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S AGGIO DI UN NUOVO COMMENTO ALLA D IVINA C OMMEDIA DI D ANTE A LLIGHIERI FATTO DAL P G IAMBATTISTA G IULIANI C R S OMASCO

LE OPERE DANTESCHE

S AGGIO DI UN NUOVO COMMENTO ALLA D IVINA C OMMEDIA DI D ANTE A LLIGHIERI FATTO DAL P G IAMBATTISTA G IULIANI C R S OMASCO

Nonostante le difficoltà iniziali, nel 1846 Giuliani dette alle stampe, presso la tipografia dei fratelli Pagano di Genova, il Saggio di un nuovo commento alla Divina Commedia di Dante

Alighieri, primo scritto in cui venivano delineati i principi guida della metodologia da lui

adoperata nel commento alle opere dantesche.

Decisive per la pubblicazione dell’opera erano state le «generose parole» che Carlo Troya aveva indirizzato a Giuliani nel De’ viaggi di Dante a Parigi e dell’anno in cui fu pubblicata

la prima Cantica dell’Inferno: «questi fatti desidero sieno presenti a’ Comentatori di Dante,

fra’ quali uno s’accinge ad illustrarlo con corredo e di buon giudizio e di opportuna erudizione. Parlo del P. Giambattista Giuliani [...] di cui m’è noto il valore».468 Da tempo lo studioso

pensava di «recar Dante a commentare sè stesso»: l’occasione si presentò quando Brunone Bianchi, «con dolce violenza», gli chiese di poter includere alcune osservazioni nel suo commento alla Commedia.469 Le note «furono quasi tutte riposte ne’ convenienti luoghi», ma,

per motivi editoriali, non si potè che «ricordarne quel tanto, che sì meglio facesse all’uopo stringente, ma che per ciò stesso non poteva quasi più tener sembianza» con quanto era stato scritto da Giuliani.470 Scopo del Saggio è quindi quello di mettere «a nuova luce il disegno e

quella piccola parte del commento» che il padre canellese aveva comunicato a Bianchi; «del

468 C. Troya, De’ viaggi di Dante a Parigi e dell’anno in cui fu pubblicata la prima Cantica dell’Inferno, in “Museo di scienze e letteratura”, vol. XXV, Napoli, 1845. Si noti che l’elogio di Troya viene riportato anche da Angelo De Gubernatis nei Ricordi biografici e che proprio all’illustre critico Giuliani dedica il suo Saggio.

469 Come confermato dallo stesso Giuliani («l’edizione di Dante, a cui io accenno, si è quella testè procurata in Firenze dal valoroso tipografo Le Monnier») l’edizione è quella della Divina Commedia di Dante Alighieri, col comento di Paolo Costa notabilmente accresciuto da Brunone Bianchi, Firenze, Le Monnier, 1846. In realtà Bianchi non riporta mai il nome di Giuliani, nemmeno nell’Avvertimento dove pure il contributo del padre somasco è evidente: «a penetrare ne’ quali (maravigliosi concepimenti) m’è stato scorta quasi sempre Dante medesimo, confrontato nelle diverse parti della Commedia, e più specialmente nel libro De Monarchia e nel Convito». 470 G. Giuliani, Saggio di un nuovo commento alla Divina Commedia di Dante Allighieri fatto dal P. Giambattista

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rimanente mi confido che il commento da me divisato e condotto non tarderà molto ad essere in ordine di stampa».471

Dopo l’esposizione teorica del nuovo metodo, si passa alla sua messa in pratica: Giuliani si sofferma su quei canti dell’Inferno (XVI - XXXIII) riguardo ai quali aveva comunicato le proprie considerazioni a Bianchi. «Poichè queste spiegazioni, a cominciare dal canto decimosesto dell’Inferno, non si distendevano che a tutto il Purgatorio», il padre somasco decide di non dare allo scritto «lunghezza maggiore»: l’analisi del primo canto del Purgatorio è oggetto del Secondo saggio di un nuovo comento della Commedia di Dante Allighieri fatto

dal p. Giambattista Giuliani C. R. Somasco, considerato la continuazione di questo primo

scritto sull’argomento, e dato alle stampe presso la Tipografia dei Sordomuti sempre nel 1846. La convinzione che Dante sia il «maggior interprete di sè stesso» viene espressa esplicitamente nel commento ad alcuni versi del XXIV canto dell’Inferno:

Maestro, fe che tu arrivi

da l’altro cinghio e dismontiam lo muro; ché, com’i’ odo quinci e non intendo, così giù veggio e niente affiguro. (Inf. XXIV, vv. 72 - 75)

«Odo il suono, ma non intendo le parole. Dante fece gran differenza tra udire e intendere, ed ogni volta che insieme li congiugne, vuole che appariscano tanto diversi quanto il senso dall’intelletto».472

Se si tengono presenti i versi del XXVII canto del Purgatorio in cui Dante chiede a Metelda di avvicinarglisi in modo da poter comprendere ciò che sta cantando (vv. 43 - 48), ci si rende conto di quanto «chiarissimo risulta, che Dante prima udì la dolcezza del suono che gli giugneva da quella innamorata, ma solo di poi intese le parole del canto».473 Giuliani si sofferma inoltre

471 G. Giuliani, Saggio di un nuovo commento alla Divina Commedia di Dante Allighieri, p. 4. Nonostante Giuliani avesse annunciato diverse volte di voler dare alle stampe un commento integrale della Commedia, l’opera non fu mai realizzata. Esiste tuttavia la copia del Poema, fittamente annotata, conservata presso il seminario vescovile di Padova, che lo studioso tenne con sé a partire dal 1855: si tratta della Commedia di Dante Alighieri fiorentino novamente riveduta nel testo e dichiarata da Brunone Bianchi. Quarta edizione, corredata del rimario, Firenze, Le Monnier, 1854.

472 G. Giuliani, Saggio di un nuovo commento alla Divina Commedia, p. 30. 473 Ivi, p. 31.

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a sottolineare come non debba «passare senza nota con quanta novità e squisitezza d’arte siasi venuta mutando la forma di un medesimo concetto»: da qui un nuovo rimando alla Commedia, questa volta al Paradiso:

E come giga e arpa, in tempra tesa di molte corde, fa dolce tintinno a tal da cui la nota non è intesa, così da’ lumi che lì m’apparinno s’accogliea per la croce una melode che mi rapiva, senza intender l’inno. Ben m’accors’io ch’elli era d’alte lode, però ch’a me venia «resurgi» e «vinci» come a colui che non intende e ode. (Par. vv. 118 - 126)

«Ora non si conosce egli, che Dante è il maggiore interprete di sè stesso? E non pare che egli dichiari qui d’una viva luce quello che altrove coperse di oscurità? E non ci guiderà egli ancora a penetrare la vera dottrina nascosta sotto il velame delli versi strani? Del certo che alla fidata sua scorta commettendoci, potremo disvilupparci di quelli intrighi, a cui fallirebbero le nostre forze maggiori».474

Tenendo Dante come principale commentatore della propria opera, risulta evidente come alcuni «grandi maestri» siano caduti in errore: è il caso dell’interpretazione del «non si franga» al v. 22 del canto XXIX dell’Inferno:

Allora disse ʼl Maestro: «Non si franga lo tuo pensier da qui innanzi sovr’ello: attendi ad altro, ed ei là si rimanga».

Secondo Giuliani intendere «non s’intenerisca» per «non si franga», come sostenuto da Volpi e da Monti, non è corretto: «il massimo commentatore di Dante, che è Dante, vorrebbe che s’intendesse frangere il pensiero sopra una cosa per fermarlo, appuntarlo, dirizzarlo su di

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essa. Il pensiero o l’animo si affissa là dove suole la vista: e Dante avea suffolto (appuntato) il suo occhio laggiù tra l’ombre triste e smozzicate: v. 6».475

Alle parole usate dal poeta non deve essere esclusivamente attribuito il significato che «loro comunemente si reca, e che la Crusca stabilisce»: al di là dell’interpretazione dei singoli lemmi, bisogna infatti tener conto degli accostamenti che vengono fatti all’interno del verso. È il caso di «cortesia e valor» al v. 67 del XVI canto dell’Inferno:

Cortesia e valor, di’ se dimora

nella nostra città, sì come suole, o se del tutto s’è gito fuora. (Inf., XVI, vv. 67 - 69)

Oltre alla definizione di cortesia e valore che si ricava dal Convivio («larghezza è una speciale e non generale cortesia: cortesia e onestà è tutt’uno» Conv. II, c.11 e «si prende per valore quasi potenza di natura ovvero bontà da quella data» Conv. IV, c.2), per comprendere appieno le parole di Dante bisogna che queste non vengano considerate disgiunte l’una dell’altra. Quello che Rusticucci chiede al poeta è: «se Fiorenza teneva ancora della bontà da lei data dalla natura, e dei belli ed onesti costumi per lungo uso acquistati»: ovvero se a Firenze vi erano ancora quella onestà frutto del vivere civile (la cortesia) e quella virtù innata che è il

valore. Il confronto che Dante stabilisce, accostando i due termini, tra una virtù naturale e

un’altra acquisita permette quindi di attribuire al sintagma e, nello specifico alle singole parole, un significato più esteso rispetto a quello usuale.

Le osservazioni riguardo il linguaggio adoperato dal «sommo poeta» portano inoltre Giuliani a esprimere alcune considerazioni sulla lingua italiana: cominciano quindi a essere gettate le basi per quegli studi linguistici a cui il padre somasco si dedicherà sistematicamente a partire dal 1853. Analizzando il canto XIX dell’Inferno, l’attenzione si sofferma sulle parole che Dante rivolge a Virgilio al v. 37:

E io: «tanto m’è bel, quanto a te piace: tu se’ segnore, e sa ch’i’ non mi parto dal tuo volere, e sai quel che si tace.»

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Dopo aver messo in evidenza come nella teoria filosofica di Dante «il bello porta congiunto sempre il piacere» e sia «una medesima cosa con il buono», Giuliani si scusa per essersi «diffuso oltre al convenevole nella spiegazione di un verso poco o nulla osservato»: una riflessione che tuttavia gli «bisognava a confermare, che la lingua italiana, se non fu creata, ricevette dal massimo Dante la sua propria forma».476 Il padre somasco identifica infatti l’autore della

Commedia con il primo che «con arte e scienza definì, e per tal norma trasse a certa e propria

significazione que’ vocaboli, che per le bocche del volgo e negli scritti anteriori o presso al suo tempo, correvano incerti e male determinati». Nel dar forma «al volgare illustre d’Italia», Dante «non solo provvide a rettamente deffinire i vocaboli, ma sì ancora e colla voce e col fatto ne stabilì le singolari differenze e ci assennò che molti, quantunque pajono, tuttavia non sono del medesimo valore».477

Sulla questione linguistica si ritorna inevitabilmente con il XXVIII canto:

Chi potria mai, pur con parole sciolte dicer del sangue e delle piaghe appieno ch’i ora vidi, per narrar più volte?

Ogni lingua per certo verria meno per lo nostro sermone e per la mente, ch’hanno a tanto comprender poco seno. (Inf. XXVIII, vv.1 - 6)

Per «nostro sermone» Dante intende il volgare: una lingua considerata inadeguata per rendere le «piaghe» a cui sono sottoposte le anime. Un riferimento al Convivio rende esplicito come sia al latino che il poeta attribuisce il «maggior pregio d’espressione»:

se difetto fia nelle mie rime, cioè nelle mie parole, che a trattare di Costei (la donna amata) sono ordinate, di ciò è da biasimare la debilità dell’intelletto e la cortezza del nostro parlare. [...] Di ciò si biasmi il debole intelletto, e ʼl parlar nostro che non ha valore si ritrar tutto ciò che di che dice Amore.

(Conv. III, c.4)

476 G. Giuliani, Saggio di un nuovo commento alla Divina Commedia, p. 14. 477 Ivi, p. 21.

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lo latino molte cose manifesta concepute nella mente, che il volgare fare non può: e, siccome sanno quelli che hanno l’uno e l’altro sermone, più è la virtù sua che quella del volgare.

(Conv. IV, c.5)

La constatazione che la lingua «che chiama mamma o babbo» sia «meno potente del latino a manifestare gl’intellettuali concepimenti» viene espressa anche verso la fine della prima cantica, quando Dante illustra la difficoltà nel raccontare la sua esperienza oltremondana:

S’io avessi le rime aspre e chiocce, come si converrebbe al tristo buco sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce,

io premerei di mio concetto il suco più pienamente; ma perch’io non l’abbo, non sanza tema a dicer mi conduco;

ché non è impresa da pigliare a gabbo discriver fondo a tutto l’universo, né da lingua che chiami mamma o babbo. (Inf. XXXII, vv.1 - 9)

Per «addentrare la mente e discoprire la maestrevol arte del poeta sovrano» bisogna pertanto porre l’attenzione a ciò che lo stesso Dante disvela nelle proprie opere: «tornerebbero sempre mal efficaci i nostri sforzi, se egli medesimo con parlare distinto e aperto non ci rivelasse i suoi pensieri e non ci additasse le rigide norme a cui perpetuamente si obbligò nelle sue ammirabili cantiche».478

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SECONDO SAGGIO DI UN COMMENTO DELLA “COMMEDIA DI DANTE ALIGHIERI