SILLING. IL CASTELLO
4.3. Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini 1. Pasolini/Sade
4.3.5. La verità dei corpi
Allo shock prodotto dai contenuti e dalla struttura del film va aggiunto un trauma dovuto a fattori extra-diegetici. In particolare, alla relazione con gli attori che interpretano il ruolo delle vittime, al turbamento che procura la normalità dei loro corpi.
Il personaggio interpretato dagli attori di Salò non sembra infatti davvero capace di coprire o cancellare la persona dell'attore (il suo corpo, le sue reazioni). Lungo tutto il film si assiste alla difficoltà degli interpreti a “rimanere in parte”, a controllare la recitazione. Nella scena del matrimonio (Girone delle manie) si nota ad esempio che il giovane sposo, vedendo Blangis toccare con foga i corpi di un gruppo di ragazze, non riesce a trattenere un involontario sorriso quando il duca compie un gesto brusco, lanciando la mano verso il pube di una di esse. Blangis si sposta nel gruppo dei ragazzi e crea con il suo impeto un medesimo disagio: il primo ragazzo a destra nell'inquadratura serra una mascella per la tensione; a sinistra, un'altra vittima (Claudio, che gode di un'individualizzazione maggiore di altri) è vistosamente in imbarazzo. Si copre il pene con la mano e, nervoso, si sforza di trattenere un sorriso. Quando arriva il suo turno, Blangis lo tocca e lo bacia sulla bocca. Poi Blangis si sposta e Claudio esce alla destra dall'inquadratura. Tornato in campo, sospira profondamente, come per ricaricare la sua capacità di sopportazione. Subito dopo guarda in macchina per un brevissimo istante. Sono dettagli che restituiscono la fase delle riprese e segnalano la reale difficoltà, per gli attori, a spostarsi nell'ambito della finzione, a rinunciare alla consapevolezza della propria persona in favore della caratterizzazione del personaggio.
A venire violata, distrutta non è dunque solo la dignità dei personaggi ma proprio l'innocenza degli interpreti pasoliniani. Questa forma di violazione viene acuita da fatto che gli attori sono non-professionisti, e per di più giovanissimi, alcuni appena maggiorenni, apparentemente portatori di quella stessa purezza e vitalità che Pasolini nella Trilogia della vita collegava ad analoghi corpi nudi. I giovani interpreti di Salò sembrano doversi fare carico dell'abiura di quell'innocenza. Dal set emergono testimonianze scarne e contrastanti. Secondo le parole della narratrice Helène Surgère e del collaboratore di Pasolini Jean-Claude Biette57, sul set non si viveva il sentimento tragico che è poi passato nel film: anzi, entrambi raccontano di conservare una memoria divertita della lavorazione. Aggiungono che durante le riprese si era realizzato un “rapporto di indifferenza e quotidianità” tra attori e troupe. L'assistente alla regia Fiorella Infascelli (2005, p. 26) parla invece di “clima pesante” e di “mondo parallelo”. Dei giovani attore dice: “Delle volte stavano male, non c'è dubbio”. Pulici (2010) rimanda a una testimonianza di Antiniska Nemour: Renata, dopo la scena di coprofagia, non riuscì a non vomitare, benché gli escrementi fossero realizzati con cioccolato e canditi. Anche le controverse pagine del memoriale scritto da Uberto Paolo Quinatavalle58, uno dei signori, parlano di ribellioni contro il regista da parte degli attori. Va aggiunta un'affermazione di Pasolini, che dichiara, senza spiegare come, di aver selezionato durante il casting dei ragazzi “masochisti” (“se li ho scelti vuol dire che lo sono”), implicitamente suggerendo che il film (il regista?) dovesse assumere nei loro confronti il ruolo di masochizzante o pseudo-sadico59.
Senza dubbio l'appiattimento del personaggio sull'interprete e le rotture attoriali dell'universo diegetico (sorrisi, sguardo in macchina, gesti non controllati...) fanno sentire con grande forza la presenza di un regista dietro la macchina da presa.
57 Intervistati nel documentario Salò d'hier à aujourd'hui (Amaury Voslion, 2002). 58 Giornate di Sodoma, SugarCo, 1976.
59 Alla domanda dell'intervistatore: “Come ha reclutato questi cento ragazzi e ragazze?”, Pasolini risponde: “Per la verità io ho seguito i numeri che per De Sade sono magici, cioè il numero quattro. Le vittime sono in tutto una ventina, non un centinaio. Per sceglierle ho semplicemente fatto come per tutti gli altri film: ho incontrato migliaia di persone e ho scelto quelle che mi sembravano ideali”. L'intervistatore chiede ancora: “Sono attori masochisti?”. Pasolini: “Se li ho scelti vuol dire che lo sono”. Intervista televisiva di Philippe Bouvard per la trasmissione “Dix De Der” sul canale francese Antenne 2, registrata il 31 ottobre 1975, la cui trascrizione è reperibile all'indirizzo < www.pasolini.net/notizie_ultimainterv_auditoriumRoma.htm > e visibile su YouTube all'indirizzo < www.youtube.com/watch?v=w9Ef1y_OY-U > (ultima visita: 9 dicembre 2011).
Pasolini in effetti nutre la precisa volontà teorica di cogliere di sorpresa, anche attraverso l'uso contemporaneo di più di una cinecamera (da due a quattro), “la verità dei corpi attraverso l'istituzione attiva dello statuto voyeuristico della macchina da presa” (Murri, 2001, p. 94). Il Male deve diventare “visione fisica” (p. 56), corpo effettivamente mortificato, reale “degradazione”.
Il cinema, in quanto “lingua scritta della realtà” – il richiamo teorico che ha spinto Pasolini a realizzare film – non può fare altrimenti. È la grande differenza che questo mezzo possiede rispetto al romanzo, dove – persino in quelli di Sade – non viene ovviamente coinvolta con il suo corpo nessuna persona reale. Se, come afferma Barthes (1971, p. 124), “scritta, la merda non ha odore”, al cinema di essa lo spettatore ha una percezione anche visiva, e l'interprete una sensazione visiva, tattile, gustativa e olfattiva. Mangiarla può procurare il vomito anche se il suo odore e sapore sono quelli del cioccolato.
Rimane quindi la scomoda sensazione che il lavoro di manipolazione dei corpi degli attori compiuto dal cineasta somigli tremendamente a quello dei libertini di Sade sui corpi delle vittime. Per denunciare l'universo dello spettacolo Pasolini è obbligato a immergersi in esso. Per servirsi di Sade è costretto a imitarlo.
Vedendo le vittime che salgono a quattro zampe una scalinata, l'evidenza indessicale dell'azione colpisce come un pugno. Come dichiara Fiorella Infascelli (2005, p. 26), “quando fanno le scale nudi a quattro zampe tenuti al guinzaglio, è tutto vero”. La degradazione e l'umiliazione dal piano diegetico sembrano trasferirsi sugli attori in modo diretto e spietato. Vi è uno statuto di verità in quella rappresentazione; “è tutto vero”: i corpi nudi sono effettivamente sottoposti a (parte delle) umiliazioni cui sono costretti i personaggi: camminare a quattro zampe, nascondere la propria faccia per mostrare solo il deretano, eccetera.
Si tratta sostanzialmente dello stesso tipo di obiezione che viene esercitato, in particolare all'interno di alcuni ambiti del pensiero femminista, nei confronti dell'attore, o, meglio, dell'attrice pornografica, indotta a subire pratiche “degradanti” che non sarebbero giustificate dalla volontaria adesione dell'interprete alla scena proprio poiché si percuotono “senza simulazioni” sul corpo negando la dignità stessa dell'essere umano (cfr. Smith, 2011).
Per il suo grado di verità indessicale, dunque, Salò si pone anche come una vera e propria sfida al confine tra fiction e non fiction. Davanti al film lo spettatore non si sente di certo rassicurato dalla consapevolezza di avere di fronte un lavoro a soggetto. Si tratta di una di quelle “circostanze estreme”, come scrive Vivian Sobchack (2004, p. 270), in cui la “carica di reale” della fiction ci fa ragionare riflessivamente sul film, sulla fase delle riprese, sulla nostra posizione di spettatori.
Nei momenti in cui lo spazio della fiction viene caricato di reale, anche lo spettatore ne viene caricato. La carica di reale comprende schermo e spettatore, ridefinendo i loro mondi paralleli non solo come coestensivi ma anche come eticamente implicati l'uno nell'altro. Poiché lo spazio documentario che emerge per rompere l'autonomia della fiction sullo schermo punta sempre fuori dallo schermo in direzione dello spettatore incarnato e del suo concreto e intersoggettivo mondo sociale, allo stesso tempo esso è sempre uno spazio co-costituito e “direzionato” dallo spettatore stesso, la cui coscienza prende possesso di quello spazio e lo ri-conosce, per qualche tipo di investimento, come contiguo al suo stesso essere materiale, mortale e morale (p. 284).
In equilibrio sul bordo di tale discrimine tra spazio della fiction e della non fiction, ragionando sulla posizione che spetta al voyeur, Salò lavora sulle figure dell'insostenibile e dell'inimmaginabile – le stesse con cui si sono a lungo confrontati teoricamente gli studiosi che hanno affrontato il tema dell'immagine dei campi di sterminio e in particolare della camere a gas (cfr. Didi-Huberman, 2003). La sicura volontà pasoliniana di ambientare il film nell'Italia occupata dai nazi-fascisti e il continuo, discusso raffronto tra Sade e l'universo dei lager rendono questo accostamento non del tutto pretestuoso. Poiché ha una particolare assonanza con il ragionamento condotto su Salò, ci interessa qui solamente riportare la tesi di un sostenitore delle ragioni dell'irrappresentabile:
Guardare [le immagini delle camere a gas] significherebbe necessariamente abitare la posizione dello spettatore, esterno rispetto alle vittime, quindi di aderire filmicamente, percettivamente alla posizione nazista stessa […]. Le vittime in questo modo sarebbero viste come attraverso la vetrina di un acquario, vale a dire una distanza tale che la messa a morte non è nient’altro che un’informazione. [...] La struttura dell'immagine istituisce filmicamente una posizione di voyeurismo sadico (Delfour, 2000, pp. 14-15).
Sembra un preciso commento all'ultima sequenza di Salò, dove abitiamo effettivamente una posizione esterna rispetto alle vittime: collocati in alto, a distanza di binocolo. La messa a morte di ragazzi di cui è persino disattivata la voce non è altro che un'informazione, puramente visiva. Siamo davvero intrappolati in una macchina ottica che prevede per lo spettatore la posizione del voyeur sadico, spogliati degli strumenti di difesa utili a evitare questa tremenda opzione.