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SILLING. IL CASTELLO

4.3. Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini 1. Pasolini/Sade

4.3.4. La posizione del voyeur

Nella scena finale del film tre libertini a turno osservano con un binocolo, dal primo piano della villa, una sequenza di torture e uccisioni che vengono compiute nel cortile dagli altri signori e dai collaborazionisti. Lo sguardo del potente dalla finestra, i continui campi e controcampi dettati dalla sua visione scandiscono il ritmo delle azioni omicide. È soprattutto in ragione di questa scena che Salò si

manifesta come un oggetto teorico fondamentale all'interno della riflessione che stiamo conducendo sul tema sguardo-corpo-violenza.

Blangis entra in una stanza e si siede su un trono rialzato, posto davanti a una grande finestra chiusa da una tenda. Prima di sedersi si ferma per una pausa, accentuando ulteriormente il carattere rituale che domina la sequenza. Si tratta di accedere al dispositivo preposto alla visione. La tenda, come un sipario, viene tirata. Un milite passa a Blangis il binocolo. Inizia il dialogo serrato tra colui che guarda e ciò che viene visto. Tre dei quattro libertini (Blangis, Durcet e Curval) si daranno il cambio in questo ruolo.

Le inquadrature che si alternano durante la scena sono di tre tipi: piani che riprendono il libertino (frontalmente, da dietro il trono o di profilo), l'interno della stanza e l'esterno. Il montaggio che li mette in sequenza non segue uno schema regolare: le inquadrature di profilo e frontali dei libertini, le torture oggetto dello sguardo e le inquadrature dei collaborazionisti alle spalle del voyeur si alternano senza una consequenzialità precisa. La struttura ternaria che costruisce una basilare “idea cinematografica” (inquadratura su chi guarda / oggetto dello sguardo / nuova inquadratura su colui che guarda, ovvero oggettiva / soggettiva / e oggettiva “di reazione”)50 ricorre regolarmente all'interno di questa sequenza, ma perde tuttavia di senso proprio di fronte alla mancanza di reazione, all'apatia di colui che guarda.

Tale distacco, che verifica l'ipotesi klossowskiana pienamente recepita da Pasolini sull'assuefazione del libertino al male, si riscontra in particolare osservando il primo dei tre voyeur, Blangis, che occupa per più tempo la sedia panoramica e a cui è dedicato il maggior numero di inquadrature. Il suo sguardo è glaciale, la sua oggettiva “di reazione” non si distingue da quella che prelude alla visione binoculare. Soltanto nell'ultima inquadratura, che lo mostra assistere a un'impiccagione, Blangis si concede un sorriso. Subito dopo, tornato severo, inverte il binocolo per allontanare in un campo lungo lo spazio delle torture, accentuando ulteriormente la componente ottica (e mediata) alla base della

50 Il riferimento è a La finestra sul cortile (1954) e a quella che Alfred Hitchcock, nell'intervista a François Truffaut (1966, p. 181), definisce “la più pura espressione dell'idea cinematografica”: “Abbiamo l'uomo immobile che guarda fuori. È una parte del film. La seconda parte mostra ciò che vede e la terza la sua reazione. Questa successione rappresenta quella che conosciamo come la più pura espressione dell'idea cinematografica”.

visione. Lo sguardo si allarga fino a perdere di vista carnefici e vittime. I raggruppamenti diventano ancora di più delle bidimensionali figure sadiane, puri corpi senza soggetto. È la risposta emotiva a indurre Blangis a respingere l'oggetto della visione, come se l'atarassia del libertino fosse messa in pericolo dall'eccesso di piacere che lo induce al sorriso. L'apatia si manifesta come l'esito auspicato di un percorso di ricerca di piacere, il suo stadio più alto.

Il secondo a occupare la posizione del voyeur è il presidente Durcet. È il più volgare dei quattro, colui che insiste a raccontare patetiche barzellette. Al personaggio più laido vengono concesse delle sdentate risate “di reazione” sin dalla sua prima visione delle torture51. L'ultimo a sedersi sul trono, Curval, riprende la neutralità e l'atarassia iniziale, portando a conclusione con serietà incorruttibile il compito della visione che i libertini si sono assegnati.

La finestra (si nota nell'inquadratura anche la marca grafica della grata) si pone come un esplicito gesto enunciativo (v. Metz, 1991; cfr. anche Elsaesser e Hagener, 2007), mentre l'effetto mascherino prodotto dal binocolo accentua ulteriormente il carattere riflessivo della sequenza. Nel momento in cui il personaggio compie il gesto di mettersi a guardare fuori, l'atto viene evidenziato ancora di più dall'utilizzo di uno strumento meccanico che potenzia la visione. Stiamo guardando per il tramite di un dispositivo deputato – il binocolo, il cinema. L'isotopia tra il personaggio e lo spettatore è dichiarata.

Quello che attraverso il dispositivo del binocolo e le altre strategie testuali viene definito come “vedere cinematografico” si rivela un “fare percettivo puro” (Marchesi, 2002, p. 149) che non trasforma chi guarda. Il mondo viene ridotto a un oggetto da osservare. L'enfasi cade tutta sulla forza negativa della pulsione scopica. Così definito, lo sguardo (cinematografico) è capace solo di mettere a distanza.

Si tratta di riconoscere qui un'ulteriore abiura rispetto al precedente cinema di Pasolini, stavolta non tematica ma teorica. A finire sotto accusa è ora la definizione di soggettiva libera indiretta, la cui concezione si basa su un'indecidibilità rispetto al soggetto della visione. Lo sguardo cinematografico

51 Il montaggio si realizza in questo modo: 1. Durcet guarda col binocolo; 2. oggetto della visione (preparazione alla tortura e diversi altri piani fino al momento in cui viene cavato un occhio alla vittima); 3. inquadratura di reazione di Curval che ride; 4. occhio che cade.

tradizionale “impone una posizione spettatoriale caratterizzata dalla non trasformazione dell'essere del personaggio che la occupa” (Marchesi, 2002, p. 139). Il mondo, invece, percepito da una posizione defilata, senza filtri o apparecchi meccanici, “riesce a penetrare il soggetto fino a modificarne l'essere” (ibid.). La soggettiva libera indiretta vuole portare il secondo sguardo all'interno del primo: la macchina da presa risente del punto di vista dei personaggi e del loro sguardo sul mondo.

Ma nel finale di Salò il personaggio, il regista e lo spettatore si trovano tutti e tre a occupare la medesima posizione di voyeur. Non vi è nessuna possibilità di uscire da quella soggettiva “diretta”, né è consentita una disgiunzione: lo sguardo del libertino e quello dello spettatore si sovrappongono. Vediamo esattamente la stessa inquadratura fortemente caratterizzata in senso soggettivo che vede il libertino, persino come sezione dello spazio: il binocolo limita la sua apertura oculare come la nostra.

Lo spettatore finisce dunque

letteralmente catturato in un processo di voyeurismo forzato, al termine di un'inversione che impone, attraverso un effetto di focalizzazione allo stesso tempo ironico e diabolico, e senza altra scappatoia possibile che quella di chiudere gli occhi, di far proprio lo sguardo dei carnefici. L'infernale processo di perversione della visione neorealista è qui portato al suo culmine, in quanto il cinema riduce il suo campo ad una ritualizzazione scopica dell'orrore, senza vie d'uscita (Schifano, 2002, p. 20).

In Salò non vi è alcuno spazio per la soggettiva libera indiretta su cui Pier Paolo Pasolini basa il suo cinema di poesia. All'interno della sequenza finale, peraltro, l'identità dell'attore non è pertinente per definire l'atto della visione. Abbiamo di fronte un'“inquadratura soggettiva senza soggettività” (Marchesi, 2002, p. 105). Se la Trilogia della vita era stata concepita come un tentativo di superare la dimensione scopica che domina la rappresentazione del corpo al cinema (cfr. Marchesi e Noto, 2005, p. 316), Salò in relazione a questo si configura come un ennesimo gesto di abiura: il film innanzitutto, con il suo stile algido e distaccato, rimane senza dubbio lontano da ogni volontà di restituire qualsiasi percezione di tipo tattile. In secondo luogo i sensi del gusto e dell'olfatto escono annichiliti dal

Girone della merda. E infine l'enfasi posta da Sade sulla parola detta52 è anch'essa tradita dalla versione di Pasolini, che cancella il trono collocato al centro della scena dallo scrittore delle 120 giornate, destinato a ospitare le attrici e a sancire il trionfo dell'oralità e del racconto. In Salò le megere rimangono a parlare in piedi, in mezzo a uno spazio vuoto.

Nel finale l'oculocentrismo non è solo continuamente ribadito, in modo persino enfatico, dalla forma del binocolo, ma viene intensificato e esasperato dalle scelte compiute a livello sonoro. Dei corpi violati non arriva alla nostra percezione nessuna sensazione che non sia quella visiva: in cortile le vittime non hanno voce, l'immagine rimane muta. Non si sentono le urla disumane dei carnefici e le vittime sono private persino del loro diritto a gridare di dolore53. L'incontro tra l'“alto”, l'im-posizione anche in senso spaziale assunta dai libertini, e il “basso”, la collocazione inferiore cui sono condannate le vittime, avviene solo a livello retinico. Dal quel trono nessun'altra percezione è possibile.

L'immagine si dimostra incapace di suscitare reazioni in un osservatore onnipotente che si colloca in un punto “intangibile da parte del reale” (Marchesi, 2002, p. 115). La condizione di puri spettatori mette a loro agio i libertini, disposti a turno a rinunciare alla partecipazione diretta al massacro. Guardare con apatia, senza fare niente, fornisce altrettanta soddisfazione. La sete di male viene appagata allo stesso modo. La distinzione tra chi tortura e chi guarda sembra così saltare. Il posto del carnefice e quello del voyeur sono reversibili. “In chi guarda non può esserci innocenza, poiché lo sguardo partecipa a ciò che vede” (Murri, 2001, p. 99). Come suggerisce Joubert-Laurencin (1995, p. 281), anche noi spettatori, voyeur come i libertini, scenderemo nel cortile quando verrà il nostro turno.

52 “È assodato, fra i veri libertini, che le sensazioni comunicate dall'organo dell'udito sono le più carezzevoli e che offrono le più vive impressioni” (Le 120 giornate di Sodoma, p. 69).

53 Come fondo sonoro alla sequenza delle torture il nostro orecchio percepisce inizialmente la musica eseguita dalla pianista, aggregata alle quattro narratrici benché non racconti nessuna storia. Dopo il suo suicidio vi è un passaggio senza sonoro (“il silenzio è l'elemento più rumoroso del cinema pasoliniano”, Manzoli, 2001, p. 134). Arriva poi al nostro orecchio un crescente rumore di fondo sotterraneo e perturbante, saturo, greve, materico, identificabile con il frastuono di una battaglia distante – bombe, aerei. Il sonoro si incupisce ulteriormente quando Blangis, in un momento che abbiamo già identificato come decisivo, gira il suo binocolo. Al termine di questa inquadratura ci sintonizziamo sulla stazione di una radio presente nella stanza. Sul trono troviamo ora seduto Curval. La programmazione propone un coro folklorico, Stelutis alpinis, l'“angolo della poesia” con i Cantos di Ezra Pound, un brano dei Carmina burana di Carl Orff e infine lo strumentale, ballabile, Son tanto triste.

Anche attraverso l'accento posto sull'organo della vista Salò mostra l'“autodivoramento della superficie della spettacolarità, spinta verso il limite dell'insopportabile” (Murri, 2001, p. 14). Il cortocircuito viene accentuato dal gelo quasi documentario, clinico, dalla precisione matematica della modalità di ripresa54. Salò si configura come un teorema, una maledizione che si scaglia contro il regime visivo nel suo complesso.

L'estremismo di Salò va certo interpretato come un gesto esplicito di rappresaglia nei confronti del voyeurismo delle masse di spettatori accorse a vedere i film della Trilogia della vita, come una ritorsione di Pasolini contro un successo commerciale che doveva davvero apparirgli irritante, visto alla luce del suo inflessibile giudizio sulla massificazione della società italiana55. In questo senso, Alberto Moravia (1975b) legge Salò come una forma di auto-calunnia, come un messaggio che si auto-boicotta. L'attacco non è rivolto soltanto allo spettatore ma anche al regista del film, a se stesso56.

Alcuni analisti (Greene, 1994; Indiana, 2000) rilevano inoltre un sadismo o un voyeurismo nella stessa regia, quantomeno un palese interesse del regista per il corpo nudo maschile (di cui si trova peraltro riscontro anche nella Trilogia della vita, senza che minimamente si crei alcun effetto di shock): ad esempio quando, nell'Anti-inferno, una panoramica verticale passa con lentezza dal volto al pene e poi di nuovo al volto delle vittime designate.

Pasolini sembra dunque “rinnegare definitivamente le possibilità positive dello strumento cinematografico, scoprendone l'indissolubile solidarietà con l'universo della produzione e del consumo” (Rinaldi, 1982, p. 388). L'unico gesto che rimane da compiere è proporre un'assenza di soluzione o una soluzione impossibile, insostenibile, inaccettabile: “Una vera critica al mondo non può avere le mani

54 Nel rigore geometrico della regia, Pasolini sembra dare retta, a più di quarant'anni di distanza, al consiglio che il grande studioso di Sade Maurice Heine rivolgeva a Luis Buñuel dopo l'uscita de L'âge d'or: “Vi è in Sade un'armonia dei numeri piuttosto misteriosa e che non conviene rompere: non è un caso se tutto il romanzo delle 120 giornate si costruisce su una base quadrangolare” (Heine, 1931, p. 13).

55 Salò si scaglia inoltre sicuramente contro il cinema commerciale che si era impadronito, tramite il filone dei decamerotici, della superficie del discorso pasoliniano portato avanti nella

Trilogia della vita.

56 In questo senso è verificabile un parallelismo tra l'intenzione di Pasolini e l'autodistruttiva opera di Sade: “Sade nega Dio, le morali, le società, l'uomo, la natura. E non contento della sua negazione gigantesca, nega se stesso e si cancella” (Paz, 1993, p. 73).

pulite, essa aspira alla propria distruzione per non appartenere al mondo che critica” (Marty, 2011, pp. 409-410).

Il film costringe dunque lo spettatore a una funzione voyeuristica esplicita (e inedita) “che provoca nello smascheramento del proprio ruolo 'protetto' un immediato sentimento di repulsione” (Murri, 2001, p. 11). La difesa del voyeur, basata sulla copertura del suo ruolo, sull'essere nascosto, viene a saltare. Qui il voyeur è indicato a dito. L'accordo voyeurista istituzionalizzato dal cinema tra chi guarda e chi si lascia guardare viene fatto esplodere dalla nostra sovrapposizione con lo sguardo di fascisti libertini che trovano il loro godimento precisamente nella mancanza di assenso da parte della vittima.

La costrizione dell'oggetto della visione e la riflessività portano in piena luce le infiltrazioni sadiche che guidano in ogni caso, come sostiene Metz (1977), lo sguardo del voyeur. Il pubblico di Salò viene sfidato a fare i conti con le componenti più torbide della pulsione scopica. Il cinema, da sogno ad occhi aperti, si trasforma in incubo. Una delle finalità politiche del film è esattamente quella di “chiudere lo spettatore all'interno di quell'abiezione che egli stesso vive ormai inconsapevolmente, come un vegetale, ogni giorno, ma costringerlo a guardarla per quella che è veramente, con le armi di una poesia crudele, maledetta e dai congegni perfetti” (Chiesi, 2005, p. 30).

Va rilevato, all'interno del quadro malsano dipinto dal finale di Salò, l'importante ruolo svolto dalla pianista: oppressa dal Male, la musicista non trova altra soluzione se non il suicidio. Si getta da una finestra mentre sono in corso le stragi del Girone del sangue, creando una pausa nell'ingranaggio che continua a giustapporre visione e tortura. Per Marchesi (2002, p. 135),

la dimensione passionale del discorso trova un simulacro incarnandosi nella pianista, che realizza nel testo la disforia implicata nel contenuto delle immagini, e quindi rende ancora più stridente il contrasto tra apatia e coinvolgimento passionale. Lo spettatore può vedere che c'è un'altra via d'uscita alla violenza, ma il suo sguardo, quello della macchina da presa, resta inevitabilmente legato allo sguardo del libertino.

La pianista, che guarda le torture con sguardo diretto, senza la mediazione di strumenti meccanici, diventa così il “simulacro passionale” dell'enunciatario, la

cui reazione era prima neutralizzata dall'indifferenza del libertino. La reazione della donna rende manifesto anche a livello diegetico il fatto che lo spettacolo cui si assiste è dell'ordine dell'insopportabile. Il suo suicidio, che per un minuto ci allontana dalla chiusura ossessiva dettata dalla visione sadica, non pone però fine al gesto iterativo che induce il voyeur a sollevare il binocolo. La sua morte passa inosservata. Il campo-controcampo tra sguardo e sofferenza prosegue.