SILLING. IL CASTELLO
4.3. Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini 1. Pasolini/Sade
4.3.6. Opzioni spettatoriali
Nel corso di Salò il rapporto con lo sguardo dello spettatore viene giocato all'insegna di tutte e tre le modalità di relazione tra sguardo diegetico, sguardo spettatoriale e corpo violato proposte nell'introduzione a questo capitolo: modalità panottica, sguardo accerchiante, solitudine del libertino.
L'assunzione della modalità panottica è evidente nel finale, quando un singolo individuo, proprio come previsto da Bentham, guarda un cospicuo numero di vittime che non sono nella condizione di ricambiare lo sguardo. Salò mostra anche numerosi esempi della tipologia complementare, lo sguardo accerchiante (o sinottico) grazie al quale lo spettatore aggiunge il suo sguardo a quello di diversi personaggi per posarsi su di una singola vittima o su di un piccolo gruppo. Nell'Anti-inferno il nostro sguardo si somma a quello dei signori mentre eseguono una sorta di casting, scrutando con minuzia i dettagli anatomici delle singole vittime che vengono fatte sfilare davanti ai loro occhi. I libertini vanno inoltre in cerca di scarto quando si separano dal resto del gruppo con una delle vittime, spostandosi alcune volte in sala da bagno per restare soli con l'oggetto del loro godimento. La macchina da presa tuttavia li segue, non rispettando la volontà del signore sadiano. Se può nascondere alcuni comportamenti ai suoi camerati, il libertino non ha segreti nei confronti dello spettatore del film, che diviene per questo ancora di più suo complice.
Per lo spettatore il film prevede dunque un ruolo che invischia in ognuna di queste tre tipologie di complicità. Pasolini realizza “una sorta di teatro assoluto dello sguardo e dell'immaginazione, un vero e proprio monstrum ipnotico che [si
irradia] verso lo spettatore con una tenebra abbagliante” (Salvini, 2004, p. 125)60. La difficoltà per lo spettatore a difendersi da questa tenebra è dovuta anche alla radicale inversione messa in atto da Salò dei cliché della violenza rappresentata al cinema, in almeno tre sue componenti.
Innanzitutto Salò sradica il meccanismo in base al quale un testo tende a predisporre per lo spettatore uno spazio di identificazione che induce a stare dalla parte della vittima61: l'inidentificabilità dei corpi rende impossibile partecipare alla loro sorte. La compassione viene esplicitamente rifiutata da Pasolini in base a un duplice ordine di motivi: perché la visione del film ne sarebbe risultata insopportabile e perché non crede nell'innocenza delle vittime:
Non suscito pietà attraverso le vittime, se non appena appena, con la massima discrezione. Intanto perché il film sarebbe stato orribile, insopportabile: se facevo delle vittime simpatiche, che piangevano e ti strappavano il cuore, dopo cinque minuti uscivi dalla sala cinematografica. E poi soprattutto non lo faccio perché non ci credo (Pasolini, 1979, p. 3021).
In secondo luogo Salò rifiuta di porre la violenza e la violazione dei corpi al termine di un climax e di un percorso di suspense. I corpi sono già nudi, non lo diventano al termine di uno strip-tease. Il corpo nudo è il punto di partenza e non quello di arrivo di una rappresentazione che neutralizza in questo modo ogni connotazione erotica. La violenza pervade il film allo stesso modo. Quando scoppia nel finale, non è preparata da nessun crescendo e non trova uno sbocco, un momento esplosivo seguito da un interludio in cui provvisoriamente si placa.
C'è qualcosa nel rituale ossessivo dei gesti, nella macabra cerimonialità consumata con la freddezza del diritto, che suona come una nota stonata rispetto all'enfasi che la violenza (fisica e psicologica) assume necessariamente nella sua (comunque eroica) forma spettacolare. L'ideologia dello spettacolo, con il suo fondamento edonistico, si basa su una forma di esaltazione che sublima nella sterilità dell'esperienza indiretta del voyeur la brevità dell'orgasmo: ogni spettacolo violento è rivolto al piacere della consumazione feticista dell'attimo cruciale che non lascia traccia nella memoria. Salò o le 120 giornate di Sodoma 60 Le parole di Salvini sono in realtà riferite al successivo progetto cinematografico di Pasolini,
rimasto inedito, intitolato Porno-Teo-Kolossal.
61 Si vedano ad esempio gli studi sui meccanismi di identificazione nel genere horror, anche per come vengono rivisti dalla teoria femminista (v. Clover, 1992).
si basa invece su un'accumulazione degli atti di profanazione e mortificazione dei corpi, e sulla procrastinazione indefinita del loro momento esiziale/orgasmico (Murri, 2001, p. 10).
In terzo luogo, come abbiamo già ampiamente esposto, Salò costringe lo spettatore a prendere riflessivamente coscienza della propria posizione di voyeur. Queste tre caratteristiche contribuiscono ad acuire l'incapacità dello spettatore di tollerare il film. Contrariamente alle intenzioni (dichiarate) di Pasolini, il blocco del meccanismo di identificazione non aiuta affatto a rendere più accettabile il racconto. L'identificazione secondaria non è evidentemente un elemento necessario per far vivere sul corpo dello spettatore l'orrore del racconto. La perdita di un riferimento per la sua identificazione lascia invece lo spettatore ancora più spiazzato, ancora più colpevole: come abbiamo visto, il tentativo linguistico-enunciativo che viene messo in atto per distanziare le vicende narrate investe negativamente lo spettatore, poiché suggerisce una “deresponsabilizzazione rispetto alla mostruosità che accade all'interno dell'enunciato” (Marchesi, 2002, p. 240).
Per riprendere la tipologia delineata nella prima parte di questo lavoro, la modalità con cui Salò mette in campo la relazione tra spettatore e corpo violato è certamente meditativa: essa costringe a riflettere sulle figure della mostrazione della violenza e sulla nostra relazione di spettatori con il corpo violato. Allo stesso tempo Salò va in cerca di un tipo di sguardo masochista, di uno spettatore che accetta la sofferenza provocata dalla visione. Il testo di Salò si pone certamente, infatti, nella posizione di masochizzante o pseudo-sadico, cercando l'accordo con uno spettatore che acconsente a provare sofferenza in cambio di una qualche traccia di piacere, in questo caso estetico o cognitivo.
Gli altri tipi da noi delineati, lo sguardo ludico, curioso e sadico sembrano venire invece respinti e rifiutati dai meccanismi dell'enunciazione, che prevedono, come abbiamo appena ricordato, la mancata identificazione con la vittima, l'assenza di un reale climax di violenza, la presa di coscienza della propria posizione di voyeur. In Salò non c'è gioco (le barzellette raccontate da Durcet non fanno ridere); le sue immagini non attraggono uno spettatore curioso che si trovi per caso sulla scena del delitto; infine lo spettatore sadico, costretto a guardarsi
dall'esterno, deve scendere ai patti con un testo che gli fa specchiare il suo volto in quello di quattro disgustosi fascisti.
4.3.7. (Non) Vedere Salò
Non vedere Salò è […] spesso una resa alla soglia del tollerabile – vera o presunta – e un normale atto di difesa della frontiera soggettiva del gusto. La linea di demarcazione non è sempre chiara, e conosco persone che hanno creduto di poter vedere Salò ma hanno gettato la spugna al primo episodio cruento. […] Provo rispetto per chi non vuol vedere Salò, e mi azzardo a credere che Pasolini avrebbe avuto qualcosa da dire in difesa di chi ha scelto la strada del rifiuto (Cherchi Usai, 2005, p. 18-19).
Forse nessun altro film quanto Salò conserva nei racconti di chi si propone di analizzarlo il ricordo della visione in sala62. Oltre a coloro che ne scrivono a caldo, tale memoria permea anche le riflessioni svolte ad anni di distanza dall'uscita o dal momento della fruizione. Al pari degli eventi iconici63 che segnano la storia, ognuno ricorda dove ha visto il film, l'atmosfera in sala, gli spettatori che fuggono, i commenti o il silenzio all'uscita, e pensa sia importante dare conto – all'interno della recensione, dell'articolo o del saggio – di questi elementi.
Come un alimento che ha provocato un'indigestione richiama immediatamente la circostanza in cui è stato assorbito, così Salò fa pensare a dove lo si è visto per la prima volta. L'utilizzo della metafora alimentare – l'indigeribilità – è un fattore che torna spesso nelle righe dedicate al film, probabilmente evocato dalla circostanza che alcune delle sue scene più sconvolgenti hanno a che fare con la coprofagia. Si leggano ad esempio la testimonianza di Adriano Aprà (in De Bernardinis, a cura, 2005, p. 17): “Nella palazzina dell'Eur, sede del produttore Grimaldi, ero stato invitato per una proiezione molto privata di Salò. […] Ne uscii sconvolto. Mi parve un film 'indigeribile'”; oppure il passaggio di una recensione
62 Per un ulteriore approfondiremo della ricezione di Salò – che prende in considerazione esperienze empiriche di decodifica nella mediasfera contemporanea e fa saltare, almeno in parte, l'intentio auctoris – rimandiamo al capitolo 9.
63 Secondo la definizione di Patricia Leavy (2007, p. 3), eventi “che sembrano acquistare uno status mitico all'interno di una cultura”, che “arrivano a dominare il panorama culturale attraverso una proliferazione di rappresentazioni che inondano lo spazio pubblico”.
dell'epoca, scritta dallo psicanalista Franco Fornari (cit. in Monetti, 2005, p. 33): “Sappiamo che la censura è sempre inutile e dannosa, ma mi domando anche se è giusto offrire a tutti, me compreso, un cibo così disgustoso”.
In altri resoconti di visione, l'esperienza collettiva in sala serve a fornire termini di paragone e punti di appoggio. Si assiste talvolta a vere e proprie forme di giudizio sulla moralità dei compagni di visione, costruite grazie a degli “indicatori etici” che stabiliscono se gli altri spettatori stanno guardando il film con la giusta disposizione. Si confronti ad esempio questa testimonianza di Alberto Pezzotta (2000, par. 2-3):
Per storicizzare un film come Salò si ha bisogno di un approccio diverso, almeno in parte autobiografico – perché chiunque legga il film è obbligato a rivisitare il suo passato. L'ho visto per la prima volta in una sala milanese, in occasione di una ridistribuzione (può esser stato nel 1986) […]. Di quella prima visione, ricordo come, nell'ultima scena […], quella musichetta anni Trenta che spinge le due giovani guardie a ballare abbia causato una reazione, uno schioccare ritmico delle dita di uno spettatore. Questo ha provocato in me indignazione e repulsione nei confronti di quel mostro che, evidentemente, non era minimamente turbato dalla precedente esibizione di orrori, e che ancora aveva la forza e la volontà di fraintendere e godersi quel piccolo brano musicale.
Oggi penso che quel mostruoso spettatore, piuttosto che essere indifferente nei confronti dell'orrore, si deve essere identificato con i quattro torturatori del film – e sono disturbato dall'idea che a qualcuno possa piacere un film come Salò. Se provo questo orrore, è chiaramente perché ho paura di poter stare dalla parte dei mostri. […] Salò è un film che non si vede impunemente.
Un'altra impressione ci viene fornita da Paolo Cherchi Usai (2005, p. 19), che racconta della sua presentazione del film a un gruppo di spettatori “chiaramente impreparato”:
Fra i presenti c'era il direttore di una sala d'essai che conosceva il film per sentito dire e che riteneva fosse giunto il momento di fare i conti con quest'oggetto proibito. L'ho visto uscire dalla sala dopo tre quarti d'ora, e trovo la sua reazione più sana di quella esibita da coloro che sono rimasti seduti fino alla fine al solo scopo di poter dire agli altri che ce l'avevano fatta. Se questo era il motivo della loro presenza, sarebbe stato meglio non invitarli affatto.
La forza dell'impatto è certamente acuita dal contesto di fruizione, sia in senso temporale, nel caso il film sia stato visto a ridosso della morte di Pasolini, sia in senso spaziale, nel caso di una visione in sala, che obbliga a confrontare le proprie reazioni con quelle degli altri. Ma le testimonianze più recenti, che raccontano una scoperta di Salò avvenuta non in sala ma su altre piattaforme – l'home video o la rete – restituiscono in modo altrettanto personale la sensazione di un trauma. Come vedremo nel capitolo 9, anche chi scrive di Salò sul web risente della stessa sindrome da prima visione, segno di una potenza che, se può essere ampliata da elementi contestuali, è dovuta principalmente al testo.
Per molti sostenitori del valore radicale di Salò e della sua inintegrabilità nella società dello spettacolo, l'uscita del film in edicola, in un VHS abbinato al quotidiano l'Unità nel dicembre 1996, ha l'effetto di uno sfregio, ennesimo sberleffo di un mercato capace di alimentarsi anche dei frutti maturati con lo scopo di avvelenarlo.
Ancora Alberto Pezzotta (2000, par. 6-7) si lamenta di questa acquisita visibilità: “L'occhio ha perso la sua crudeltà. […] Mi disturba […] che Salò finisca in edicola, venduto […] con un quotidiano […] o un settimanale64 […], allo stesso modo di un innocente film di Truffaut o di Tinto Brass”. Anche Serafino Murri (2001) apre la sua monografia sul film scagliandosi contro la distribuzione in edicola sotto Natale, a prezzi popolari, di un Salò venduto come “gadget pseudo-colto”. L'idea di rendere disponibile il film in edicola viene definita “tanto più diabolica in quanto è segnata da una forma di delirio illuminista che porta la ragione a divorarsi da sé, o per dirla con Pasolini, a cercare di vincere la 'paura di essere mangiati' (culturalmente, ideologicamente) dal sistema, trasformandola in 'desiderio di essere mangiati'” (p. 8).
64 L'operazione de l'Unità è successivamente replicata dal settimanale L'Espresso all'interno della collana rossa dei “Classici proibiti” (NdR).
CAPITOLO 5. PRIGIONI