SILLING. IL CASTELLO
4.1. Una macchina ottica: il castello sadiano
Accanita. È l'aggettivo attribuito da Roland Barthes (1971, p. 6) alla chiusura degli spazi nei romanzi di Sade. Tale chiusura accanita è naturalmente funzionale all'esigenza di isolare i libertini: la loro lussuria va protetta dagli interventi della Legge o della Morale, da ogni eventuale spedizione punitiva mossa o comandata in loro nome. Oltre a tale funzione, che risponde a un interesse eminentemente pratico, l'isolamento dello spazio sadiano serve però anche a stabilire “una qualità di esistenza, una voluttà di essere” (ibid.). La chiusura non costituisce un semplice rifugio. Essa contribuisce a definire la forma filosofica delle parole e della azioni che si svolgeranno al suo interno: “è la chiusura a permettere il sistema, vale a dire l'immaginazione” (p. 7).
È specialmente il castello, per eccellenza edificio chiuso, remoto, inattaccabile, a permettere alla comunità libertina di stanziarsi al suo interno stabilendo regole proprie, che danno forma a un'incontestabile autarchia sociale. Simbolo nobiliare per eccellenza, detentore dei segni del potere militare (in quanto sistema di difesa), politico (designa uno stato di eccezione) e economico (sfarzo, lusso), “il castello designa a un tempo la classe d'elezione dei libertini così come i loro diritti, privilegi e pretese” (Hénaff, 1978, p. 167).
Con i suoi passaggi, nicchie, pertugi, il castello fornisce al singolo libertino il modo per allontanarsi da ogni sguardo anche complice, concedendogli una
completa e irreversibile intimità con l'oggetto della sua passione. La segreta sadiana “è solo la forma teatrale della solitudine” (Barthes, 1971, p. 7).
Topos della letteratura gotica, luogo comune dove si concentrano convenzioni, aspettative e misteri, il castello assume una valenza centrale in relazione alla figura di Sade, alle sue opere e alla sua biografia. La vita di Sade può essere descritta attraverso un elenco di castelli. Dei castelli-fortezza destinati a rinchiuderlo (tra le quali Vincennes, Miolans, la Bastiglia) parleremo nel capitolo dedicato allo spazio della prigione. Ci interessa qui richiamare solamente il castello di famiglia nel villaggio di La Coste in Vaucluse. In particolare dal gennaio 1774 al gennaio 1777 il castello di La Coste sarò la sede principale dell'organizzazione delle attività erotiche del Marchese. Posto in cima a una collina, sopra un piccolo villaggio scosceso, il castello dei De Sade, diversamente dai rifugi romanzeschi, si rivelerà incapace di proteggere Sade e la sue passioni dalle obiezioni provenienti dal mondo esterno. Gli abitanti di La Coste avranno più volte modo di protestare contro i comportamenti di Sade: i genitori di alcune ragazze coinvolte nei violenti giochi del Marchese busseranno prima alle porte del castello e poi a quelle della giustizia1. Il dato può gettare luce sull'ossessione e la precisione con cui il Sade scrittore esprime la volontà di sigillare i suoi spazi romanzeschi: nel corso della sua vita non riuscirà mai trovare un luogo la cui protezione sia all'altezza di uno scandalo tale da oltrepassare anche le mura più imponenti2.
Al di là dell'elemento biografico, la presenza di castelli all'interno di romanzi tardo-settecenteschi risponde al cliché creatosi con l'enorme diffusione europea della letteratura gotica, che nasce convenzionalmente proprio con l'invenzione di una fortezza, il Castello d'Otranto (1764) dello scrittore inglese Horace Walpole. Teatro “dell'incertezza stessa della luce” (Le Brun, 1982, p. 92), il castello si afferma come luogo centrale in un genere che ama ambientare le sue avventure in un medioevo di maniera. Al pari del luogo in cui gli eventi trovano spazio, la
1 I due scandali vengono denominati “affaire des petites filles” (1775) e “affaire Trillet” (1776) (v. Lely, 1982, pp. 217-250).
2 È interessante a questo proposito prendere atto di una nota stesa da Sade nel corso del suo viaggio in Italia. In commento a una visita alle catacombe della chiesa di San Lorenzo a Roma, Sade scrive: “Questi impenetrabili sotterranei sarebbero custodi sicuri del delitto, se i monaci del convento costruito qui sopra avessero qualche interesse a delinquere” (Viaggio in Italia, p. 183).
letteratura gotica, nata nell'età in cui si sviluppa il pensiero illuminista, viene interpretata come un rifugio, un ricovero artistico e psicologico ove riparano le forze dell'oscurità che non ne sopportano la luce. Allo stesso tempo, concentrando la struttura romanzesca, facilita allo scrittore il lavoro di mantenimento delle tre unità di tempo, spazio e azione.
Tra i tanti castelli vissuti o attraversati dai personaggi dei romanzi di Sade spicca il “modello del luogo sadiano” (Barthes, 1971, p. 5), ovvero il castello di Silling che ospita le 120 giornate di Sodoma. Se costruzioni isolate e castelli sono sparsi su tutta la superficie dei romanzi di Sade, il castello delle 120 giornate si erge infatti come un monumento anche simbolico, capace da solo di evocare gli spettri di uno spazio centripeto che spinge i suoi abitanti, vittime o carnefici, a un'obbligata, totale adesione ad esso3.
3 Riportiamo in nota alcuni stralci della lunga descrizione del castello di Silling che compare nel romanzo (pp. 83-85, traduzione leggermente modificata): “Ma è ormai giunto il momento di descrivere al lettore il famoso tempio destinato agli infiniti sacrifici alla lussuria, durante quei quattro mesi stabiliti. Capirà con quale cura fosse stato scelto un luogo isolato e solitario, come se il silenzio, la lontananza e la quiete fossero potenti stimoli per il libertinaggio e come se tutto ciò che ispira, grazie a tali caratteristiche, un sentimento di terrore religioso che coinvolge i sensi, possa offrire alla lussuria un'attrattiva più grande. […] Per raggiungerlo bisognava arrivare prima a Basilea, e lì attraversare il Reno […]. Ci si inoltrava, subito dopo, nella Foresta Nera e si percorrevano circa quindici leghe di una strada impervia, tortuosa ed assolutamente impraticabile senza una guida, per giungere infine a un sinistro gruppo di case abitate da carbonai e guardiacaccia. […] Essendo gli abitanti nella quasi totalità tutti ladri e contrabbandieri, era stato facile per Durcet [il proprietario del castello, uno dei quattro signori protagonisti degli eventi, NdR] procurarsi la loro complicità. Il primo ordine che impartì fu d'impedire a chiunque l'accesso al castello dopo il primo novembre, giorno in cui l'intera compagnia sarebbe stata qui riunita. […] La descrizione che segue mostrerà […] quanto fosse difficile, una volta bloccato questo accesso, raggiungere Silling […]. Superata la carbonaia, si doveva affrontare la scalata di una montagna alta quasi quanto il San Bernardo, e però molto più impervia […]. È vero che i muli potevano scalarla, ma i precipizi che si aprivano da una parte e dall'altra del sentiero, rendevano estremamente pericoloso il cavalcarli. […] Occorrevano cinque lunghe ore per raggiungere la vetta […]. Senza l'aiuto di artifici umani, sarebbe stato impossibile ridiscenderne una volta saliti. Durcet aveva congiunto i bordi che si aprivano sopra un abisso profondo più di mille piedi, con un bellissimo ponte in legno che venne distrutto dopo il passaggio del gruppo; da quel momento divenne impossibile ogni comunicazione con il castello di Silling. Scendendo il versante settentrionale, si arriva ad un pianoro […] circondato da ogni lato da rocce a picco le cui cime s'innalzano sino al cielo, rocce che formano attorno alla la pianura come un paravento, non lasciando fra l'una e l'altra il minimo spazio. Questo passaggio, chiamato sentiero del ponte, è quindi l'unico da cui si può scendere e raggiungere il pianoro: una volta distrutto, è impossibile per qualsiasi creatura della terra […] raggiungere quella località. Al centro del pianoro così perfettamente protetto e difeso, s'innalza il castello di Durcet. Un muro alto trenta piedi lo circonda e dietro questo un fossato molto profondo e colmo d'acqua difende una nuova muraglia di cinta che forma una galleria circolare; qui si apre una postierla bassa e stretta che si affaccia su un vasto cortile interno attorno a cui si trovano gli alloggi”. In controtendenza rispetto alle raffigurazioni prevalenti, Vidler (1987, p. 303) invita significativamente a immaginare Silling non come un castello medioevale ma come una costruzione razionalista simile a un falansterio.
Silling raccoglie tutto l'accanimento di chiusura e la “volontà di scarto” (Le Brun, 1986, p. 374), di smarcamento rispetto alla sfera pubblica e all'opinione comune, caratteristici dei luoghi sadiani. Il suo raggiungimento mette in scena con insistenza una serie di abbandoni della realtà storica, della realtà sociale, della realtà umana e infine della realtà tout court. Il castello diviene il regno dell'irrealtà. All'interno delle sue mura l'immaginazione più estrema può rimbombare libera.
Si assiste in questo modo, come sostiene Le Brun (1982, p. 56), alla sovrimpressione di un'esistenza e di un'architettura, di un pensiero e di uno spazio. L'ossessiva ricerca dello scarto spaziale riproduce la volontà di deviazione dalla norma tipica della riflessione di Sade sulla ricerca del piacere, che risponde a un progressivo e personale percorso di allontanamento da ciò che è comune o ritenuto normale.
Ma la radicale separazione consentita dal castello, oltre che spaziale e simbolica, è anche temporale. All'interno delle 120 giornate di Sodoma, la Passione 31 (v. Le Brun, 1986, p. 442) delle “passioni di terza classe o criminali” rivela in modo particolarmente franco questo senso di schiacciamento temporale: “31. Fotte una capra stando a tergo, mentre lo fustigano. Fa fare un figlio alla capra, che pure incula, benché sia un mostro” (p. 289). Questa estrema sintesi di bestialità, algolagnia, teratofilia e incesto, di corpo violato e corpo deforme, fa cozzare un presente e un futuro che diventano simultanei. La rapidità di Sade corrisponde alla velocità stessa di propagazione dell'immagine. Tale sintesi può essere interpretata sia come il frutto di un'accelerazione, di un flash-forward, sia come il prodotto di un congelamento, in seguito al quale l'unico tempo verbale possibile è un presente indicativo che comprime gli eventi – il passato, il presente, il futuro. Il castello sadiano è dunque anche un luogo dove il tempo si ripiega su se stesso: il mondo sadiano “è come una striscia di Möbius” (Airaksinen, 1995, p. 2). Tra gli infiniti tipi di perversione che esso ospita c'è anche quella cronologica.
Come nota Hénaff (1978, p. 143), “ogni dispositivo di soddisfazione libertino è principalmente un dispositivo di riduzione del ritardo temporale che separa il desiderio dalla sua esecuzione”. I mezzi per cancellare questo délai sono la riserva, che permette di accedere in permanenza a molti corpi; la nudità, che
consente di avere immediatamente a disposizione tutto il corpo; e l'onnissessualità, attraverso la quale accedere senza divieti a tutti i corpi, senza barriere che fermino davanti a incesto, bisessualità, bestialità... Molti corpi, tutto il corpo, tutti i corpi: spazio e tempo sono polverizzati dalla violenza.
Alla compressione spaziale e allo schiacciamento temporale si aggiunge un'ulteriore componente: la purificazione di ogni contenuto che proviene dall'esterno del castello. Lo si nota in particolare nella forma che prendono i racconti delle narratrici che occupano gran parte del romanzo, quando le quattro attrici – Madame Duclos, Madame Champville, la Martaine, la Desgranges – vanno a pescare nella loro esperienza e memoria le avventure erotiche più vivaci ed estreme. Di fronte a queste testimonianze l'architettura interna del castello si comporta come una macchina ottica, un “gigantesco occhio mentale” (Le Brun, 1986, p. 397) che serve a depurare la percezione dei signori, a lasciare cadere sulla superficie sensibile (la retina, l'immaginazione) sensazioni che siano prive di ogni contesto, ideologia o psicologia. Gli elementi spaziali dell'architettura interna – il trono, i gradini, le nicchie – si comportano come una camera ottica: si pongono tra gli ascoltatori e il racconto, assorbono e filtrano le narrazioni delle attrici per ridurli alla loro forma più pura. La disposizione interna del castello sottrae le presentazioni erotiche tanto alla realtà sociale che ospita le condotte raccontate quanto a ogni pretesa di realtà psicologica nella rappresentazione dei protagonisti del racconto. Le gesta sono senza tempo, senza luogo, addirittura senza personaggi. Persino ogni realtà fisiologica è cancellata dalla paradossale neutralità o indifferenza che caratterizza la prestazione degli intercambiabili corpi meccanici di cui ci vengono narrate le peripezie: “Una passione cruda, resa viva dall'immaginario, con attorno niente, ecco ciò che ci fa vedere la macchina ottica di Sade” (Le Brun, 1986, p. 398).
Le caratteristiche di macchina ottica del castello sadiano hanno un'implicazione inevitabile con il tema della rappresentazione cinematografica. Lo spazio del castello, ponendosi come un prisma che separa non i colori ma le modalità dello sguardo, mette in gioco diverse tipologie di relazione tra lo sguardo dello spettatore e le azioni dei personaggi all'interno di quello spazio. Dal punto di vista
analitico, ci sembra di poter individuare tre modalità prevalenti di questa relazione.
La prima modalità è quella che si concentra sulla solitudine del libertino con il suo oggetto di godimento. Il punto di vista della macchina da presa (e conseguentemente lo sguardo dello spettatore) possono scegliere di rispettare questa ricerca di solitudine oppure di violarla. Nel primo caso la segreta mantiene la sua funzione barthesiana di forma teatrale della solitudine; nel secondo caso quel teatro è provvisto di una platea in cui lo spettatore si trova ad essere seduto, rompendo la solitudine cercata con ostinazione dal libertino, annullando la sua volontà, condividendo invece il suo segreto.
La seconda può essere descritta come modalità panottica: un singolo individuo guarda molte persone (detenuti, vittime) che sono guardati e non hanno diritto di ri-guardare. Le alte mura dei castelli servono infatti evidentemente ad escludere ogni sguardo proveniente dall'esterno, ma allo stesso tempo costruiscono al loro interno un'architettura che si presta ad essere organizzata secondo la forma del Panopticon. La possibilità di avere sempre a disposizione di sguardo le proprie vittime è centrale per il cinema sadiano che si avventura in questo spazio. La macchina da presa assume il punto di vista dei signori e si propone come un dispositivo che recapita agli occhi dei carcerieri ogni sfaccettatura del quotidiano delle vittime. All'interno di questa modalità lo spettatore sovrappone quindi il suo sguardo a quelli (entrambi panottici) della macchina da presa e del libertino/carnefice. La macchina da presa consente anche allo spettatore la libertà di scrutare in ogni momento le vittime, e quindi di adottare lo stesso sguardo dei signori, per identificarsi con esso oppure per rigettarlo.
Se lo sguardo panottico è quello di un singolo guardiano che scruta una molteplicità di carcerati, all'interno del castello è possibile anche il regime di visibilità complementare: una quantità di sguardi che si posano su una singola vittima o su di un piccolo gruppo di vittime. In questo terzo caso, lo sguardo dello spettatore è un ulteriore sguardo accerchiante o sinottico (cfr. Escobar, 2006, p. 31) che si affianca quelli che già si posano sul corpo violato.
All'interno di tutti e tre questi scenari si può mettere in gioco la tipologia di posizione spettatoriale delineata nella prima parte di questo lavoro: ognuna di
queste relazioni tra spazio, personaggi e spettatore è compatibile con lo sguardo dello spettatore masochista, sadico, ludico, curioso o meditativo. Il castello sembra fornire un contesto e un'occasione particolarmente adatti all'essenzializzazione di queste categorie.
Cercheremo di identificare tali modalità di presentazione e tipologie di sguardo all'interno della filmografia che entra nel castello sadiano, in particolare in L'âge d'or e Salò o le 120 giornate di Sodoma. Per ulteriori esempi – tra cui Il vizio e la virtù (Roger Vadim, 1963) e Woods are Wet (Tatsumi Kumashiro, 1973) – rimandiamo alla filmografia in coda a questo lavoro.
4.2. L'âge d'or di Luis Buñuel