SILLING. IL CASTELLO
4.3. Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini 1. Pasolini/Sade
4.3.2. Salò. La villa, il castello
Il riferimento a Sade in coda a L'âge d'or narrava la parabola finale dell'arco della violenza. Se nello stato di natura degli scorpioni e dei banditi la forza si configurava come uno strumento di sopravvivenza, nel castello trovava infine la sua perversione: persa la necessità pratica di difesa personale e territoriale, veniva completamente riformulata in senso simbolico. È questa medesima chiusura che induce Pasolini a ragionare sulla propaggine velenosa, sull'aculeo di un periodo storico, il fascismo. Come in L'âge d'or, anche la violenza dei fascisti che ci mostra Pasolini perde ogni sostanzialità per diventare pura forma, maniera, trompe l'oeil: essa non è finalizzata al mantenimento del potere ma appare un gioco anarchico all'interno del medesimo, privo di ogni legame con la società e la storia.
Il castello di Salò è un'imponente villa in stile neoclassico (la location è Villa Aldini, sui colli bolognesi). La sua facciata esibisce un colonnato e un timpano decorato da un bassorilievo. La villa impressiona per la freddezza razionalista delle linee e per il suo costituirsi come uno spazio vuoto, o svuotato. L'arredamento che ne decora le sale interne è scarno, minimale. Entrambi gli elementi – la razionalità, il vuoto – hanno una parte fondamentale nella costituzione del registro semantico del film. Benché la narrazione non lo espliciti, Pasolini suggerisce in un'intervista (Bachman, 1976) che i quattro signori fascisti abbiano preso possesso di una villa confiscata a qualche “ricco ebreo”. La presenza di “arte degenerata” alle pareti sembra voler esprimere questo tratto.
Come abbiamo già accennato, è l'intuizione di trasporre l'ambientazione del romanzo all'epoca della Repubblica Sociale Italiana a convincere definitivamente Pasolini del progetto sul romanzo di Sade. L'attrito e la tensione che si creano tra i due poli storici produce la scintilla del film. Tale analogia, apparsa a Pasolini come “illuminazione”, “lampo ”o “visione”37, serve al regista a descrivere e allo stesso tempo eludere un presente che, come artista, si rifiuta di rappresentare direttamente.
L’interesse di Pasolini, più che sul legame tra fascismo e sadismo, si dirige verso la perversione del fascismo repubblichino, verso l’isolamento dal mondo di un’ideologia (il fascismo a Salò, il sadismo nel castello delle 120 giornate) e la sua deriva in una superficie priva di pensiero. Pasolini ragiona cioè intorno all'enfatizzazione (manierista, barocca) del presunto nucleo d'identità originario che una forma politica o culturale esibisce quando l'approssimarsi della sua fine la costringe alla radicalizzazione. Sono i momenti in cui il potere è costretto a manifestarsi nella sua natura più pura, belluina, a disvelare la rabbia più profonda, l'anarchia che giace al centro del suo cuore: “la vera anarchia”, afferma il duca di Salò, “è quella del potere”. Pasolini arriva così a scavare nel nucleo originario del potere sovrano, capace “non solo di imporre o deporre la legge ma di imporne la deposizione” (Esposito, 2010, p. 204).
Il fascismo della Repubblica Sociale Italiana è in fuga da se stesso, nel mezzo di una guerra. Uno dei primi legami tra il libro di Sade e l'adattamento di Pasolini sta nell'insistenza dell'incipit sul tema bellico: è proprio “guerres” il sostantivo che apre il manoscritto de Le 120 giornate di Sodoma38. Se nel libro le guerre servono ai libertini ad accumulare ricchezza, nel film l'esito della Seconda guerra mondiale
37 “È un'idea formale, l'illuminazione che ho di quello che deve essere un film, che è inesprimibile a parole. […] Per De Sade questo lampo l'ho avuto nel momento in cui ho deciso di trasporre Le 120 giornate di Sodoma nella primavera del '44 e ho quindi visto la coreografia fascista” (Pasolini, 1979b, p. 3013). E ancora: “Ho 'visto' i fatti di de Sade in un universo borghese ingiallito. Ho sentito il rumore di un bombardamento mentre una delle vittime è costretta a mangiare degli escrementi appena evacuati da un carnefice sopra il pavimento ben lucidato. Fino al momento in cui questa idea si è presentata [...] il film era di Sergio Citti; poi è diventato mio. [...] L'idea formale (de Sade nel '44) conteneva già tutto ciò che si chiama contenuto” (in Rondi, 1980, p. 217).
38 “Le grandi guerre [Les guerres considérables] che Luigi XIV ebbe a sostenere durante il suo regno, esaurendo da un lato le finanze dello Stato e le risorse del popolo, fornirono dall'altro l'espediente per arricchirsi a quell'enorme quantità di sanguisughe sempre a caccia delle calamità pubbliche che essi provocano invece di attenuare, e ciò per trarne maggiori vantaggi” (p. 41, traduzione modificata).
appesantisce i fascisti del fardello di frustrazione e voglia di vendetta che deriva dalla consapevolezza di una sconfitta imminente. Sciolto da ogni legame con la realtà, il fascismo allo stadio terminale della Repubblica di Salò crea le condizioni perché la coreografica patina estetica che decorava o imbellettava il fascismo del Ventennio si sciolga per rivelarne, sfacciatamente, la marcescenza e corruzione soggiacenti. Quella che viene messa in immagine in Salò è, letteralmente, la nudità del fascismo. “La vicenda della Repubblica di Salò, metastasi di un indecoroso camuffamento politico, è per Pasolini lo spazio storico in cui far coincidere la visione sadiana della Legge come Tirannia assoluta, con la critica all'autoritarismo dei mezzi di comunicazione di massa” (Murri, 2001, p. 53). La tematica classica del castello sadiano come rifugio per la brutalità dei libertini è quindi applicata a un preciso contesto storico-politico. Ancora una volta, all'interno del castello, il delirio di potere dei signori cancella ogni legame con la Storia e con la stessa ideologia: il fascismo viene richiamato di sfuggita (“Noi fascisti siamo i soli veri anarchici, naturalmente una volta che ci siamo impadroniti dello Stato”); durante una cena viene inoltre intonato l'ambiguo canto alpino “Sul ponte di Perati”, inno di un esercito che non può e non sa ribellarsi e accetta con fatalismo il suo destino di morte.
Della guerra, dentro la villa di Salò, si percepisce solo il rombo di caccia lontani. Salò descrive tale distacco del fascista-libertino dalla realtà, e con esso l'annientamento di ogni dimensione storico-politica in favore dell'hic et nunc consentito dal castello, che offre protezione a chi vi si ripara e permette la creazione di un'utopia del male ancorata al presente e ad esso soltanto. Diversamente dai libertini di Sade, i quattro fascisti di Pasolini “esistono per manifestare un vuoto presente che li include. Non sono dei marginali” (Maggi, 2009, p. 287).
Il castello di Salò si mostra proprio come luogo che si svuota, che ambisce alla conquista del vuoto: è privato di storia, di ideologia e prosciugato naturalmente anche di abitanti, via via eliminati dallo scatenarsi della furia omicida libertina. Come afferma Le Brun, “questo castello che il pensiero libertino non cerca che di riempire di esperienze, di certezze, questa fortezza che la protesta sociale non cerca che di riempire di ignominie per giustificare la sua veemenza, questa rovina
che la corrente sentimentale non cerca che di riempire di emozione, Sade lo vuota” (Le Brun, 1982, p. 75). Lo svuotamento progressivo del castello di Salò è ben segnalato da Davide Pulici (2010), che passa in rassegna il registro delle presenze dei diversi attori per rilevare come il bilancio di morti e superstiti del film sia impossibile da fissare. Se il romanzo si conclude su una ricapitolazione “contabile” di vittime e sopravvissuti (p. 329), nel film qualcosa si perde senza lasciare traccia: la sottrazione dei vivi dall'elenco dei partecipanti è un'operazione che Pasolini non si e non ci consente. Il mistero, per rimanere tale, per perpetuarsi anche al di là della scritta “fine”, non può avere una soluzione algebrica.
I fascisti libertini si insediano dunque in una terra di nessuno che è lo spazio ideale per la loro affermazione. Approfittano di un'architettura, il castello, che eleva al quadrato una caratteristica già propria della forma storica del fascismo repubblichino, ovvero il ripiegamento temporale. Il ritorno al luogo mitico delle presunte origini – le origini “sociali” dei fascismo ai suoi albori – si basa sulla volontà di fondare il futuro rinnegando il passato più prossimo. La curvatura spazio-temporale fornita dal castello offre rifugio ospitale a quell'avvitamento paradossale della storia costituito dalla Repubblica Sociale Italiana.
Si tratta peraltro anche di una concezione della temporalità peculiare dell'opera letteraria e cinematografica di Pasolini, a proposito delle cui poesie in friulano Guido Santato (2007, p. 17) scrive: “La dimensione della temporalità si svolge à rebours, in direzione opposta rispetto alla successione del tempo storico: vivere è rivivere o sopravvivere ricordando. Nel presente si specchia un passato che diviene un tempo sempre più assoluto. Il sentimento del tempo è un sentimento della perdita”. Nell'opera di Pasolini si assiste spesso al meccanismo per cui il passato remoto, prepolitico o addirittura preistorico, racchiude in sé un progresso che il presente non sembra capace di raggiungere, come se la vera modernità fosse sepolta in qualche era perduta39. Ma “il rimando all'origine preistorica o
39 Uno dei passaggi più famosi di Poesia in forma di rosa (1964, p. 26) recita: “Io sono una forza del Passato. | Solo nella tradizione è il mio amore. | Vengo dai ruderi, dalle chiese, | dalle pale d'altare, dai borghi | abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, | dove sono vissuti i fratelli. | Giro per la Tuscolana come un pazzo, | per l'Appia come un cane senza padrone. | O guardo i crepuscoli, le mattine | su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, | come i primi atti della Dopostoria, | cui io assisto, per privilegio d'anagrafe, | dall'orlo estremo di qualche età | sepolta. Mostruoso è chi è nato | dalle viscere di una donna morta. | E io, feto adulto, mi aggiro | più moderno di ogni moderno | a cercare fratelli che non sono più”.
prerazionale non si esaurisce mai in un semplice richiamo alla 'forza del passato', che pure il poeta dichiara di incarnare, ma si spinge in avanti, proiettandosi oltre la linea del presente” (Esposito, 2010, p. 193). La “nuova preistoria” è sempre arretrata all'indietro e proiettata in avanti. Quella della temporalità è dunque una nozione stratificata, tutt'altro che linearmente progressiva: “se l'entropia del presente implica, o induce, quella del passato è perché essi, piuttosto che semplicemente successivi, sono, in un certo modo, anche contemporanei” (p. 199). Nella rottura con il tempo contemporaneo e nella ricerca dell'origine Pasolini trova un ponte che lo conduce al superamento del tempo. Anche nel caso di Salò l'utopia degli eroi sadiani diventa un'ucronia: il loro tempo non si ritrova in un passato storico ma al di fuori del tempo e nell'aldilà della specie. “Quella stessa vita assoluta, o dissoluta, perché priva di mediazioni formali, che fa attrito con la storia e si divarica da essa, è sì ciò che la precede, ma anche ciò che la segue – il 'dopo' verso cui la modernità precipita lungo una deriva apparentemente inarrestabile” (p. 194). La consonanza con la riflessione sull'età dell'oro così come viene formulata da Furio Jesi (e per come l'abbiamo interpretata alla luce di Sade e Buñuel) è totale40.
L'applicazione di una concezione propriamente pasoliniana di temporalità all'ambito d'azione dei fascisti libertini è interpretabile come un ulteriore segnale di disperazione. La volontà di vivere un tempo costruito sul filo di un'immaginaria vicinanza tra passato remoto e futuro viene ad essere strumentalizzata e letteralmente pervertita. Gli abitanti dello spazio dell'età dell'oro si sono trasformati in personaggi disgustosi, “mostri di un eterno presente” (Maggi, 2009, p. 336): i sadici, i fascisti e i loro complici, certo, ma anche le vittime, altrettanto colpevoli.
All'inizio del film, nell'Anti-inferno, quando i signori compiono il rastrellamento che serve a popolare il castello di vittime e collaborazionisti, è impossibile
40 Richiamiamo qui brevemente il riferimento: “Il castello o il monastero, isolati dal resto del mondo, sono i nuclei del mondo futuro: simboli di una fondazione d'una futura età dell'oro, della quale si può dire soltanto che nascerà dalla contraddizione sistematica dell'umano, e dell'umanità come specie. […] Il passato […], per sopravvivere, dev'essere dimenticato e cioè durare nel presente. Il presente in cui vive Sade ha dimenticato il passato [dell'età dell'oro, NdR], e Sade lo deplora; ma la fatalità di quell'oblio che appare come una degenerazione (i divieti religiosi e sociali) consente a chi si isola dal presente – nel castello o nel monastero – di vivere il passato e di fondare il futuro” (Jesi, 1979, pp. 134-135).
distinguere le prime dai secondi. Hanno lo stesso atteggiamento e lo stesso corpo. Il genocidio culturale ha reso uguali, fisicamente indistinguibili, carnefice e preda. Non c'è soluzione di continuità tra quelli che sono criminali e quelli che non lo sono. Ogni forma di innocenza viene negata. I corpi, lungo tutto il film, vengono visti come intercambiabili, puri oggetti enumerabili.
L'attrazione esercitata dal testo di Sade su Pasolini è sicuramente dovuta anche al conturbante specchio che trovano nelle 120 giornate le sue convinzioni sulla forza livellatrice della civiltà dei consumi. In questo contesto un gesto ovvio come quello di schierarsi dalla parte del più debole diventa problematico, incerto. Scrive Sade: “il più forte trovava sempre giustissimo quanto il più debole considerava ingiusto, e [...] cambiando l'uno e l'altro di posto, ambedue cambiavano parimenti modo di pensare” (Le 120 giornate di Sodoma, p. 56).
Ogni coscienza di classe e possibilità di lotta di classe escono inevitabilmente vanificate da tali considerazioni. La classe al potere e la classe sottomessa, la borghesia e il proletariato, svolgono semplicemente una funzione provvisoria: il dominio e la capacità di sfruttamento, che restano di pertinenza della classe al potere, non si basano su nessuna differenza tra le due classi che non sia nell'ordine dettato dalle circostanze della storia. Non c'è distinzione reale, antropologica. La dialettica hegeliana che mette in moto il progresso ne esce inevitabilmente paralizzata. Perde di efficacia ogni possibilità di soluzione legata agli strumenti della politica.