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CHARENTON. MANICOMIO

6.3. Marat / Sade di Peter Brook

6.3.2. Filmare Marat / Sade

La prima inquadratura di Marat / Sade mostra l'apertura di una porta blindata di metallo. Dietro di essa si apre lo spazio del manicomio. Entrano un malato, in controluce, poi una suora e una malata, seguite da altri pazienti. L'ultimo è accompagnato da un inserviente che gli torce leggermente un braccio e lo spinge in avanti. Il paziente si gira e lancia un leggero sguardo in macchina (sarà una caratteristica di tutto il film, che rivolge continuamente allo spettatore la richiesta di un coinvolgimento diretto). Lo stacco successivo inquadra una grata, su sfondo buio. Intervengono gli accordi pesanti e dissonanti di un organo.

La grata si apre per dare accesso agli ospiti d'onore allo spazio della recita. La prima a entrare è Madame Coulmier, la moglie del direttore del manicomio, vestita di scuro, elegante, disinvolta, i capelli raccolti. È seguita dalla figlia, molto simile alla madre nel vestito e nell'aspetto, ma impaurita, incerta se entrare o no. Cerca conferma dal padre, subito dietro di lei, che la incoraggia con un sorriso. Coulmier (interpretato da Clifford Rose) ha un cappello a cilindro in testa e un elegante nastro bianco attorno al collo. Indossa una fascia tricolore. Al petto ha tre medaglie. Appena entra nello spazio teatrale si avvicina a Sade (Patrick Magee), che, seduto su una sedia, porge un cappello napoleonico a un altro internato.

15 Il deputato gollista Bertrand Flornoy, durante la seduta del 27 ottobre 1966, nel corso di un dibattito sul finanziamento alla cultura in presenza di André Malraux, interroga il ministro sul fatto che spettacoli come il Marat / Sade o Les paravents di Jean Genet (sul cui carattere anti-patriottico si concentra in verità la maggior parte delle critiche, da parte diversi deputati) trovano ospitalità presso teatri che godono di finanziamenti statali (<

http://archives.assemblee-nationale.fr/2/cri/1966-1967-ordinaire1/036.pdf >). Sulla ricezione in Francia, si confrontino anche gli articoli su Le Monde del 16 settembre 1966 e Le Nouvel

Coulmier posa una mano sulla spalla del marchese. Un'internata porge alle signore Coulmier un mazzetto di fiori di campo.

Uno squillo di tromba annuncia il monologo introduttivo del direttore di Charenton, che regge in mano un taccuino su cui segue la traccia del discorso: “We are modern, enlightened and we don't agree with locking up patients: we prefer therapy through education and especially art”16, afferma tra le altre cose. Le parole di Coulmier ricevono gli applausi del pubblico. La scena è ora pronta perché gli internati e il regista che li dirige ne prendano possesso. Il banditore cui Coulmier cede la parola pone subito la figura di Marat, cui è dedicata la rappresentazione, al centro della scena: “Marat the good or bad? The choice is hard. Let us hear Marat debating with De Sade. Two champions wrestling with each other's views. How do we judge the winner? You must choose”17. L'interpellazione allo spettatore è continua: è lui a dover giudicare se Marat è buono o cattivo.

Il film parte quindi dalla rievocazione della premessa teatrale e dall'accoglienza dello spettatore all'interno di quello spazio: Coulmier parla in macchina interpellandolo direttamente. Il suo ruolo è quello di direttore amministrativo, riferimento materiale e simbolico per l'immaginazione dei malati, i quali dovrebbero trovare rassicurazione, cura e pace nella sua autorità morale e presenza fisica all'interno di un'istituzione che ha il compito di rendere visibile l'ordine gerarchico anche dal punto di vista della conformazione architettonica18. Ma Coulmier in questa circostanza svolge anche il ruolo di mediatore tra gli attori e gli spettatori, che rimangono al riparo dietro sbarre che servono a proteggerli dalla (prevista) degenerazione dello spettacolo: quando Coulmier avanza verso la macchina da presa e quindi verso gli spettatori, la camera arretra mostrando le

16 Nella traduzione di Ippolito Pizzetti per le edizioni Einaudi: “Moderni illuminati sorretti dalla scienza / dal nostro nuovo metodo bandita è ogni violenza / le arti belle si insegnano ai malati” (p. 12).

17 Queste righe non compaiono nell'originale tedesco. Si tratta evidentemente di un'aggiunta voluta da Brook/Skelton/Mitchell per rendere più esplicito il carattere di sfida teorica e filosofica tra i due personaggi.

18 I manicomi venivano progettati in modo che la costruzione degli spazi restituisse anche visivamente la centralità del direttore del manicomio e del médicin-chef, autorità morali che vivono con gli alienati (v. Pinon, 1989, p. 34). Si riteneva che la presenza dell'autorità fosse essa stessa uno strumento disciplinare utile alla guarigione degli internati. “L'architettura del manicomio […] è sempre organizzata in modo tale che lo psichiatra possa essere virtualmente dappertutto” (Foucault, 2003, p. 171).

sbarre, senza alcuno stacco di montaggio. Anche successivamente il film lascerà spazio con regolarità a inquadrature soggettive o semisoggettive di un pubblico mostrato in penombra, in controluce, sotto forma di silhouette.

Al monologo seguono le presentazioni frontali dei personaggi di Marat (Ian Richardson), Corday (Glenda Jackson), Dupperet (amico di Corday, aristocratico, contro-rivoluzionario, interpretato da John Steiner), Roux (il prete che occupa la posizione a sinistra di Marat nello scacchiere politico rappresentato nella pièce, interpretato da Robert Lloyd).

Per ognuno dei personaggi, si assiste a una stratificazione di ruoli che ci sprofonda nell'abisso della rappresentazione: l'attrice Glenda Jackson interpreta un'internata (catatonica, soffre di sonnolenza e depressione) che a sua volta interpreta Charlotte Corday19; John Steiner interpreta un internato (maniaco sessuale) che interpreta Dupperet; e così via. Sono tre, quindi, i piani che si stratificano: tre piani di identificazione degli attori in scena – attori che interpretano un attore (alienato) che interpreta un personaggio storico; tre livelli temporali – il presente filmico (1966), quello di Charenton (1808) e quello dell'assassinio di Marat (1793); e tre piani spaziali – i Pinewood Studios dove è girato il film ricreano il bagno del manicomio adattato a teatro, sulla scena del quale viene a sua volta rievocato il bagno di casa Marat.

Sade si trova paradossalmente, in quanto regista del re-enactment, a dover svolgere un ruolo di mediazione: deve mediare tra i vincitori (Coulmier) e i vinti della rivoluzione (Marat, Roux); tra i folli e i sani (Sade partecipa della natura di entrambi); e persino tra le istanze della rappresentazione (dirige gli attori) e quelle della realtà (Coulmier gli raccomanda più volte di non superare i limiti imposti dal contesto20). Su Sade, elegantemente vestito di bianco, il film concentra la sua attenzione dopo una decina di minuti, quando viene mostrato con un libro di

19 In un'elegia di Marat affidata a Sade dalla Sezione delle Picche – pronunciata il 29 settembre 1793, a poche settimane della morte del rivoluzionario – lo scrittore raccomanda di non rappresentare l'effigie di Charlotte Corday “sotto l'emblema incantatore della bellezza. Artisti troppo creduli, rompete, sconvolgete, sfigurate i tratti di quel mostro, oppure non mostratelo ai nostri occhi indignati se non in mezzo alle Furie del Tartaro” (p. 258). Anche Brook, facendo interpretare Charlotte Corday da Glenda Jackson, infrange l'antica prescrizione del marchese. 20 Ad esempio quando ammonisce: “Monsieur De Sade / [...] / What's going to happen if right at

the start of the play / the patients are so disturbed / Please keep the production under control”; o successivamente: “Monsieur De Sade / We can't allow this / You really can't call this education / It isn't making my patients any better / they are all becoming overexcited”.

fattura lussuosa raccolto in grembo. Un movimento ascendente della macchina da presa sale su un volto che, ancora una volta, guarda dritto in macchina, con autorevolezza.

Secondo alcuni testimoni come l'attore Bob Lloyd (cit. in Hunt e Reeves, 1995, p. 94), il film rimane un “pallido riflesso” della rappresentazione teatrale. Al di là della difficoltà del paragone tra un'esperienza come quella teatrale, che coinvolge in modo diretto spettatori fisicamente presenti, e un dispositivo come il cinema, che offre uno schermo a protezione della distanza spettatoriale, Peter Brook riesce senza dubbio nel suo obiettivo di realizzare non la ripresa dello spettacolo ma un film, con un linguaggio del tutto autonomo nella costruzione dei piani (che escludono quasi del tutto i totali teatrali) e nel montaggio.

Un capitolo del libro di Peter Brook Il punto in movimento (The Shifting Point) ha per titolo “Dallo spettacolo teatrale al film”. In esso, Brook, parlando della sua carriera registica, ricostruisce con accuratezza la genesi del Marat / Sade in pellicola e ci fornisce degli importanti strumenti per l'analisi e l'interpretazione. Prima di girare il Marat / Sade, Peter Brook aveva discusso con Peter Weiss la possibilità di lavorare a un film che non riproducesse la struttura scenica della pièce ma potesse aggiungere altri elementi e muoversi anche fuori da spazi teatrali. L'intenzione era di costruire la prima sequenza su alcuni borghesi parigini che per sfuggire alla noia salgono in carrozza e vanno a vedere i matti a Charenton. Il progetto si dimostra tuttavia troppo costoso. Un produttore della United Artists offre un piccolo budget, 250.000 dollari, per trarre un film dalla pièce. Brook accetta. Per adeguarsi al budget e ai veloci tempi di produzione (il film verrà girato in diciassette giorni), occorreva rimanere il più vicini possibile alla versione scenica già allestita. Ma Brook è naturalmente consapevole della distanza che separa un film da una rappresentazione dal vivo: “cercavo di individuare un linguaggio che fosse proprio del cinema, che evitasse la noia mortale del teatro filmato e cogliesse in un modo del tutto autonomo quel tipo di atmosfera eccitante e coinvolgente dello spettacolo” (Brook, 1987, p. 171). La “spietata letteralità della fotografia”21 (p. 173) chiude alcune possibilità e al

contempo ne apre delle altre: il realismo dell'immagine conferisce al film la sua potenza e i suoi limiti.

Per raccogliere la sfida, Brook decide di coprire l'azione scenica “come fosse un match di boxe”22: tre o quattro macchina da presa girano contemporaneamente, impressionando chilometri di pellicola. Le macchine da presa avanzano e arretrano, interpreti del rapido movimento, delle illuminazioni di pensiero e dei colpi allo stomaco cui la pièce costringe il pubblico.

Tutto ciò avviene in conformità con gli elementi contenutistici del dramma, che obbligano lo spettatore allo sforzo di adattare la sua comprensione dello spettacolo ai continui aggiustamenti di ruolo dei personaggi, in particolare dalle figure dei due stessi protagonisti. Marat è un rivoluzionario tradito, un chimico fallito, un sognatore incapace di condividere il proprio sogno, un uomo che non sembra lottare per la vita ma attende la morte. Il testo di Weiss enfatizza attraverso lo strumento del coro le continue contraddizioni scatenate dal personaggio: “Abbasso Marat / Gli si vieti di parlare / Ascoltatelo Ha diritto di parlare / Buttatelo fuori / Viva Robespierre / Viva Danton” (p. 89); “Alla ghigliottina / Fuori Marat / Mentitore venduto / Evviva Marat” (p. 90); “Basta Marat / Tappategli la bocca / Che continui / Viva Marat” (p. 91); “Basta Portatelo via / Ascoltiamolo” (p. 92); “Marat dittatore / Marat nella tinozza / Gettatelo nelle fogne / Dittatore dei topi” (p. 94)... Ancora di più, Sade lascia lo spettatore costantemente indeciso su come classificarlo: malvagio o buono, carnefice o vittima, padrone di casa o internato, libero o rinchiuso, pazzo o figlio dell'età della ragione, demente o filosofo... Si può adottare il suo punto di vista o occorre invece trovarlo ripugnante?

Il cinema offre quindi a Brook la possibilità di realizzare il passaggio “dal generale al particolare” che egli cerca come qualità nei testi drammaturgici: la giustapposizione delle inquadrature, il passaggio dalla figura intera al primo piano, consentono il continuo spostamento, il “punto in movimento” di cui Brook va in cerca. Brook sceglie un'inquadratura, per poi variarla, cambiando prospettiva: se a teatro ogni spettatore ha la libertà di guardare qualsiasi punto

22 Lo spazio teatrale descrive a tutti gli effetti un ring dove Marat e Sade si esercitano in un incontro-scontro verbale che sembra assumere tuttavia i caratteri del match amichevole: i due protagonisti si affrontano come due “pensionati della storia che si scambiano tesi accademiche in un'atmosfera eterna di mutua comprensione” (Beaujour, 1965, p. 115).

della scena, al cinema questo ruolo viene svolto da un regista, il quale può scegliere di fissare uno solo dei personaggi o di adottarne lo sguardo. Brook approfitta così di quello che per lui è il sale creativo del racconto cinematografico, la duplice apertura offerta dalla soggettività e dalla soggettiva, per prendere nel film una posizione più esplicita rispetto al testo di Weiss:

Quando curai la regia del dramma di Weiss in teatro, non avevo fatto il benché minimo tentativo d'imporre il mio punto di vista sul testo; al contrario, avevo cercato di fare in modo che vi fossero più punti prospettici possibili. Di conseguenza, gli spettatori erano sempre liberi, in ogni scena e in ogni momento, di concentrare la propria attenzione sugli aspetti che li interessavano di più. Certo, avevo anch'io le mie preferenze; nel film infatti feci ciò che un regista cinematografico non può evitare e cioè far vedere quello che vedono i suoi occhi. Nel teatro, invece vi sono mille spettatori che vedono la stessa cosa con mille paia d'occhi, ma nello stesso tempo fanno parte di una visione collettiva, composita. Ecco cosa rende così diverse le due esperienze (Brook, 1987, p. 172).

Riguardo alla precedente trasposizione de Il signore delle mosche (1963) (che peraltro apre una riflessione sulla natura umana analoga a quella del Marat / Sade), Peter Brook aveva dichiarato che ciò che gli interessa del cinema, ciò che esso aggiunge a un romanzo, è l'evidenza (Kustow, 2005, p. 174). A teatro basta far dire a un personaggio all'interno di una scena spoglia “questa foresta” perché lo spettatore lavori di immaginazione e costruisca lui stesso mentalmente la foresta. L'isola de Il signore delle mosche doveva essere invece una vera isola, le palme delle vere palme... Il Marat / Sade, girato in un interno, lontano da ogni esigenza di realismo negli ambienti e nella scenografia, va in cerca di un altro tipo di evidenza, ma rimane anch'essa tale: è l'evidenza dell'immagine-affezione23 – primi piani, volti, dettagli, che a teatro rischiano di andare dispersi.

Analizziamo brevemente, a titolo di esempio, il modo in cui è girata una scena centrale del dramma, quella in cui Charlotte Corday utilizza i suoi capelli per frustare Marat nella parte centrale del film24.

23 L'immagine-affezione, collegata all'idea di primo piano e di volto, “ha per sostanza l'affetto composto dal desiderio e dallo stupore, che le dà vita” (Deleuze, 1983, p. 124).

24 Più esplicitamente di Weiss, Brook lascia percepire nell'avvicinamento tra Marat e Corday un desiderio reciproco. Se il copione prevedeva che Corday frustasse Sade con un vero flagello, qui lo strumento è sostituito da una parte del corpo dell'assassina. Sin dal testo, Sade commenta inoltre così la terza, esiziale visita di Charlotte: “And perhaps she carries a knife / to intensify

1a inquadratura (13''): Sade frontale, in mezzo busto, inginocchiato al centro della scena, con Corday che si muove alle sue spalle; 2a (4''): dettaglio dei capelli di Corday che cadono verso il basso, in controluce; 3a (13''): primo piano del volto di Sade, con Corday alle sue spalle; 4a (17''): un totale della scena, con Sade e Corday al centro e intorno gli altri abitanti di Charenton; 5a (7''): fuori fuoco, la testa di Sade emerge dal basso dell'inquadratura; 6a (13''): la mdp si sposta dietro Sade. Corday prima gli accarezza e poi gli frusta le spalle con i capelli. I lunghi capelli di Corday, muovendosi, sfiorano la mdp e sembrano sferzare lo spettatore; 7a (9''): totale. La flagellazione prosegue; 8a (2''): primo piano di Sade; 9a (<2''): inquadratura su alcuni pazienti che guardano perplessi la scena; 10a (<2''): controcampo su altri pazienti (Roux, Rossignol): Roux ha uno sguardo bramoso e partecipe, gli altri guardano con pena; 11a (7''): come la 2a; 12a (8''): primo piano di Sade; 13a (45''): totale. Termina la flagellazione. Charlotte viene condotta via dal banditore. Sade rimane al centro, inginocchiato su una griglia circolare. Recita un monologo sul tema della Rivoluzione. Mentre lo sta terminando, tutti si allontanano dalla scena in modo centrifugo. Si siedono sui bordi, presso la parete. Sade, per chiudere il suo discorso, si alza in piedi; 14a (22''):

mezzobusto di Sade; 15a (12''): dal fondo della sala buia, semisoggettiva del pubblico di

borghesi presenti a Charenton per assistere alla recita. Sade, infine, chiude il monologo con queste parole: “And when I vanish, I want all the traces of my existence to be wipe out”25; 15a (1'27''): profilo di Sade, seduto in controluce. Lungo travelling da sinistra a destra sulle figure sfocate di altri internati, fino a raggiungere il banditore, che punta con un dito Marat, il quale prende la parola per lamentarsi dell'oscurità eccessiva. Stacco. La sequenza si conclude. Segue un cambio di tono, un canto26.

La precisione con cui viene costruito visivamente il racconto si riscontra anche nell'attenzione per la composizione coloristica della scena e delle singole inquadrature, basata gran parte sulla cromia della bandiera francese, il rosso, il blu e il bianco, con una prevalenza di quest'ultimo, il colore neutro, igienico degli ospedali. Anche i costumi di Gunilla Palmstierna-Weiss svolgono una funzione

the love play”. Nel film, nel momento della sua morte, inoltre, Marat guida la mano incerta di Corday, diventando così complice del proprio omicidio, che diventa un gesto sadico-bataillano, con riferimento all'“unità degli opposti” – morte e piccola morte, agonia e orgasmo – esaltata ne Le lacrime di Eros (Bataille, 1961).

25 L'allusione è qui al già citato testamento del marchese: “...le tracce della mia tomba spariscano dalla superficie della terra, così come mi auguro che la mia memoria si cancellerà dallo spirito degli uomini” (cit. in Lely, 1982, p. 667).

26 Durante la flagellazione, prima che Charlotte esca di scena, assistiamo in totale a 13 inquadrature per una sequenza che dura 109 secondi. Si percepisce anche in base a questo semplice dato la precisa volontà di Brook di “fare cinema”, di tenersi lontano dalla “noia mortale del teatro filmato”.

importante, in rappresentanza del ruolo simbolico che gli abiti svolgevano ai tempi della Rivoluzione, quando vennero investiti di significati politici27. I rivoluzionari che compongono il coro vestono divise da sanculotti28: berretto frigio rosso, gilet, camicia bianca, coccarda e altri richiami tricolori. Viene quindi messo in scena – come a teatro – un gioco costumistico e scenografico sui simboli della rivoluzione francese, con i pazzi di Charenton che manifestano un'indole radicale anche attraverso l'abbigliamento, anche se la loro può essere una compiuta e responsabile scelta politica: i quattro cantori che rappresentano il Quarto Stato sono infatti truccati da clown – il cerone bianco, la bocca rossa, dei tratti di colore attorno agli occhi.

Le immagini della rivoluzione – la coccarda al petto, le bandiere tricolori tutto intorno – costituiscono allo stesso tempo il contesto in cui agisce orgogliosamente il direttore Coulmier, per il quale quel traguardo è raggiunto. Per lui, la Rivoluzione è realizzata, l'utopia è adesso: occorre governare il cambiamento già raggiunto, senza andare in cerca di un pericoloso salto ulteriore. Coulmier non difende il vecchio ordine ma il suo inserimento nel nuovo. Vincitore di una rivoluzione, parla da rappresentante della nuova classe dirigente. La storia l'ha eletto al comando. Di fronte a lui, tutti gli altri personaggi presenti in scena sentono invece che la rivoluzione è incompiuta. Imbeccati dalla regia di Sade, i pazzi di Charenton arrivano presto a chiedere a Marat di concretizzare il suo sforzo politico, di portare a termine la rivoluzione intrapresa.

Per molti versi le richieste sconnesse gridate dagli internati richiamano il principale manifesto “politico” di Sade contenuto ne La filosofia nel boudoir: Francesi, ancora uno sforzo per essere veramente repubblicani. Nel pamphlet Sade esercita un tentativo di tradurre la sua visione del mondo, la sua utopia del male in una proposta politica. Il Marat / Sade sembra raccogliere la sfida di tale

27 “Le forme rituali avevano la stessa importanza del contenuto politico specifico. I simboli e i rituali politici non erano metafore del potere; erano gli strumenti e i fini del potere. […] La passione dei rivoluzionari per l'allegorico, il teatrale, lo stilizzato, non era semplicemente un'aberrazione bizzarra, ma anzi un aspetto essenziale dello sforzo di plasmare uomini liberi” (Hunt, 1984, p. 59, 60).

28 “Il sanculotto si riconosce a prima vista per l'abito che veste e per i modi che ostenta. Non