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SILLING. IL CASTELLO

5.3. Sade di Benoît Jacquot

Picpus è uno degli undici luoghi di detenzione abitati da Sade nel corso della sua vita di recluso, una delle “prigioni del regime della libertà” (Lely, 1982, p. 489) in cui viene a trovarsi durante il periodo rivoluzionario (le altre sono le Madelonnettes, Carmes e Saint-Lazare). Picpus ufficialmente non è un carcere ma una casa di cura, in cui gli ospiti, in genere molto abbienti, possono beneficiare di stanze private e di una libertà di movimento abbastanza ampia tra la residenza, il cortile, il giardino.

Inizialmente Sade definisce Picpus un “paradiso terrestre” (cit. in Pauvert, 1990, p. 141): negli anni del Terrore le mura di Picpus riparano gli ospiti da un mondo esterno feroce. Dalla fine di giugno del 1794 quelle mura perdono però la loro funzione protettiva per inglobare al loro interno i frutti più macabri del parossismo

8 Sul tema della (costitutiva) presenza della morte nel cinema d'animazione si veda Tomasovic (2006).

rivoluzionario: una parte dei prati di Picpus è sacrificata per ospitare due fosse comuni, destinate a contenere migliaia di corpi di ghigliottinati provenienti dalla vicina Place du Trône Renversé. L'andirivieni continuo di carretti colmi di morti, il processo di putrefazione che la terra e la calce non riescono a nascondere, l'odore spaventoso che impregna il quartiere rendono insostenibile il soggiorno a Picpus. A questo proposito Sade scriverà (lettera del 21 gennaio 1795, cit. in Pauvert, 1990, p. 152): “La mia detenzione nazionale, la ghigliottina sotto gli occhi, m'ha fatto cento volte più male di quanto me ne avevano fatto tutte le Bastiglie immaginabili”.

Proprio a Picpus trova la sua ambientazione Sade di Benoît Jacquot. Come accade spesso nel cinema sadiano, il film aggiunge agli elementi tratti dalla biografia del marchese invenzioni di fantasia e componenti ispirate ai romanzi: ecco dunque che, come ne La filosofia nel boudoir, a Picpus è presente un giardiniere di nome Augustin che si presterà a “corrompere” una giovane rampolla, che non si chiama qui Eugénie, bensì Emilie.

Dopo aver trascorso anni nelle prigioni reali, il Sade di Jacquot vive con incredulità la nuova condanna. L'ambiguità con cui guarda privatamente al cambiamento rivoluzionario è illustrata da pochi, incisivi tratti: “Vedo nella rivoluzione la rivincita del debole sul forte” – una pretesa odiosa per uno scrittore che del disprezzo del debole ha fatto la propria bandiera.

Gli spunti più interessanti del film provengono dalla contraddizione e inversione tra gli ideali del Terrore e quelli sadiani: ad esempio la contrapposizione a distanza tra un apologeta dell'ateismo, Sade, e Robespierre, che in quei mesi istituisce il culto dell'Essere Supremo e parla dell'ateismo come di un vizio aristocratico. Ma si assiste a un vero e proprio capovolgimento anche in relazione alla violenza: con l'adozione delle fosse comuni e le morti di massa la Rivoluzione sembra abbracciare i più distopici progetti sadiani realizzando un mondo dove regnano la spietatezza e la distruzione. Sade tuttavia distoglie il capo, nauseato, non riconoscendo in questa realtà una realizzazione delle sue fantasie.

Le scene di morte di massa allestite da Jacquot richiamano certamente i parallelismi tra il mondo di Sade e quello dei campi di concentramento nazisti di cui hanno scritto in molti, fra i primi il già citato Raymond Queneau, che in una

corrispondenza giornalistica del 3 novembre 1945 commenta: “È incontestabile che il mondo immaginato da Sade e voluto dai suoi personaggi (e perché non da lui stesso?) è una prefigurazione allucinante del mondo dove regnano la Gestapo, i suoi supplizi e i suoi campi” (Queneau, 1950, p. 199). La posizione del film sembra invece essere affine a quella parte di critica sadiana per la quale quello di Sade è il “linguaggio di una vittima”: Jacquot mostra un Sade “bianco” (v. Parrot, 1947) incapace di gioire davanti alla distruzione reale.

L'arrivo della ghigliottina nel cortile di Picpus assume dunque il carattere di un trauma. Lo è certamente per Sade, costretto a ribadire e a difendere la distanza tra la violenza della sua immaginazione e quella del mondo reale. Ma lo è anche per le private esistenze degli aristocratici, costretti a convivere non solo con l'estremo disagio di osservare i segni della decomposizione sotto le loro finestre, ma anche con la funzione di memento mori costituito dal macchinario stesso: non è remota la possibilità che quel medesimo destino tocchi anche loro. Lo stesso Sade (la reale circostanza storica è ripresa e romanzata dal film di Jacquot) deve essere condotto al patibolo, ma le guardie lo cercano nella prigione sbagliata. Al trauma aristocratico si somma poi quello repubblicano: del governo rivoluzionario vengono mostrati brevemente i contrasti, fino al 9 Termidoro. L'accumulo di morti prodotto dal Terrore produce l'effetto visivo di seppellire, insieme ai cadaveri decollati dei nobili, anche gli ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza. È interessante infine notare come nel film la comparsa del trauma coincida con la messa in scena di una recita da parte di un Sade che, come da vocazione, si improvvisa regista e coinvolge nella rappresentazione gli altri detenuti-degenti. Quelli che vengono rappresentati sono dei tableaux vivants in cui il Marchese declama testi ambientati in un harem. Gli attori, in costumi orientali, rimangono fermi sul piccolo palco, immobilizzati in un complesso figurativo e architettonico. La recita è interrotta dall'arrivo di coloro che sono incaricati di scavare le fosse comuni dove, quella notte stessa, saranno depositati i cadaveri dei nobili decapitati. Il trauma interrompe il momento della rappresentazione, spezza il piano simbolico per dare spazio all'irruzione del reale. La fissità del tableau vivant, la sua cristallizzazione, è ricondotta al movimento dalle necessità della

storia. Di fronte ai cadaveri ogni rifugio nell'immaginazione viene a saltare. Sade è costretto a deporre almeno temporaneamente la penna.