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TABLEAUX. CONFIGURAZIONI DELLO SGUARDO NELL'OPERA

2.3. La vista e gli altri sensi

In Sade tutti i sensi sono iper-sfruttati e sovraesposti, continuamente chiamati in causa dal rilancio e dal superamento delle percezioni richiesto dalla libidine libertina. Passandoli in rassegna uno per uno, va certo detto che, in un'ipotetica gerarchia, il senso della vista non è quello che De Sade privilegia nella considerazione mostrata all'interno dei romanzi – basta prendere atto delle indicazioni fornite a livello di contenuto e misurare il trasporto enunciativo con cui gli altri sensi (il tatto, l'udito, l'odorato, il gusto) vengono presentati nelle diverse opere.

Per quanto riguarda il tatto, la scrittura di Sade mette in campo, come abbiamo visto, una serie di strategie per rendere il testo perlocutorio e tentare così di porre rimedio all'aporia fondamentale della pornografia, ovvero l'impossibilità di procurare direttamente delle sensazioni appartenenti alla dimensione tattile9. In contrapposizione a questa difficoltà, Sade enfatizza a ogni passo la componente materiale, la tangibilità delle scene che racconta: “In Sade non si cessa di toccare: toccare i corpi, le 'nature', di entrarvi, di farsene penetrare – come se [...] si dovesse imporre la finzione di un toccare generalizzato, eroico, radicalmente performante” (Prigent, 2004, p. 10).

Anche il senso dell'odorato è centrale nella paletta dei sensi sadiana. Esso merita, a partire dalla quinta delle centoventi giornate, delle passioni dedicate10. L'olfatto si abbina inoltre indissolubilmente al gusto, grandissima passione libertina di cui

9 Angela Carter, includendo (forse in modo troppo poco problematico) la pornografia sadiana in un ragionamento generale sulla comunicazione pornografica, ha buon gioco ad affermare: “Questi tableaux della falsificazione allontanano la nostra vita sessuale dal mondo, dall'esperienza tattile. Gli amanti si smarriscono in un'intimità che non trascende ma nega la realtà. Così il rapporto non può mai appagarli, perché non tocca la loro vita” (Carter, 1979, p. 12).

10 Un esempio, fra i più innocui, proprio dalla quinta giornata: “Quando la ragazza fu madida di sudore, s'avvicinò al libertino, alzò un braccio e gli fece odorare l'ascella da cui il sudore colava per tutti i peli” (p. 174).

Sade si premura di raccontare i dettagli. Sappiamo con precisione che cosa mangiano i libertini. Il momento del pasto non è presentato come secondario o decorativo. Lo scatenamento degli eroi sadiani prevede un'orgia anche culinaria, una dépense alimentare che accumula quintali di cibo e seleziona i prodotti più ricercati. Oltre al resto, è impossibile essere anche semplici compagni di tavola dei personaggi sadiani, che continuano a respingerci sul bordo della nostra normalità. Fink (1983) parla di “fagotopia”, di utopia del cibo. In modo simile al sesso, nell'universo sadiano nulla è in-edibile.

L'alimentazione ha inoltre un ruolo fondamentale nel “lavoro del libertinaggio” (cfr. Châtelet, 1983): la tavola, che certo si afferma come piacere in sé, è anche funzionale al mantenimento dell'energia indispensabile all'incessante attività erotica dei libertini. Come afferma uno dei protagonisti di Justine (cit. in Hénaff, 1978, p. 214), “non è che mangiando molto che si scarica bene”.

Ai fini della lussuria il libertino si prende carico anche dell'alimentazione delle vittime, di cui va conservata la bellezza delle forme e curata l'evacuazione, in servizio alla nota predilezione (dei signori delle 120 giornate in particolare) per la coprofagia. Anch'essa va annoverata (ennesimo motivo di contrapposizione con l'“uomo normale”) tra i piaceri del gusto e dell'odorato ricercati dai libertini.

La centralità del gusto è infine ribadita dalla metafora alimentare che vale come premessa “metodologica” alle 120 giornate, dove il narratore afferma:

Senza dubbio numerose stranezze che vedrai descritte potranno rivoltarti, lo so, e però altre sapranno eccitarti sino all'orgasmo, ed è proprio questo lo scopo che mi sono prefisso: se non avessi detto tutto, analizzato tutto, come avrei potuto intuire dove tende il tuo desiderio? […] Ecco dunque la descrizione di un banchetto sontuoso in cui seicento diverse portate saranno offerte alla tua golosità: le mangerai tutte? No, senza dubbio, ma questo numero prodigioso dilata gli orizzonti della tua scelta e così, inebriato da tale illimitata varietà, non criticherai certo l'anfitrione che sa invitarti a un simile banchetto (p. 101)11.

11 Riportiamo il perspicace commento a questo passo di Mladen Kozul (2005, p. 77): “Per trovare un piatto (una passione, una ricostruzione fantasmatica) che gli sia proprio, ciascuno dei lettori deve ingoiarne (ricostruirne) tutti i seicento – e per farlo, è costretto a aderire al contenuto di tutti, almeno per il tempo e nella misura necessaria alla comprensione del testo. Il racconto impone un meccanismo di ricezione che è all'opposto di quello che propone come ideale: lontano dal poter esercitare la propria libertà di scelta, ciascuno dovrà prendersi carico di tutte le mostruosità e crudeltà della storia umana, e metterle in scena a suo rischio e pericolo”.

Il senso privilegiato rimane tuttavia l'udito. All'interno dell'opera di Sade vi sono precise indicazioni in merito. In un importante passaggio delle 120 giornate di Sodoma il narratore afferma esplicitamente: “È sperimentato come, per i veri libertini, le sensazioni comunicate dall'organo dell'udito sono quelle che lusingano maggiormente e che suscitano le impressioni più vive” (p. 67, traduzione modificata). La funzione delle narratrici all'interno del castello di Silling (“persone in grado di raccontare ogni sorta di mostruosità, di analizzarle, di esasperarle, di graduarle e di descriverle a tinte vivaci”, ibid.) è conseguenza di questo principio. Il corpo, per diventare ancora più eccitante, va rivestito di parole. La preminenza dell'udito sugli altri sensi segna il dominio del linguaggio. I primi organi erotici sono quelli che permettono di ascoltare e parlare.

L'esperienza uditiva dell'ascolto delle dissertazioni non è un semplice afrodisiaco ma procura essa stessa, da sola, l'orgasmo. Il libertino presta orecchio a monologhi anche lunghissimi senza stancarsi perché l'ascolto è in sé godimento. Come abbiamo ricordato, è solo la vittima, muta e logofoba, ad annoiarsi ascoltando le tante digressioni; oppure il servo, come quello de La filosofia nel boudoir, apprezzato per le sue doti sessuali ma invitato a ritirarsi quando si tratta di dare spazio alla lettura del pamphlet rivoluzionario Francesi, ancora uno sforzo se volete essere repubblicani (“Esci, Augustin, non son cose per te, ma non allontanarti. Suoneremo quando occorrerà che tu ritorni”, p. 153).

Davanti alle pratiche sadiche, alla tortura e all'assassinio, il grido della vittima è inoltre la certificazione più sicura della verità della sua sofferenza. Come scrive Octavio Paz (1993, p. 84), “il godimento di Sade sta nell'orecchio che raccoglie l'urlo di dolore”.

L'attività erotica e filosofica dei libertini richiede dunque uno scatenamento di tutti i sensi. Per quanto riguarda la considerazione del senso della vista (e della pulsione scopica, del voyeurismo), all'interno della letteratura critica su Sade esistono posizioni piuttosto diverse. Le caratteristiche di piacere nascosto del voyeurismo sembrerebbero trovare poco spazio all'interno di libri dove tutto è sin dal principio visibile, dove è data per scontata la certezza di avere la vittima a portata di sguardo, senza doverla in nessun modo scoprire. Ogni presupposto di violazione dell'intimità viene a cadere quando i corpi sono sin dall'inizio nudi e in

piena luce. La mancanza di assenso da parte dell'oggetto dell'osservazione, alla base del voyeurismo di tipo sadico, è inoltre per il libertino un'ovvietà, non un motivo di eccitazione. In base a questi elementi Philippe Roger (1976, p. 117) trae la conclusione che “c'è poco voyeurismo in Sade, non tanto per quello che questa passione conserva in termini di passività, quanto in ragione dell'errore teorico che commette il voyeur privilegiando l'organo della vista, meno 'libertino' di quello dell'udito”. Anche per Marcel Hénaff (1978, p. 124) il voyeurismo non si configurerebbe come una passione “propriamente sadiana”, considerato il fatto che nei testi non gode di un'evidenziazione particolare e non le viene attribuita un'importanza specifica12.

Se questa argomentazione è per alcuni versi convincente, occorre tuttavia aggiungere che il senso della vista, sicuramente meno enfatizzato rispetto agli altri, si propone come una costante indispensabile sia a livello tematico che teorico per portare avanti la narrazione e le istanze perlocutorie ad essa collegate. La vista funge infatti da intensificatore delle percezioni legate agli altri sensi e assume su di sé un fondamentale compito sinestesico. Il guardare (a livello di enunciato) e (a livello di enunciazione) la focalizzazione interna su un personaggio che vede sono una condizione sine qua non per l'esecuzione di ciascuna passione. L'intensità dell'attività visuale esercitata dai libertini è innegabile, il loro sguardo è costantemente messo in scena: “il piacere di vedere e, di ritorno, di essere visti, la volontà di snidare le vittime più belle, di sorvegliarle e di contemplare le loro sofferenze costituiscono altrettante prove dell'onnipotenza oculare dei libertini” (Sauvage, 2007, p. 205). Gli occhi degli eroi sadiani, descritti come “penetranti e lascivi” (p. 226), sono capaci di veri e propri stupri oculari: divorano, bruciano, uccidono, paralizzano, affascinano. Da organo della visione, “l'occhio si trasmuta in strumento del tatto, prolungamento o sostituto del 'sesso-arma'” (p. 205).

12 Nell'immensa opera sadiana si trovano naturalmente eccezioni, ad esempio nella scena di

Juliette in cui viene avvelenata Madame Noirceuil. Le contorsioni della vittima fanno

comprendere ai libertini che è “meglio non perderla più di vista” (vol. 1, p. 186). La moribonda viene posta al centro della sala, sopra un tappeto. Intorno al corpo sofferente si raccolgono in cerchio i libertini. Eccitati dalla visione, compongono presto un tableau erotico. Le “grida spaventevoli” della vittima, lo “spettacolo della morte” (p. 187) aggiungono godimento a godimento.

Nel momento della selezione delle vittime i libertini cercano di scrutare il più possibile i dettagli di ogni singolo corpo, arrivando talvolta a dividersene le parti per osservarle con maggiore accuratezza. La selezione più nota è quella de Le 120 giornate, quando “i quattro amici, in cerchio, accoglievano la fanciulla che veniva posta al centro”; “l'adescatrice rientrava e sollevava le gonne della fanciulla, affinché l'assemblea potesse osservarne le natiche”; “il minimo difetto provocava l'allontanamento immediato” (p. 73). Ma anche in Aline et Valcour si assiste a un esempio interessante: nel regno di Butua il portoghese Sarmiento ha il compito di selezionare le donne che entreranno a far parte dell'harem del sovrano. Sarmiento non vede le donne in viso, ma le sceglie esclusivamente in base alla bellezza dei loro corpi. La limitazione dello sguardo serve a renderlo più vigile davanti alle qualità di cui il sovrano va in cerca – forme “molto regolari, belle e ben fatte” (pp. 267-268). Lo sguardo, che si contraddistingue per la sua razionalità, va tenuto al riparo dalle distrazioni che ne possono sviare il rigore.

La verifica oculare della perfezione fisica, primo passaggio delle selezioni, dimostra che “la vista precede il tatto e l'odorato, ma ha bisogno di essere assecondata da questi sensi prima di fondersi con essi nel crogiolo delle sensazioni” (Sauvage, 2007, p. 249). Se in Sade non è certo lecito parlare di predominanza del visuale, allo sguardo si può però attribuire un “primato nella cronologia delle sensazioni” (ibid.). Esso si pone inoltre in ogni caso come una soglia per entrare non solo nello spazio delle passioni, ma anche, foucaultianamente, in quello del dominio e del controllo.

Le rappresentazioni della attività oculari e dei dispositivi destinati alla visione onnipresenti nelle opere di Sade (specchi, finestre, tende scostate, fessure nel muro...) prevedono quasi sempre uno sguardo unidirezionale, un voyeurismo “per effrazione” che permette di vedere senza essere visti: lo sguardo libertino può penetrare in tutta quiete gli spazi più intimi, popolati appunto di spettatori che operano all'insaputa degli attori. Questa configurazione “non solo concretizza la distanza tra vittima e torturatore, tra la sofferenza dell'una e il godimento dell'altro, ma la cecità della vittima è il segno per eccellenza del suo statuto di vittima” (Sauvage, 2007, p. 230).

Quella derivante dal controllo panottico costituisce una prima, basilare, quasi ovvia ma non trascurabile forma di dominio. L'occhio è l'agente di un'intelligenza fredda che mantiene una costante vigilanza sulle sue vittime. Nell'esercizio del vedere viene riconosciuta l'inerenza del potere. Secondo l'icastica metafora del gatto e del topo concepita da Elias Canetti la presenza del potere non si dimostra nell'uccisione della preda (gesto che si configura piuttosto sotto la specie della forza) ma nella sorveglianza che il predatore esercita su di essa, quando il topo è coperto da un'ombra, sotto lo stretto dominio di un campo visivo da cui non può uscire13. Il potere si regge sulla certezza dello sguardo.

L'onnipotenza oculare si pone quindi come un requisito di base all'interno delle microsocietà sadiane. Lo sguardo dei libertini si estende libero e possente sul territorio su cui governano, proprio come quello del Re Sole, nel corso del cui regno i signori di Silling seviziano. L'intemperanza e la sete di potere dei libertini favoriscono ogni eccesso, anche visivo. Nello sguardo degli eroi sadiani si stratificano libido videndis (Sauvage, 2007, p. 205), intensificazione, sinestesia, autorità, volontà di dominio... La loro relazione con il mondo si stabilisce attraverso una percezione debordante, sovraccarica e multisensoriale.

13 “Lo spazio sul quale il gatto proietta la sua ombra, gli attimi di speranza che esso concede al topo, sorvegliandolo però con la massima attenzione, senza perdere interesse per il topo, per la sua prossima distruzione, – tutto ciò insieme, spazio, speranza, sorveglianza, interesse per la distruzione, potrebbe essere definito come il vero corpo del potere, o semplicemente il potere stesso” (Canetti, 1960, p. 340). Cfr. Escobar (2006, pp. 20 e ss.).

CAPITOLO 3.

L'ARTE CHE (NON) HA MOVIMENTO. IL CINEMA, SADE, I LIMITI DELLA RAPPRESENTAZIONE

Come abbiamo visto nel capitolo precedente, il cinema sadiano deve affrontare il problema di una scrittura particolarmente refrattaria a essere filmata. Essa nasce dall'immaginazione e si propone con forza di rimanere immaginativa, di colpire il dominio non percettivo della fantasia. La copertura del dicibile, il “dire tutto” cui dichiaratamente ambisce Sade si confronta al cinema con un “vedere tutto” che spalanca un abisso.

Il problema non si pone solo per le trasposizioni dei romanzi sadiani o i film che a vario titolo vi fanno riferimento, ma coinvolge anche le maggior parte delle opere che affrontano la biografia di Sade o lo prevedono come personaggio diegetico: sia perché esse molto spesso scelgono di dare visibilità all'immaginazione radicale o ad alcune delle fantasie romanzesche dello scrittore (è il caso ad esempio di Marquis di Xhonneux o Sade di Benoît Jacquot); sia perché è il pensiero di Sade a risultare irrappresentabile ed eccessivo, dal punto di vista politico (Marat / Sade di Peter Brook) o religioso (La via lattea di Luis Buñuel); sia perché – e questo vale per tutti i film – è lo stesso nome di Sade a rimanere legato a un'inintegrabilità e a un'innominabilità perduranti1.

Come scrive Annie Le Brun (1989, p. 15), Sade può vantare una formidabile resistenza allo spettacolare. Ma anche, aggiungiamo, alla società dello spettacolo.

1 Per ogni approfondimento sui titoli che compongono la nostra filmografia rimandiamo alle pagine ad essa dedicate in coda a questo lavoro.

È in questo senso che Guy Debord sceglie di intitolare il suo primo lungometraggio, che non contiene nessun riferimento all'autore delle 120 giornate, Hurlément en faveur de Sade (1952). Secondo una tesi di Hervé Joubert-Laurencin2 – che rifiuta le ipotesi di “sadismo rivolto contro lo spettatore” con cui viene a volte interpretato il titolo di un'opera che per decine di minuti mostra uno schermo nero e muto – Debord utilizza Sade come un significante vuoto, un referente che mira a ottenere un puro “effetto di propaganda”: il nome di Sade è destinato a creare aspettative che un film, necessariamente, non può che deludere. “Sade” è una promessa impossibile, che non può essere rispettata. Essendo Sade inimmaginabile, lo schermo è destinato a rimanere buio.

In conformità con l'oggetto teorico di Debord, la stragrande maggioranza degli studiosi di Sade nega al cinema ogni possibilità di accostarsi all'opera o alla figura dello scrittore. Sono molto significative in tal senso le reazioni a quello che è certamente il più importante dei film sadiani, Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini. La disapprovazione quasi unanime nei confronti dell'operazione del regista italiano è motivata certo dalla discussa imposizione di un contesto storico nazi-fascista all'ambientazione del romanzo di Sade, ma riguarda anche o soprattutto la supposta impossibilità dell'immagine cinematografica di dare senso a una scrittura che non ha un corrispondente sul piano figurativo. La realtà fotografica dei corpi e la loro configurazione indessicale entrerebbe infatti in conflitto irresolubile con la scrittura. Tale reazione accomuna tanto gli intellettuali che ragionano, alla metà degli anni Settanta, sulla loro esperienza di visione di Salò in sala, quanto le figure accademiche che, negli ambiti della letteratura francese, si sono fino a oggi occupati di Sade. Nel primo gruppo spiccano i profili di Roland Barthes e Michel Foucault.

Un'intervista del secondo alla rivista Cinématographe (n. 16, dicembre 1975-gennaio 1976) viene significativamente intitolata Sade, sergent du sexe. L'intervista ha una particolare rilevanza nel nostro discorso, ma anche all'interno del percorso intellettuale di Foucault: apre l'anno in cui si inaugura la riflessione sulla biopolitica (v. Denunzio, 2007, p. 198) e segnerebbe inoltre secondo Marty

2 Esposta nel corso della conferenza “Guy Debord. Il suo cinema, il cinema del suo tempo”, Bologna, Dams, 27-28 aprile 2011.

(2011, p. 133) un passaggio “spettacolare” nella (presunta) “abiura” della fascinazione di Foucault nei confronti di Sade.

Non c'è niente di più allergico al cinema delle opere di Sade. Tra le numerose ragioni, intanto queste: la meticolosità, il rituale, la forma di cerimonia rigorosa che assumono tutte le scene di Sade escludono tutto ciò che potrebbe essere gioco supplementare della macchina da presa. La minima addizione, la minima sottrazione, il più piccolo ornamento sono insopportabili. Non si apre un fantasma, ma una regolamentazione accuratamente programmata. Dal momento in cui qualcosa manca o viene in sovrimpressione, tutto si rovina. Non c'è posto per un'immagine. I bianchi non devono essere riempiti che dal desiderio dei corpi. […] Voler ritrascrivere Sade, tale anatomista meticoloso, in immagini precise, non funziona. O Sade sparisce, o si fa un cinéma de papa (Foucault, 1976b, pp. 818, 820).

In modo altrettanto chiaro e negativo si esprime Roland Barthes in una recensione pubblicata su Le Monde il 16 giugno 1976. Dopo le consuete critiche all'omologia sadismo/fascismo, Barthes scrive:

La lettera ha uno strano effetto, un effetto inatteso. Si potrebbe credere che la lettera sia al servizio della verità, della realtà. Niente affatto: la lettera deforma gli oggetti di coscienza rispetto ai quali noi siamo tenuti a prendere posizione. Restando fedeli alla lettera delle scene sadiane, Pasolini giunge a deformare l'oggetto-Sade e l'oggetto-fascismo. […] Sade non è affatto figurabile. Esattamente come non ci sono ritratti di Sade (se non fittizi), così nessuna immagine è possibile dell'universo sadiano, il quale, per una decisione imperiosa dello scrittore Sade, è affidato tutt'intero al solo potere della scrittura. Se ciò è possibile, è senza dubbio perché esiste un accordo privilegiato tra la scrittura e il fantasma: entrambi sono bucati; il fantasma non è il sogno, non segue mai i collegamenti di una storia, per bizzarri che siano; e la scrittura non è la pittura, non segue la pienezza dell'oggetto: il fantasma può solo scriversi non descriversi. Ed è per questo motivo che Sade non passerà mai al cinema e, da un punto di vista sadiano (dal punto di vista del testo sadiano), Pasolini non poteva che sbagliarsi. Cosa che ha fatto con ostinazione (seguire la lettera è ostinarsi) (Barthes, 1976, p. 159).

Salò, secondo Barthes, è quindi doppiamente cattivo: da una parte irrealizza il fascismo isolandolo dal contesto e conferendogli una patina letteraria, dall'altra

realizza l'opera sadiana, tentando goffamente di descriverla3. L'articolo di Barthes riecheggia due articoli pubblicati sulla stampa italiana da Alberto Moravia e Italo Calvino4. Il primo scrive che Pasolini è stato “fedele, sin troppo, al testo di De Sade, in maniera critica e mimetica”; il secondo aggiunge: “ne è venuto un film che è fedele alla lettera di Sade più di quanto sarebbe stato necessario ed è troppo lontano dallo spirito di Sade per giustificare questa fedeltà letterale” (p. 1930). Anche nel secondo gruppo, pochi critici, interpreti e studiosi di Sade si mostrano morbidi nei confronti di un tentativo considerato perlopiù fallito. Andando a pescare tra gli interventi più recenti citiamo Chantal Thomas (2002), che afferma