CHARENTON. MANICOMIO
6.3. Marat / Sade di Peter Brook
6.3.3. Marat / Sade, lo sguardo, lo spettatore
Sono numerose le informazioni che, dal film di Peter Brook, si possono trarre rispetto alla nostra tematica di partenza, quella dello sguardo e della violenza ad esso collegata. Il nostro punto di vista di spettatori viene messo in discussione prima di tutto dallo stesso testo di Weiss e dalla mise en abyme dell'azione teatrale, che, con un effetto brechtiano, costringe lo spettatore a riconoscersi tale e ad ammettere la sua distanza rispetto allo spazio della rappresentazione. A questo elemento, già forte nel testo dell'autore tedesco-svedese, Peter Brook aggiunge una presenza fisica dei personaggi che viene caricata il più possibile di potenza e di verità. Brook infatti, come abbiamo accennato, non è interessato a una versione fredda e distaccata della pièce, né gli basta lo straniamento del testo di Weiss.
Brook vi pone rimedio aggiungendo il contributo di Artaud, che si somma a Brecht e non lo nega: per quanto riguarda il rapporto con lo spettatore, nel Marat / Sade c'è sia lo straniamento brechtiano sia la volontà di attaccare la tranquillità della platea propria alla teoria teatrale di Artaud30.
I giochi di specchi e le ambiguità proliferano nel Marat / Sade di Peter Weiss. […] Tutto è costruito per assaltare lo spettatore. Weiss tenta di realizzare un'esperienza di una sorta di inaudita violenza, di frenetica aggressione che è simile all'impatto degli “happening”. Questo fornisce alcune giustificazioni ai critici che catalogano il dramma di Weiss come semplice “teatro della crudeltà”. Ma se guardiamo più da vicino, scopriamo che l'intollerabile minaccia di follia ingovernata si svolge attorno a un centro che è paradossalmente calmo, e che alla fine si scatena contro lo sguardo distaccato di quei voyeur privilegiati che sono gli spettatori (Beaujour, 1965, p. 114).
Tale “spazio centrale” è quello raziocinante di Weiss, quello di Brecht in cui il gioco teatrale è scoperto. Attorno ad esso si crea un happening di matrice artaudiana. I confini della rappresentazione, in entrambi i casi, vengono strattonati da un teatro che costringe lo spettatore a ragionare sul proprio essere parte della scena, intellettualmente o fisicamente.
Anche al cinema la condizione di privilegio e lo sguardo voyeuristico degli spettatori devono finire minacciati. Al cinema, Brook non può, come a teatro, far pesare la presenza fisica degli attori, essendo il pubblico del film opportunamente
30 Lo spazio delle rifrazioni è abbagliante, se si pensa che Artaud aveva interpretato il personaggio di Marat nel film Napoléon vu par Abel Gance (Abel Gance, 1927). Va ricordato che Sade ha pronunciato un elogio di Marat alla già citata commemorazione presso la Sezione delle Picche. È (anche) questa circostanza storica ad aver indotto Weiss a far dialogare i due personaggi. L'elegia di Sade, alla luce della personalità dell'oratore e dei suoi scritti, assume peraltro un'interessante serie di sfumature, ad esempio ove leggiamo: “si dice che l'egotismo sia la prima base di tutte le azioni umane; non ce n'è alcuna, si dà per certo, che non abbia per primo motivo l'interesse personale, e, basandosi su questa crudele opinione, i terribili detrattori di tutte le cose belle ne riducono il merito a zero. O Marat! Come si sottraggono alla norma generale le tue azioni!” (p. 257); oppure “degli schiavi ti accusavano di amare il sangue! Tu, grande uomo, volevi solo spargere quello dei tiranni; ti mostravi prodigo di quello, solo per risparmiare il popolo” (p. 258). A questo Sade apologista di Marat si possono contrapporre alcune righe di un Marat perfettamente sadiano: si legga questa citazione dal suo Projet de
declaration des droit de l'homme et du citoyen (cit. in Pauvert, 1989b, p. 188): “Ogni uomo
porta al mondo, nascendo, dei bisogni, la facoltà di prendersi cura si sé, di riprodursi, il desiderio costante di essere felice, e un amore senza limiti per se stesso […]. Per sottrarsi all'oppressione, ha il diritto di opprimere, di incatenare, di massacrare. Per assicurarsi la sua felicità, ha il diritto di fare tutto; e benché faccia oltraggio agli altri, per quel che lo riguarda, non fa che cedere a una tendenza irresistibile, impiantata nella sua anima dall'autore del suo essere”.
protetto dallo schermo. Brook sceglie quindi di inserire nella pellicola la presenza diegetica di alcuni spettatori cui tocca rappresentare, en abyme, chi guarda il film. È un piccolo pubblico inquadrato di schiena, che non riusciamo a distinguere, di cui abbiamo una visione oscura, in penombra. Sono figure astratte in cui gli spettatori del film devono riconoscere se stessi.
È contro queste persone con cui ci dobbiamo identificare che i pazzi di Charenton danno sfogo al furore distruttivo scatenato da Sade e dalla sua pièce. Se c'è qualcosa che indubbiamente Brook, a teatro e al cinema, sceglie di caricare rispetto al testo di Weiss, è la minaccia alla sicurezza dello spettatore, al quale non viene concessa la possibilità di dare libero sfogo al suo voyeurismo. Il voyeurismo ha bisogno infatti di una protezione, quella che nel film è simboleggiata dalla grata su cui gli internati si arrampicano31. Il Marat / Sade non gli consente di sentirsi riparato dalle sbarre, e nemmeno dallo schermo.
Nella sua interezza, il film espone quindi una negazione dei propositi illuministi con cui Coulmier giustifica l'invito a teatro agli ospiti esterni, a proposito dei quali, proprio mentre viene proposta un'inquadratura in controluce dal fondo del teatro, si dice: “After all we have invited the public here to show that our patients are not all social litter”. Se questa è la motivazione ufficiale, i fatti contraddicono palesemente tali buoni propositi: prima ancora dell'esplosione di follia, che smentisce la presentabilità che Coulmier rivendica per i suoi pazienti, è il modo con cui lo sguardo viene continuamente chiamato in causa e messo in discussione a confutare l'interesse del pubblico per le effettive abilità teatrali degli internati. Come abbiamo ricordato, Peter Brook dava talmente importanza alla presenza effettiva di un pubblico, condotto lì da uno sguardo morboso, alle rappresentazioni di Charenton che inizialmente aveva manifestato la volontà di far cominciare il film proprio con una scena che ritraeva i borghesi parigini mentre salivano in carrozza per dirigersi verso il manicomio a vedere un freak show, lo spettacolo allestito da Sade32. Lo sguardo sui folli è in effetti rassicurante perché ribadisce
31 Secondo i già citati Elsaesser e Hagener (2007, p. 89), il voyeurismo si distingue proprio per questa caratteristica, la mancanza di responsabilità: “il voyeurismo […] è strettamente intrecciato a una forma di disincarnazione – l'idea di non (dover) essere responsabili della propria stessa presenza corporea in un dato luogo e in un dato momento”.
32 Già l'alienista Esquirol scriveva di come i folli fossero oggetto dell'attenzione e della curiosità di un pubblico “leggero, sconsiderato, talvolta malvagio” (cit. in Foucault, 1972, p. 149). “In Francia, la passeggiata a Bicêtre e lo spettacolo dei grandi insensati restano, fino alla
una distanza tra chi guarda e chi è guardato, lo stesso effetto di rinforzo che Fiedler (1978) ravvisa nello sguardo che si posa sul freak: la ragione rimane tutta da una parte della grata, la follia tutta dall'altra. “La follia è diventata cosa da osservare: non più mostro all'interno di se stessi, ma animale dai meccanismi strani, bestialità in cui l'uomo è abolito” (Foucault, 1972, p. 149).
Non sembra dunque possibile una restituzione di sguardo. Anche nel rapporto tra i malati e il resto del personale la regola del manicomio prescrive uno sguardo non reciproco, diretto unicamente nella direzione della malattia. “Ormai la follia esiste unicamente come essere visto” (p. 417). È proprio questa asimmetria che Brook si propone di rompere, mostrando, nell'ultima inquadratura del film, gli internati che salgono sulle grate e guardano fuori dalla gabbia, ricambiando il nostro sguardo. Le ultime parole del testo prima del caos ci sono gridate in faccia da un Roux inquadrato in primissimo piano, lo sguardo diretto in macchina. Mentre ci fissa con occhi spiritati, il prete, l'estremista, l'attore pazzo in camicia di forza urla allo spettatore: “When will you learn to take side / When will you learn to stand up”: quando imparerete a prendere posizione, quando imparerete ad alzarvi in piedi? Ad interessare è soprattutto la differenza di questo grido rispetto a quello proposto dal testo originale di Weiss: “Wann werdet ihr sehen lerner / Wann werdet ihr endlich verstehen” (p. 136): quando imparerete a vedere, quando capirete finalmente?
La richiesta finale di Brook non è soltanto più esplicitamente politica, ma rigetta anche la proposta di Weiss di equiparare il vedere e il capire. O di ritenere che il primo faccia da premessa al secondo. Quello che Brook rivolge al pubblico è un richiamo all'azione, non alla visione. Come d'altra parte afferma lo stesso Marat nel corso della sua “liturgia politica” durante il primo atto del dramma: “I don't watch unmoved / I intervene”. Ancora una volta lo spettatore non viene lasciato
Rivoluzione, una delle distrazioni domenicali per i borghesi della riva sinistra. […] Ecco la follia eretta a spettacolo al disopra del silenzio degli asili, e che diventa scandalo pubblico per la gioia di tutti. […] Sotto l'Impero si andrà anche più lontano del Medioevo e della Renaissance; […] ora è la follia stessa, la follia in carne e ossa, che dà rappresentazione. Coulmier […] aveva organizzato […] quei famosi spettacoli in cui i folli interpretavano sia la parte di attori sia quella di spettatori osservati. […] La follia diventa puro spettacolo, in un mondo sul quale Sade estende la sua sovranità, e così viene offerta, come distrazione, alla buona coscienza di una ragione sicura di se stessa. Fino all'inizio del XIX secolo e all'indignazione di Royer-Collard, i folli restano dei mostri, cioè degli esseri o delle cose che valgono la pena di essere mostrati” (Foucault, 1972, p. 148-149).
tranquillamente seduto a guardare: la parete che lo separa dalla rappresentazione viene forzata ed egli è invitato a schierarsi, ad alzarsi in piedi. Al vedere non segue dunque necessariamente il capire, e comunque capire non basta. Per Brook, al guardare deve seguire l'azione. Magari quella stessa che gli internati avviano contro una struttura che li denuncia come pazzi e contro l'asimmetria dello sguardo tra fenomeni da baraccone e gente perbene.
6.4. Šilení di Jan Švankmajer