• Non ci sono risultati.

E LA POSIZIONE NEOTOSCANISTA DI GIULIAN

D IFFONDERE LA LINGUA ITALIANA IN I TALIA

Partendo dalla controrelazione di Lambruschini alla Relazione manzoniana del 1868, da cui si aspettava «qualcosa di meglio determinato o almanco di più positivo e conducevole all’uopo», nella sua lettera del 9 maggio 1869 a Terenzio Mamiani, il padre somasco esamina alcune delle proposte esposte da Manzoni nella sua Relazione dell’unità della lingua e dei mezzi

di diffonderla.

La prima proposta avversata da Giuliani è quella di un vocabolario «dell’odierno uso fiorentino» come «mezzo principalissimo» per la diffusione «della buona lingua e della buona pronunzia»: un vocabolario «non riuscirebbe che a disturbare quella unità» già raggiunta dalla lingua italiana grazie agli scrittori del Trecento, i quali «ridussero a stabilità la lingua usata allora dal Volgo» che la custodisce ancora «pressochè intera».152

Quello che manca è un Criterio che permetta di riconoscere la buona lingua «e dove si ritrovi e come e quando la si debba trasfondere negli scritti, e quanto ne rimanga o possa divulgarsi nell’uso».153 Una lingua italiana esiste: è nata da Dante e deve essere rintracciata

con la provveduta scorta dei veraci autori e maestri, i quali colla tradizione degli scritti, avvalorando e raddrizzando la tradizione orale, basteranno a perpetuare di bene in meglio, se non l’unità della lingua viva, la concorde intelligenza e il sentimento della parola ereditata dai nostri maggiori.154

150 G. Giuliani, Arte patria e religione, p. 292. 151 Ivi, p. 292.

152 Ivi, p. 293. 153 Ivi, p. 294. 154 Ivi, p. 298.

61 Di questo Giuliani è assolutamente certo:

La ci è questa Lingua italiana: la ci è ne’ principali nostri scrittori di secolo in secolo,

d’uno in altro paese, da Dante al Giusti, dal Guinicelli a Gaspare Gozzi e al Gioberti;

la ci è, più qua che là, tra le genti toscane; e nella sua forma costitutiva, ben notata da

Augusto Conti, la ci è in tutti i nostri dialetti.155

Per prima cosa è quindi necessario imparare a scrivere bene: a questo studio devono essere rivolti anche gli stessi Toscani che «se non hanno la cognizione riflessa della lingua, cognizione che solo s’attinge dai libri, non riusciranno certo a farsene autorevoli scrittori e maestri». Se si vuole che in ogni scuola ci sia un maestro toscano bisogna prima assicurarsi che conosca la «buona lingua»: non basta «averla sulle labbra perchè rifluisca nell’intelletto».156

Trattenendosi a discorrere con alcuni insegnanti, in diverse zone della Toscana, Giuliani era rimasto sorpreso da come «se la più parte mi si mostravano mirabili nel linguaggio di famiglia, quando li riscontravo insieme cogli scolari, non sapevo più riconoscerli»: tutti infatti

senza ch’io possa consolarmi di eccettuarne qualcuno, si persuadevano che il parlar

bene gli obbligasse a dipartirsi in tutto dall’uso del Volgo; e trasandando poi la buona

lingua, di cui l’umile Volgo è stato già e può essere ancora maestro agli scrittori, si conformavano più che altro al gergo di certi libri, ove della meglio lingua toscana non vi avea che alcun lieve e sfuggevole segno.157

Anche i maestri «favellano e scrivono in ottima lingua, se non s’avvisano o non ambiscono di avere tal pregio».158

Uno dei mezzi principali per fare in modo che il toscano diventi la lingua naturale degli italiani è dunque l’istruzione. Giuliani manterrà la stessa convinzione anche negli anni seguenti, come si legge in una nota del suo diario, la cui copia manoscritta è conservata nel Fondo Giuliani istituito presso la Società Dantesca di Firenze. Qui lo studioso parla della propria lingua madre, il dialetto piemontese:

155 G. Giuliani, Arte patria e religione, p. 298. 156 Ivi, p. 289.

157 Ivi, p. 294.

62

ieri nel sentire una commedia in dialetto piemontese, La povera Rosetta, mi parve d’essere tornato fanciullo. Quel linguaggio, che quasi avrei creduto mi fosse uscito dalla mente, mi tornò così vivo e chiarissimo, come l’avessi parlato sempre. E sì posso dire, che sono pressochè quarantacinque anni ch’io ne avevo dismesso l’uso. Onde bisogna proprio riconoscere che l’idioma materno viene connaturandosi con noi, da non si perdere più mai159

e conclude:

questo ne dovrebbe costringere a provvedere che i nostri bambini cominciassero per tempo ad assuefarsi alla lingua toscana, e si potrebbe così ritemprarsi col linguaggio stesso la natura degl’Italiani.160

Giuliani appare convinto che l’idioma fiorentino «tal quale oggi è» non possa «darci l’unità cui si contende, perchè vi son troppi gli errori del volgo e diverse le corruzioni nei molti de’ civili favellatori». Lo studioso aveva già avuto modo di esporre il proprio pensiero in merito in una lettera del 30 giugno 1853 a Calandri, dove affermava che il popolo fiorentino era apparso ai suoi occhi poco “geloso” della propria lingua, più ricca di forestierismi rispetto ad altri dialetti della stessa regione.

Ecco dunque ciò che separa maggiormente Giuliani dalla posizione manzoniana, avvicinandolo invece a quella della sottocommissione fiorentina. Come sottolineato da Claudio Marazzini, «Manzoni, a differenza di altri cultori della parlata toscana, non guardava al fiorentino rurale, conservativo e arcaico, ma alla parlata della classe colta della città di Firenze: la sua propensione per l’ambiente urbano è significativa, e lo differenzia, per es., da Niccolò Tommaseo o da padre Giambattista Giuliani».161

Quello che premeva al padre somasco era infatti che la paternità della lingua nazionale venisse riconosciuta a tutto il popolo della Toscana, non solamente ai fiorentini: Giuliani non voleva opporsi al pensiero di Manzoni, «ben sarei presuntuoso qualora, nell’oppormivi, io

159 G. Giuliani, Pensieri ed affetti intimi, Firenze, Le Monnier, 1889, p. 8. La nota cui si fa riferimento è quella del 26 - 28 maggio.

160 Ibidem.

161 C. Marazzini, Questione della lingua, voce in Enciclopedia dell’italiano, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2011.

63

affermava infatti di aver trovato in ogni angolo della regione da lui visitato, presso «l’umile plebe», una lingua assai più pura di quella di Firenze.