“Non è una filosofia, né un discorso e ancora meno una scrittura
che Sade ha inventato ma uno spazio” (Annie Le Brun, 1982, p. 57)
Il godimento del libertino può trovare la sua soddisfazione tanto nel fantasma della trasparenza perfetta, manifestandosi a scena aperta, dando espressione al suo esibizionismo di fronte a degli osservatori, quanto nell'eccitante opacità del gabinetto, dove va in cerca di scarto (Le Brun, 1986, p. 374), di uno spazio di solitudine con il suo oggetto di godimento. Nella casa della “Società degli amici del crimine” di Juliette, dove trova domicilio l'ennesima utopia sadiana, sono previste sia delle sale per coloro che vogliono provar piacere gli uni di fronte agli altri sia dei gabinetti per chi desidera restare solo con il suo partner o la sua vittima.
In ogni caso il piacere si relaziona a uno spazio, naturale o, più spesso, architettonico: “la potenza del racconto sadiano di progettare un mondo si basa largamente sulla dimensione architettonica di questo mondo, poiché da essa dipende l'esperienza finzionale dello spazio, così come è resa dai personaggi essi stessi finzionali del racconto” (Kozul, 2005, p. 11). Sade mette costantemente in rapporto il disegno architetturale e il fantasma erotico: spazio, azione e attori entrano in una relazione continua, che fornisce al racconto le sue coordinate di senso: “il corpo architetturale e il corpo erogeno organizzano uno spazio funzionale che di volta in volta circoscrivono e saturano” (p. 27).
Anche dal punto di vista della costruzione architettonica Sade si spinge nella direzione dell'utopia. I suoi edifici non hanno né sono interessati ad avere base pragmatica, ma rimangono un puro frutto dell'immaginazione. In una lettera spedita alla moglie (cit. in Kozul, 2005, p. 11) Sade parla di un bozzetto di edificio da lui tracciato. Madame De Sade, su sua indicazione, lo fa pervenire a un architetto. Quest'ultimo ne ricava un progetto, ma Sade lo rigetta considerandolo una totale incomprensione. Afferma che la sua idea fa riferimento a un “sublime che è al di fuori di ogni esecuzione”, parla di “piacevole chimera”, ribadendo anche in quest'ambito la superiorità dell'immaginazione rispetto ad ogni tipo di realizzazione. La parola “sublime”, che partecipa sicuramente della definizione burkiana del termine, indica qui un “punto di convergenza, ma anche di rottura, tra l'effetto di realtà e l'investimento immaginativo e fantasmatico che dovrebbe concorrervi” (Kozul, 2005, p. 15).
La logica con cui vengono costruiti gli edifici di Sade è quella dell'organizzazione del racconto, di una tassonomia delle passioni, non quella di una disposizione equilibrata degli spazi. Entrando nei luoghi sadiani viene meno ogni interesse per la verosimiglianza: si abbandona la realtà per avventurarsi nel suo “cuore sepolto” (Le Brun, 1986, p. 375), in un mondo oscuro fatto di pietra e di vuoto.
La condizione, il prerequisito perché gli spazi architettonici (o, in seconda battuta, naturali) siano ritenuti confortevoli e ospitali dai signori sadiani è la loro chiusura e inaccessibilità. La sovranità del libertino è basata sull'isolamento. Sade, che lo teorizza, definisce questo stato con un neologismo: “isolisme”. Tale condizione è ontologica, rappresenta una “tesi filosofica”, il “motto stoico dei libertini”, una “promessa di piacere”, il “nocciolo dell'impolitica sadiana” e della sua “antropologia negativa” (Roger, 1995, p. 88). L'isolamento risponde alla situazione esistenziale più autentica per l'uomo sovrano (l'uomo integrale, l'Unico...) che ha bisogno di segregare il proprio godimento per portarlo al grado massimo di intensità. Gli spazi geografici e architettonici di cui egli va in cerca sono studiati per assecondare questa esigenza.
Nei romanzi di Sade compaiono così case qualificate come deserte, lontane, impenetrabili, impraticabili, inabbordabili, isolate, ritirate, segrete, separate, solitarie... La geografia dei romanzi è occupata da castelli, fortezze, padiglioni,
conventi, monasteri; gabinetti, cripte, celle, cellule, loculi, nicchie, cappelle, camere, ridotti, cantine; isole, sotterranei, buchi... A essi si aggiungono, come spazi per l'intimità, l'alcova, il bordello, il boudoir, il bagno... (cfr. Fauskevåg, 2001). I luoghi in cui Sade ambienta le sue storie si inseriscono in buona parte nella definizione di istituzioni totali proposta da Erwin Goffman1. Tutta la giornata dei protagonisti, tutte le loro attività – lavoro, svago, mangiare, fottere... – si svolgono infatti all'interno di un'unità di spazio che garantisce la continuità del vivere libertino.
Questa chiusura accanita risponde secondo Barthes (1971) a una triplice funzione. Prima di tutto, naturalmente, serve a isolare e proteggere la lussuria dalle spedizioni punitive del mondo. Ma a questa caratteristica pratica si somma un'esigenza di tipo filosofico, una qualità di esistenza, una “voluttà di essere” (Barthes, 1971, p. 6) che si libera solo nella lontananza da ogni sguardo anche complice, nell'irreversibile solitudine del libertino con il proprio oggetto2. L'isolamento, in terza battuta, risponde alla funzione di aprire lo spazio a un'autarchia sociale: “una volta rinchiusi, i libertini, i loro aiutanti e i loro soggetti formano una società completa, fornita di un'economia, di una morale, di una parola, e di un tempo, articolato in orari, lavori e feste. Qui come altrove, è la chiusura a permettere il sistema, vale a dire l'immaginazione” (ibid.).
Queste righe di Barthes permettono un'ulteriore riflessione che parte dal dato storico-biografico della vita di Sade, così come ci viene suggerita dagli studi di Michel Foucault sul tema della follia. In Sade abbiamo infatti di fronte la figura di un autore che, costretto alla detenzione, costruisce storie ambientate in ambienti da cui non si può fuggire. A partire da questo dato, Foucault (1972, pp. 302-303) inferisce:
1 “Uno degli assetti sociali fondamentali nella società moderna è che l'uomo tende a dormire, a divertirsi e a lavorare in luoghi diversi, con compagni diversi, sotto diverse autorità o senza alcuno schema razionale di carattere globale. Caratteristica principale delle istituzioni totali può essere appunto ritenuta la rottura delle barriere che abitualmente separano queste tre sfere di vita” (Goffman, 1961, p. 35).
2 Barthes (1971, p. 6) cita il seguente passaggio delle 120 giornate: “Non ci si immagina come la voluttà sia servita da tali sicurezze e che cosa s'intraprenda quando si può dire: 'Io qui sono solo, sono in capo al mondo, sottratto a tutti gli sguardi e senza che ad alcuna creatura possa occorrere la possibilità di arrivare a me; non più freni, non più barriere'”.
Non è un caso se il sadismo, come fenomeno individuale che reca il nome di un uomo, è nato dall'internamento e nell'internamento, se tutta l'opera di Sade è ispirata dalle immagini della Fortezza, della Cella, del Sotterraneo, del Convento, dell'Isola inaccessibile, che formano così il luogo naturale della sragione. Non è un caso neppure se tutta la letteratura fantastica di follia e d'orrore che è contemporanea all'opera di Sade, si situa nei luoghi dell'internamento.
Secondo Foucault l'apparizione del sadismo, definita “una delle più grandi svolte del pensiero occidentale” (p. 302), come fenomeno storico (e non come tendenza sempre presente nelle manifestazioni dell'eros) coincide con il momento in cui la sragione3 viene rinchiusa. Le fortezze dell'internamento, nate per adempiere a una funzione sociale di segregazione e di purificazione, per rispondere alla richiesta di bloccare il contagio della sragione tramite l'esclusione dal vivere sociale di chi ne era colpito, hanno svolto un ruolo culturale del tutto opposto. Proprio mentre si riteneva di essere riusciti a proteggere il mondo dal male dopo che lo si era costretto ed isolato, si scopre che esso trova proprio in quel luogo concentrazionario un fulcro che ne alimenta la forza. Eccolo quindi ricomparire sotto un aspetto immaginario, come discorso che manifesta una paura e nasconde un desiderio. Lo spavento morale nei confronti di tali spazi di reclusione non riesce a celarne (cosa particolarmente interessante nel contesto del nostro studio) la forza di fascinazione:
questi stessi pericoli affascinano a un tempo l'immaginazione e i desideri. La morale sogna di scongiurarli; ma nell'uomo c'è qualcosa che comincia a sognare di viverli, di accostarli almeno, e di liberarne i fantasmi. L'orrore che ora circonda le fortezze dell'internamento esercita anche un'irresistibile attrazione. Si popolano volentieri quelle notti di inaccessibili piaceri; quelle figure corrotte e straziate diventano fisionomie di voluttà; su quei paesaggi oscuri nascono – dolori e delizie – delle forme che ripetono Bosch e i suoi deliranti giardini. I segreti che sfuggono al castello delle Centoventi Giornate vi sono stati a lungo mormorati (Foucault, 1972, p. 301).
3 Foucault distingue la sragione dalla follia: mentre la seconda ha a che fare, secondo le indicazioni cliniche dell'epoca, con le figure dell'alienazione, della debolezza di spirito, del furore, la prima viene a indicare la perdita di accettabilità sociale identificata in pensieri devianti (libertinaggio, ateismo...) e in comportamenti rubricati sotto le forme del vizio, della corruzione e della deviazione sessuale.
Queste immagini che si liberano alla fine del XVIII secolo, “invece di manifestare allo sguardo l'improvvisa presenza dell'insensato, lasciano scorgere la strana contrapposizione degli appetiti umani: la complicità del desiderio e del delitto, della crudeltà e della sete di sofferenza, della sovranità e della schiavitù, dell'insulto e dell'umiliazione” (p. 302).
In un'ottica di storie delle idee, dunque, il legame tra internamento e la nascita storica del sadismo come fenomeno culturale (e anche come nome: abbiamo visto che la parola “sadismo” è attestata nei dizionari sin dal 1834, appena vent'anni dopo la morte di Sade) non è occasionale ma strutturale, conseguenza di un tentativo empirico di rimozione della sragione, che produce un contagio simbolico originato dall'internamento. La figura di Sade assume in questo contesto una funzione di deflagrazione: “l'uomo scopre in fondo a se stesso, all'estremità della propria solitudine, in un punto che non è mai raggiunto dalla felicità, dalla verosimiglianza e dalla morale, i vecchi poteri che l'età classica aveva scongiurato ed esiliato alle frontiere più lontane della società” (p. 387).
Nei fatti, ogni volontà di isolamento ed esclusione che si voleva affidare all'istituzione manicomiale viene dunque annullata. Le visioni della follia che si intendevano cancellare ne escono invece conservate e moltiplicate. Come per gli spazi chiusi descritti nei romanzi di Sade, l'immaginazione trova in quei luoghi una nuova impronta su cui modellarsi: i muri sono destinati ad accenderla con la forza di un'attrazione irresistibile.
In parallelo, le fortezze inespugnabili di Sade sono costruite letterariamente in modo funzionale alla violazione della loro chiusura da parte dello sguardo dei lettori. Il luogo chiuso narrativo a sua volta si propone lo scopo di eccitare il voyeurismo del lettore (e poi dello spettatore) attraverso le pratiche di infrazione della segretezza che il testo gli offre. Lo spazio per lo sguardo si apre nel momento stesso della sua interdizione.
Ragionare sulla presenza cinematografica di Sade equivale a percorrere i luoghi che la contengono, esplorare gli ambienti – in genere circoscritti e invalicabili – in cui i film trovano il loro contesto. I luoghi occupati dai film a tematica sadiana non rimangono infatti solo funzionali al racconto ma mettono a fuoco alcune delle
questioni chiave poste dalla figura di Sade nel suo rapporto con il tema dello sguardo e della visione.
Per analizzare le pellicole prescelte, ci è sembrato quindi utile – più che affrontarle da un punto di vista autoriale, osservando capitolo dopo capitolo come la figura di Sade venga presa in considerazione dai singoli registi – utilizzare le cornici offerte da questi spazi. L'accostamento di pellicole diverse accomunate dall'inserimento del racconto nel medesimo spazio permette di circoscrivere le domande affrontate sinora sui temi della riflessività, della mise en abyme, del voyeurismo, della protezione dello sguardo e della sua chiusura.
È proprio sull'interazione tra i personaggi e le costrizioni dello spazio in cui si muovono che si concentra spesso, come vedremo, l'interesse di registi che si avvicinano alla figura o all'opera di Sade. Ai luoghi evocati nelle pagine di Sade vanno affiancati quelli occupati dalla sua biografia, in virtù (oltre che della sedimentata confusione tra l'autore e la sua vita) dell'ampia intersezione tra i primi (il castello, il bordello, il viaggio, il convento, la foresta...) e i secondi (il castello, il bordello, il viaggio, la prigione, il manicomio...). Abbiamo voluto quindi individuare cinque spazi, che ci permettono di racchiudere quelli che sono i più importanti film a tematica sadiana:
1. Il castello. “Il modello del luogo sadiano è Silling” (Barthes, 1971, p. 5), il castello nella Foresta Nera in cui si rinchiudono i quattro libertini delle 120 giornate di Sodoma. Vi fanno riferimento L'âge d'or di Luis Buñuel e Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini.
2. La prigione. La Bastiglia, una delle tante prigioni in cui Sade viene detenuto nel corso della sua vita, costituisce un altro luogo dalla fortissima carica simbolica. È al suo interno che si ambienta, tra gli altri, Marquis di Xhonneux/Topor.
3. Il manicomio. Il manicomio parigino di Charenton, luogo centrale nella storia della psichiatria, ospita D.-A.-F. De Sade negli ultimi undici anni della sua vita. All'interno di un manicomio trovano la loro collocazione il Marat / Sade, dramma di Peter Weiss portato in scena e poi al cinema da Peter Brook, Šílení di Jan Švankmajer e altre opere a dedica sadiana.
4. Il teatro, altro contesto chiuso indispensabile per collocare l'opera (gli scritti teatrali ma anche la totalità dei romanzi) e la vita di Sade, drammaturgo mancato.
È all'interno di questa cornice che si possono collocare film come il biopic Sade di Cy Endfield, che ricostruisce la vita di Sade mettendola in scena su di un palcoscenico, ma anche altre opere che giocano sulla mise en abyme e sulla meta-narrazione.
5. Il viaggio, luogo imprescindibile quanto effimero all'interno dell'opera sadiana. Come insegna Roland Barthes, si viaggia infatti solo per rinchiudersi: il viaggio serve come transizione, come tendina, costituisce il pretesto per spostarsi da una scena all'altra, da un luogo chiuso all'altro4. Il regista che mostra con maggior insistenza il movimento dei personaggi sadiani è Jess Franco.
Lo spazio chiuso non chiude, ma apre anzi lo spazio a nuove presenze: lo spettatore è introdotto in luoghi nascosti, letteralmente esclusivi. Il film lo invita a sentirsi parte di un scena (un retroscena) che non dovrebbe essere a disposizione del suo sguardo. La sua visione diviene quella di chi ha accesso a uno spazio proibito. Basta questo a stabilire una complicità su cui lo spettatore sarà costretto a interrogarsi, anche per motivo della struttura riflessiva di molti dei film a tematica sadiana. Alcuni registi vorranno ribadire questa complicità, assecondarla; altri denunciarla; altri porla in tutta la sua crudezza davanti ai nostri occhi. Sono ragionamenti che, in ogni caso, ci portano sempre a fermarci sulla soglia della visione, indecisi tra un dentro e un fuori, il guardare e il non guardare, l'inclusione o l'esclusione. Ci sembra sia quindi utile condurre la nostra indagine provando a ragionare sugli spazi e sulle dinamiche dello sguardo, interne ed esterne al film, che essi propongono.
4 “Si viaggia molto in certi romanzi di Sade [in particolare Justine, Juliette e Aline e Valcour, NdR]. Juliette percorre (e devasta) la Francia, la Savoia, l'Italia fino a Napoli; con Brisa-Testa si raggiunge la Siberia, Costantinopoli. Il viaggio è facilmente un tema iniziatico; tuttavia, benché Juliette cominci con un apprendistato, il viaggio sadiano non insegna niente; […] le città non sono che procacciatrici, le campagne ritiri, i giardini scenari e i climi operatori di lussuria; sempre la stessa geografia, la stessa popolazione, le stesse funzioni; ciò che conta percorrere non sono contingenze più o meno esotiche, è la ripetizione di un'essenza, quella del crimine […]. Se quindi il viaggio è diverso, il luogo sadiano è unico: si viaggia tanto solo per rinchiudersi” (Barthes, 1971, p. 5).
CAPITOLO 4.