SILLING. IL CASTELLO
5.1. Sade, la prigione, i fantasmi
D.-A.-F. De Sade trascorre in prigione circa ventisette anni della sua vita, in undici diversi luoghi di detenzione, sotto tre diversi regimi1. Dei carceri che lo ospitano durante l'Ancien Régime, Sade visita i più celebri: il castello di Vincennes e la Bastiglia. Nel corso del periodo rivoluzionario passa alcuni mesi in quattro spazi di pena, tra cui la casa di cura di Picpus. Napoleone lo costringerà alla reclusione definitiva non presso una prigione ma in un manicomio, a Charenton.
Le motivazioni per questo status quasi cronico di prigioniero sono molteplici. In prima battuta Sade sconta in carcere le conseguenze legali delle forme violente di attività sessuale praticate con donne (prostitute e no) non sempre o non del tutto consenzienti. In base alle persone coinvolte o ai luoghi dell'imputazione, i vari scandali vengono denominati “affaire Jeanne Testard”, “affaire d'Arcueil” (o “Rose Keller”), “affaire de Marseille”, “affaire des petites filles”, “affaire Trillet”. Ma è anche la sua stessa famiglia a mobilitarsi per fargli pagare l'indesiderabilità sociale e la fama negativa che lo circonda. In perfetto ossequio alle tesi di Michel Foucault sulla famiglia come primo nucleo disciplinare2, durante l'Ancien Regime
1 Le notizie biografiche sono tratte prevalentemente da Lely, 1982.
2 La famiglia è “l'elemento sensibile che consente di determinare quali sono gli individui che, irriducibili a ogni sistema di disciplina […] devono […] essere definitivamente scartati dalla società per entrare nei nuovi sistemi disciplinari che a questo sono destinati” (Foucault, 2003, p. 87).
la potente suocera, Madame de Montreuil, sa premere sulla corte reale affinché Sade venga incarcerato tramite lettre de cachet, un ordine d'arresto personale del sovrano che non richiede giustificazioni giuridiche (cfr. Furet e Buchet, 1965, e Boucher, 1989). Il decreto del 13 marzo 1790 che ordina la scarcerazione di “tutte le persone detenute nei castelli, case religiose, case di polizia od altre prigioni qualsiasi a causa di lettres de cachet o per ordine di agenti del potere esecutivo” (cit. in Foucault, 1975, p. 131) permetterà a Sade di riguadagnare una provvisoria libertà. Verrà infatti nuovamente incarcerato nel 1793, formalmente per aver chiesto, dopo la presa della Bastiglia, di essere ammesso alle guardie del re. A questa accusa si sommano indizi di “moderatismo” (nel periodo in cui era seduto come giudice in un tribunale rivoluzionario presso la celebre Section des Piques) e i sospetti riconducibili alla sua condizione di (ex) aristocratico. Successivamente viene perseguitato per motivo delle sue opere – come scrive un prefetto di polizia: “l'infame romanzo di Justine” e “l'opera ancora più spaventosa” intitolata Juliette –, pubblicate anonime a partire dal 1791. A causa di questo “reato di espressione” il regime napoleonico lo costringerà alla detenzione dal 1801 sino all'anno della morte, il 1814.
Una delle vicende carcerarie che maggiormente ha legittimato l'elezione di Sade a protagonista del suo tempo riguarda la complicità negli eventi che hanno portato alla presa della Bastiglia il 14 luglio del 17893. Dal giugno di quell'anno le proteste e i moti popolari nei dintorni della prigione simbolo dell'Ancien Régime avevano creato come conseguenza l'abolizione del privilegio, per alcuni detenuti fra cui Sade, di passeggiare per l'ora d'aria sui bastioni della fortezza. Testimonianze ufficiali riferiscono che il 2 luglio 1789 Sade, dalla sua cella, utilizza un tubo di scarico come megafono per far arrivare all'esterno le sue grida. Nella prigione – urla il marchese per eccitare le masse – vengono sgozzati dei prigionieri, occorre venirli a liberare. Le pesanti accuse radunano una piccola folla in rue Saint-Antoine. Per motivo di questa provocazione, il governatore della Bastiglia Monsieur de Launay scrive al ministro di Stato Monsieur de Villedeuil che la presenza del Marchese è pericolosa, e che bisogna trasferirlo. Il 4 luglio Sade viene condotto a Charenton. Abbandonerà nella cella il manoscritto delle
120 giornate di Sodoma, che verrà perduto durante i moti rivoluzionari per essere ritrovato più di un secolo dopo.
Si è prodotta molta mitologia critica attorno alla prigione come “spazio generativo” dell'esplosione verbale sadiana. Alla nascita e alla crescita di questa leggenda ha certamente contribuito lo stesso Sade, quando scrive in una lettera dal castello di Vincennes: “Avete immaginato di produrre dei buoni risultati, non ne dubito, riducendomi a un'astinenza atroce riguardo il peccato della carne. Bene, vi sbagliavate: avete riscaldato la mia testa, mi avete fatto formare dei fantasmi che bisognerà che io realizzi. […] Quando si fa bollire troppo la pentola, sapete bene che finisce per spandere”4. Spesso citata, questa lettera rinsalda il mito sadiano del genio uscito dalle polveri di una Bastiglia in disfacimento ed è perfettamente rappresentato dal Ritratto immaginario di D. A. F. de Sade (1938) dipinto da Man Ray5. È anche per motivo della coerenza (volontaria o meno) delle sue scelte di vita che Sade viene adottato dal surrealismo.
Anche numerosi interpreti eleggono la prigione a luogo che in qualche modo costringe Sade a prendere la parola. Jean-Luc Peurot (2004, p. 118) identifica precisamente nel castello di Vincennes tale spazio di propagazione: “l'ovulo, il nodo della vita di Sade è la prigione: senza di essa, non avrebbe mai scritto”. Anche Anthony Vidler (1983, p. 300) sostiene che l'esperienza della detenzione ha generato i castelli-prigione, gli spazi ideali per il libertinaggio in cui Sade ambienta tante delle sue storie. La reclusione viene così re-interpretata come sinonimo di una particolare forma di libertà, che manifesta la sua sconfinatezza nell'isolamento di una cella dove paradossalmente assume un carattere assoluto e sovrano.
Il ragionamento di Peurot crea un rapporto di causa-effetto indubbiamente troppo lineare; e quello di Vidler deve certo tener conto della differenza tra reclusione
4 Correspondances du Marquis De Sade et de ses proches enrichies de documents notes et
commentaires, vol. XVIII, Sade au donjon de Vincennes, a cura di Alice M. Laborde, Genève,
Slatikine, 2007, p. 117.
5 “L'artista, che aveva già familiarità con gli scritti di Sade, cominciò dapprima a raccogliere tutte le informazioni possibili sullo scrittore: benché immaginario, il ritratto avrebbe dovuto essere il più possibile fedele. […] La testa in pietra di Sade erompe a forza alla cima di una grigia costruzione in pietra: la penna è più potente della spada, lo spirito di Sade è più forte delle pietre che lo segregarono dal mondo. Sullo sfondo, la Bastiglia è distrutta dal fuoco – l'intero cielo è arrossato dalle fiamme che serpeggiano dalle torri –, mentre Sade appare in primo piano serenamente indistruttibile, monumento magnifico al ribelle per eccellenza: l'artista” (Schwarz, 1998, pp. 26-27).
forzata e auto-reclusione volontaria. Rimane in ogni caso necessario inserire la mostruosità del linguaggio di Sade nello spazio di prigionia in cui è stato concepito. Georges Bataille (1957b, p. 160) non va sicuramente in cerca di semplificazioni psicologiste quando afferma che “il deserto che fu per lui la Bastiglia, la letteratura divenuta l'unico sfogo della passione, allontanarono i limiti del possibile al di là dei più insensati sogni che l'uomo avesse mai formulato”. Il passaggio successivo – famoso e fondamentale per avvicinare l'opera sadiana – sostiene che il linguaggio di Sade “è il linguaggio di una vittima”6: “all'estremo opposto del linguaggio ipocrita del carnefice, il linguaggio di Sade è quello della vittima. […] Il marchese de Sade, ribelle in carcere, lasciò parlare in lui la rivolta: parlò, mentre la violenza in sé non parla. Egli doveva, ribelle, difendersi, o meglio attaccare, dando battaglia sul terreno dell'uomo morale, cui appartiene il linguaggio” (p. 180).
Non si tratta dunque di addebitare alla prigione la sete di violenza che impregna la scrittura sadiana ma di riconoscere che il linguaggio di Sade è una forma di ribellione: nelle lettere egli continua in modo inesausto a ribadire la propria innocenza; nei romanzi dimostra la sua libertà andando in cerca dell'eccesso. Il fuoco del linguaggio sadiano è figlio del paradosso di chi batte i pugni contro un muro fino a sanguinare: “Sade parla, ma parla in nome di una vita silenziosa, in nome di una perfetta solitudine, inevitabilmente muta” (p. 179).
I romanzi di Sade, pur essendo disseminati su tutto il terreno narrativo di segrete, stanze chiuse, serragli e celle dove vengono incarcerate le vittime, sono tuttavia quasi privi di prigioni vere e proprie. La Conciergerie da cui, all'inizio delle sue avventure, evade Justine non viene degnata di una neppur minima descrizione in nessuna delle tre versioni della vicenda. La protagonista non vi permane per più di due pagine. Lo spazio della prigione si pone dunque in un rapporto di analogia e di antagonismo con gli altri luoghi in cui Sade ambienta le sue storie. Per molti versi il castello di Silling delle 120 giornate o il monastero di Sainte-Marie-des-bois di Justine sono o rassomigliano a delle prigioni: i libertini vi tengono segregate le loro vittime, già morte per il mondo, prede indifese dell'arbitrarietà del despota. La differenza sostanziale è tra una chiusura di cui il libertino va in
6 Secondo Gilles Deleuze (1967, p. 20) il ragionamento di Georges Bataille “avrebbe dovuto render vana ogni discussione sul rapporto tra il nazismo e la letteratura di Sade”.
cerca e una chiusura che subisce: il castello è abitato da dominī, la prigione da dominati. Lo spazio del castello è protettivo per il libertino, lo ripara dalle intrusioni esterne e gli permette di segregare le sue vittime, che si macchiano della colpa di essere innocenti; la prigione sembra invece caratterizzarsi, in absentia, come uno spazio odioso grazie al quale il mondo esterno si protegge dal vizio. Un altro punto di frattura fondamentale tra la prigione e il castello sta nella riflessione teorica in base alla quale il secondo sa diventare un teatro, mentre la prima è impossibilitata a farlo. Anche per questo non costituisce materia da romanzo per Sade, la cui scrittura cerca sempre lo spazio della recita: la prigione rimane un luogo di sorveglianza che si costruisce, come mostra Michel Foucault (1975, p. 236), in contrapposizione allo spettacolo.
Anche in virtù della generale assenza della prigione dall'opus letterario, i film sadiani che mostrano spazi di detenzione – De Sade (Cy Endfield, 1969), Marquis (Henri Xhonneux, 1989), Le notti proibite del Marchese de Sade (Tobe Hooper, 1993), Marquis de Sade (Gwyneth Gibby, 1996), Sade (Benoît Jacquot, 2000)... – si concentrano in prevalenza sulla vicenda biografica del Marchese. Un'eccezione è costituita dagli adattamenti di Justine, che presentano, persino con maggiore ampiezza rispetto al romanzo, lo spazio carcerario da cui la protagonista riesce a fuggire. Marquis De Sade's Justine (1969) di Jess Franco mostra entrambe: la cella di Sade e quella di Justine. Come da stereotipo, la prima sprigiona i fantasmi da cui nasce la seconda.