (pp. 117 e ss.) di Sade prossimo

mio, Klossowski sostiene che la nozione di “Dio” e la nozione di “prossimo” (o “altro”) sono

indispensabili alla coscienza e all'azione del libertino: “L'oltraggio da infliggere a Dio consisterebbe dunque nel cessar d'essere quell'anima che egli ha tratto dal nulla” (p. 129). Si confrontino anche i seguenti passaggi di Blanchot (1963, p. 36): “Quando, all'interno dello

Quando, il mattino successivo, Jean gli comunica di aver assistito con rabbia e disgusto al rito, il Marchese si lancia in una tipica perorazione sadiana sulla neutralità (o insensibilità) della Natura, per la quale non esiste bene e male, virtù o vizio, buona azione o crimine: “Cosa ci dà la natura? Non è forse avida, distruttiva, crudele, capricciosa e profondamente insensibile? Non diresti che ciò che fa meglio è uccidere e smembrare? Non vedi che il male è il suo elemento naturale? [...] Quello che crea, lo crea per distruggerlo. Io una madre così la ucciderei”. Si confronti al riguardo una delle più celebri dissertazioni sadiane, il monologo sulla Natura di papa Pio VI nel romanzo Juliette (vol. 2, p. 123): “Quando avrò sterminato sulla terra tutte le creature che la ricoprono, sarò ancora lontano dal mio scopo perché ti avrò servita... matrigna!... e invece non aspiro [che] a vendicarmi della tua stoltezza o della cattiveria che fai soffrire agli uomini non permettendo mai di abbandonarsi alle atroci inclinazioni che tu hai dato loro”. Il Marchese prosegue: “Ma dai ad un uomo la libertà di scelta e gli darai la tentazione. Dio, nella sua infinita saggezza, avrebbe dovuto sapere a cosa questo avrebbe portato. Lui travia la sue creature solamente per divertirsi”. Queste parole sul libero arbitrio echeggiano a loro volta il già citato Dialogo tra un prete e un moribondo (pp. 12-13, traduzione modificata):

Moribondo: – Sicché il tuo dio ha voluto far tutto di traverso, soltanto per tentare o provare la sua creatura; ma non la conosceva dunque? Non aveva certezza dunque del risultato? Prete: – La conosceva senza dubbio, ma ancora una volta voleva lasciarle il merito della scelta.

Moribondo: – A qual fine, se sapeva già il partito che avrebbe preso e se non dipendeva che da lui, poiché lo dici onnipotente, se non dipendeva che da lui, dico, di farle scegliere il bene?37

sviluppo più tranquillo, appare il nome di Dio, subito il linguaggio si mette a bollire, il tono si alza, il movimento dell'odio concatena le parole, le sconvolge”; e la secca battuta da Todo

modo di Leonardo Sciascia: “– Ma Sade era cristiano – disse don Gaetano distogliendosi dalla

contemplazione del quadro e guardandomi meravigliato: meravigliato che non lo sapessi, che nessuno fino allora me l'avesse detto” (p. 34). Tali obiezioni sembrano peraltro essere ben presenti nella mente di Sade, se possiamo leggere (in Juliette, vol 1, p. 328, traduzione

modificata) il seguente dialogo tra la protagonista del romanzo e Clairwil: “Visto che non

crediamo in Dio, cara, […] le profanazioni che desideri non sono altro che infantilismi inutili. [...] Il mio ateismo è assoluto. Perciò non credere che abbia bisogno delle bambinate che mi proponi per confermarmi in esso; le eseguirò, perché ti divertono, ma solo per passatempo, mai come cosa necessaria, sia per fortificare il mio modo di pensare, sia per convincerne gli altri”. 37 Come abbiamo visto, il Dialogo tra un prete e un moribondo è tra i testi più presenti nel

Il film entra in seguito nell'orizzonte tematico del genere horror attraverso il primo riferimento diretto alla letteratura di Edgar Allan Poe e a uno dei suoi racconti più noti, Le esequie premature38. Il Marchese, dopo questi sfoghi ateisti, sembra infatti morire di un attacco di cuore. Viene sepolto. Si scoprirà che la sua collocazione (ancora in vita) nella tomba rispondeva a una sua espressa volontà: sua madre era stata sepolta viva ed egli soffre di una “psicosi riflessa” che lo induce a entrare periodicamente in stato catalettico. Temendo di finire come la madre, mette in atto una serie di recite e allenamenti per l'uscita da una tomba in cui si trovasse eventualmente bloccato.

Il timore che il Marchese vuole esorcizzare, quello di essere sepolto vivo, si specchia nel grande terrore parallelo provato da Jean di essere a sua volta rinchiuso in un manicomio. La tomba e l'istituzione totale si fronteggiano e si equivalgono. Il Marchese consiglia a Berlot di adottare la sua stessa terapia, una “terapia preventiva”: rendere teatralmente reale l'incubo per riuscire a esorcizzarlo. Gli propone dunque di farsi internare in una casa di cura psichiatrica gestita da un caro amico del Marchese.

Jean accetterà la proposta, sottoscrivendo così una sorta di patto masochista: è il personaggio stesso ad andare in cerca del contesto che gli procurerà dolore. La “terapia preventiva” praticata dal Marchese e da Berlot – la tomba dell'uno, il manicomio dell'altro – sembra raffigurare l'incubo contemporaneo della (masochistica) società della sorveglianza, dove, andando in cerca di un fantasma di sicurezza, il soggetto sceglie di porsi volontariamente all'interno di un meccanismo di repressione (cfr. ultra, par. 10.2).

L'azione si sposta nella casa per internatidiretta dal dottor Murlloppe. Da qui in avanti il riferimento è a un altro racconto di Poe, Il sistema del dr. Catrame e del prof. Piuma. Leggendo la raffigurazione di Poe della casa che ospita il manicomio, notiamo come l'edificio letterario costruito dall'autore de Il corvo si

dei dannati (1956) e Nazarín (1959). Ricordiamo anche, per sottolineare un altro incrocio tra il

regista aragonese e Šilení, che esiste un copione di Buñuel e Jean-Claude Carrière per un adattamento di Là-bas di Huysmans. Del film, mai realizzato, è stata pubblicata la sceneggiatura (Là-bas: guíón cinematográfico de Luis Buñuel y J.-C. Carrière, basado en la

novela homónima de J.-K. Huysmans, Teruel, Instituto de Estudios Turolenses, 1993, trad. it. Là-bas / L'abisso, Ubulibri, Milano, 1994).

38 Sugli altri adattamenti di Poe a opera di Švankmajer – La casa degli Usher (Zánik domu

Usherů, 1980) e The Pendulum, The Pit and Hope (Kyvadlo, jáma a naděje, 1983) – si veda

amalgami perfettamente alle descrizioni delle remote architetture sadiane, isolate, lontane da ogni sentiero battuto:

Lasciata la strada maestra, ci mettemmo insieme per un sentiero erboso che, dopo una mezz'ora, pareva perdersi entro un fitto bosco, appiè di una montagna. Avevamo percorso già quasi un paio di miglia attraverso quell'umido bosco oscuro quando infine la casa di salute si mostrò alla nostra vista. Era un fantastico e mezzo diruto castello, che, antico e smantellato quale ci appariva, doveva essere abitabile a malapena. Il suo aspetto mi riempì di terrore, e, fermato il cavallo, ebbi quasi voglia di tornare indietro (in E.A. Poe, I racconti

del grottesco, Milano, Mondadori, 1985, p. 262).

All'interno regna il caos: galline, piume e penne volano dappertutto. Gli internati sono completamente liberi. La terapia non prevede nessun elemento di coercizione: niente camicie di forza, niente punizioni, niente elettroshock. Alcuni matti scendono con delle slitte da una scalinata; vi è una stanza dedicata all'art-therapy, dove i pazienti praticano il body painting su una volontaria.

Jean riconosce in Murlloppe uno dei partecipanti all'orgia cui aveva assistito. La sua assistente, la figlia Charlota (il nome è una possibile allusione alla Charlotte Corday del Marat / Sade), è invece colei che nel corso dello stesso rito veniva seviziata. Charlota visita nottetempo Jean, gli chiede aiuto e gli svela il segreto del manicomio (è la trovata che sta alla base de Il sistema del dr. Catrame e del prof. Piuma): i matti hanno preso possesso dell'istituto e hanno rinchiuso il vero direttore e i guardiani in cantina, cospargendoli appunto di catrame e di piume. Charlota implora Jean di trovare una soluzione per ristabilire l'ordine.

Il Marchese propone a Murloppe di mettere in scena con gli internati un tableau vivant ispirato a La libertà che guida il popolo di Delacroix. Come Sade a Charenton, dirige con movimenti da direttore d'orchestra le prove per la riproduzione del quadro. Charlota introduce intanto Jean nei sotterranei, dove si trovano, incatramati dietro le sbarre, i guardiani, i medici e il direttore Coulmiere. Il trattamento degradante da loro subito è presentato da Charlota come “un retaggio della Rivoluzione francese”, un gesto vendicativo da parte dei ceti più bassi della scala sociale. Questo atteggiamento anti-rivoluzionario rafforza l'analogia tra Charlota e Charlotte Corday.

Si assiste poi allo spettacolo messo in scena dal Marchese, presentato da un nano con un cappello alla Napoleone (una probabile allusione al banditore con cappello napoleonico del Marat / Sade), che però dimentica le battute, costringendo il Marchese a fare da suggeritore (proprio come accade ai personaggi di Weiss / Brook). Il nano recita un elogio (sadiano) della natura che ispira i nostri desideri, anche i più bizzarri, che solo gli schiocchi chiamano perversioni. Di fronte alla palese inadeguatezza recitativa del nano, il Marchese decide di sostituirlo. Il discorso diventa un elogio del crimine. “È mostruoso come manipolate le menti dei malati con pensieri del genere”, lo contesta Jean, esprimendo una posizione