• Non ci sono risultati.

D ISCORSO RECITATO IL 27 MAGGIO 1844 NELL ’ ACCADEMIA TIBERINA DI R OMA DAL P G IAMBATTISTA G IULIANI C R S OMASCO

LE OPERE DANTESCHE

D ISCORSO RECITATO IL 27 MAGGIO 1844 NELL ’ ACCADEMIA TIBERINA DI R OMA DAL P G IAMBATTISTA G IULIANI C R S OMASCO

Dapprima pubblicato nel tomo XXIII (secondo semestre del 1844) del “Il Cattolico: giornale religioso - letterario”, il discorso fu successivamente ristampato nel tomo CI (ottobre, novembre e dicembre 1844) del “Giornale arcadico”. Edito in volume una prima volta, nello stesso anno, presso la tipografia Veladini di Lugano, lo scritto fu dato alle stampe quattro anni più tardi, presso il tipografo Ferrando di Genova, in un’edizione notevolmente accresciuta e confluita nel 1851, con alcune modifiche, in Alcune prose del p. Giambattista Giuliani.445

Si tratta di una delle opere più interessanti di Giuliani che permette di far luce non solo sulla posizione politica dello studioso, ma anche sul suo rapporto di uomo di chiesa con il papa, in un periodo in cui il Risorgimento giungeva al suo culmine e lo Stato Pontificio giocava un ruolo fondamentale nel dettare le sorti dei nuovi scenari che andavano delineandosi.

Ciò che Giuliani vuole provare è, di contro a quanto affermato da molti, la «riverenza» mostrata da Dante nei confronti della Chiesa e del Papa: per questo l’attenzione degli uditori, e in seguito dei lettori, viene subito richiamata alla definizione che il poeta stesso dà, nel

Convivio, di questa parola: «reverenza non è altro, che confessione di debita soggezione per

manifesto segno».446 A coloro che considerano Dante «non altrimenti che un messo venuto dal

cielo per illuminare le genti [...] e per riformare dalla radice il cattolico dogma» e lo accusano per «l’ardito e franco percuotere che ei fa l’autorità de’ sommi pontefici: quindi il riprovare continuo i mali usi introdotti nella Chiesa: quindi il dispregio di molti riti che noi veneriamo

445 In una nota nel margine inferiore di p. 1 di Alcune prose si legge: «questo discorso fu pubblicato in Roma nel 1845 e ristampato con alcuna giunta a Torino nel 1847»: dalle ricerche svolte non è però risultato possibile risalire a queste due edizioni. Per quanto riguarda l’edizione del 1845 è possibile che si facesse riferimento a quella stampata a Roma nel 1844. Sembra strano che Giuliani indichi le date del 1845 e del 1847, che corrisponderebbero a due successive edizioni, e non citi la prima pubblicazione del discorso avvenuta alla fine del 1844: vista la vicinanza temporale è plausibile che si sia preferito indicare l’anno successivo. Inoltre, nel profilo biografico di Giuliani scritto da Angelo De Gubernatis, a p.310, si legge: «già nel 1844, egli aveva messo a stampa tre notevoli discorsi» tra cui Della riverenza che Dante Allighieri portò all’autorità pontificia. A proposito dell’edizione del 1847 bisogna invece sottolineare che l’unico riferimento riscontrabile è proprio quello riportato in Alcune prose. 446 Convivio, trattato IV, capitolo VIII.

173

per santi, ed altre siffatte menzogne»447, lo studioso suggerisce di «scorrere per intero la

Commedia». All’interno del poema infatti non si parla mai del Papa «senza fregiarlo di que’

nomi o di que’ titoli onorevoli che a buon diritto gli si appartengono»448: a riprova di questo

Giuliani richiama i vari luoghi dell’opera in cui Dante fa riferimento al pontefice, e invita a riflettere sul fatto che «tuttociò (non) gli sarebbe uscito della penna, se per gran maniera ei non sentivasi ripieno il cuore e trasportato dalla somma venerazione alla dignità, a che Cristo sublimò s. Pietro e dopo questo gli altri suoi vicari».449 Ben diverso è il linguaggio adoperato

dagli eretici, ma se anche Dante, come sostenuto da alcuni, deve essere annoverato tra questi allora «gelosi custodi, com’ei si fanno, delle dottrine dantesche, prendano in ciò a seguirlo: e la chiesa si vedrà lieta a gioire nel ricondurre all’ovile le pecorelle smarrite»450.

Nella coscienza del poeta la Chiesa e il pontefice sono ben distinti e come tali compaiono anche nella sua opera più strettamente “cristiana”, anche se talvolta «al sicuro lume della fede possono vicendevolmente scambiarsi»451. Così, quando Virgilio chiede a Stazio, nel

ventiduesimo canto del Purgatorio (vv. 61 - 63), per quale ragione avesse deciso di convertirsi al cristianesimo, «si rende palese che per lui era la stessa cosa il seguire la navicella di Pietro e il rendersi cristiano»452:

[...] qual sole o quai candele ti stenebraron sì, che tu drizzasti poscia di retro al pescator le vele?

Allo stesso modo «l’eccelso cantore» riconobbe «uno stesso il sacrosanto ovile romano e quello dell’orbe universo, la chiesa di Roma e la chiesa universale, il pastore romano e il pastore di tutta quanta è ampia e dilatata la Chiesa di Cristo», come affermato in quel passo del Convivio in cui si legge:

447 G. Giuliani, Della riverenza che Dante Alighieri portò alla somma autorità pontificia. Discorso recitato il 27

maggio 1844 nell’accademia tiberina di Roma dal p. Giambattista Giuliani C. R. Somasco, in “Giornale arcadico di scienze, lettere ed arti”, tomo CI, ottobre, novembre e dicembre, Roma, 1844, p. 325.

448 Ivi, p. 326. 449 Ivi, p. 327. 450 Ibidem. 451 Ivi, p. 328. 452 Ibidem.

174

E sono di ferma opinione, che le pietre che nelle mura sue stanno siano degne di riverenza; e ʼl suolo dov’ella siede sia degno oltre quello che per gli uomini è predicato e provato. 453

(Convivio, tratt. 4, cap. V)

Uno dei cardini su cui poggiano le tesi di coloro che ritengono Dante un oppositore dell’autorità pontificia è la convinzione che si scagli contro le pratiche e riti della religione cattolica. In particolare Giuliani addita, come «nerbo dei loro argomenti», la distorta interpretazione dei vv. 118 - 126 del XXIX canto del Paradiso in cui il poeta, secondo la loro visione, considererebbe nulle le indulgenze papali, rimproverando i predicatori a lui contemporanei e invitando il popolo a non prestar loro fede:

Ma tal uccel nel becchetto s’annida Che se il volgo il vedesse, vederebbe La perdonanza di che si confida;

Per cui tanta stoltezza in terra crebbe, Che senza prova d’alcun testimonio, Ad ogni promission si converrebbe.

Di questo ingrassa il porco sant’Antonio, Ed altri assai che son peggio che porci, Pagando di moneta senza conio. (Paradiso, XXIX, vv.118 - 126)

In realtà «qui l’alto poeta non intese già di mettere in derisione ed in sospetto di falsità le indulgenze: si veramente [...] s’avvisò di muovere guerra a que’ frati o altri che fossero, i quali lusingati da un vilissimo danaro predicavano false indulgenze e promettevano largo perdono senza prova di alcun testimonio, cioè senza che queste loro dinunzie fossero autenticate dall’impronta delle sante chiavi».454

L’assoluzione concessa da Bonificio VIII a Guido di Montefeltro rappresenta un altro punto di forza degli «eretici» espositori di Dante, secondo cui questa sarebbe stata considerata dall’autore della Commedia «invalida e inefficace». Convinto che la migliore difesa a Dante sia

453 G. Giuliani, Il Convito di Dante Allighieri reintegrato nel testo da Giambattista Giuliani, vol. II, p. 423. 454 G. Giuliani, Della riverenza che Dante Alighieri portò alla somma autorità pontificia, p.331.

175

Dante stesso, Giuliani richiama l’attenzione su un’altra opera fondamentale del poeta, la

Monarchia, in cui non solo si afferma che l’imperatore «deve usare al sovrano pontefice quella

riverenza che è dovuta dal figliuolo alla madre e dal primogenito al suo padre», ma si raffigura «nel sole il pontefice e nella luna l’imperator romano: perocchè rispetto al reggimento spirituale voleva che questi fosse pienamente nella soggezione di quello». E se è vero che nella

Commedia, nel canto XVI del Purgatorio, il Papa e l’imperatore vengono rappresentati dalla

medesima metafora del sole, «soleva Roma, che ‘l buon mondo feo, / due soli aver» (vv. 106 - 107), è pur vero che «bene furono distinti l’uno dall’altro con dare a vedere che dell’imperatore era l’additare la strada del mondo, e del papa il mostrar quella di Dio».455

Tuttavia chi negherà «che l’Allighieri non sia stato irriverente alla dignità di chi fu investito del papale ammanto?». Giuliani non nasconde i duri rimproveri mossi da Dante ad alcuni pontefici, ma, sottolinea, fu proprio la riverenza nei confronti delle chiavi di San Pietro a impedire al poeta di usare parole «ancora più gravi» di quelle riservate a papa Niccolò III:

E se non fosse ch’ancor lo mi vieta La reverenza delle somme chiavi Che tu tenesti nella vita lieta,

io userei parole ancor più gravi; ché la vostra avarizia il mondo attrista, calcando i buoni e sollevando i pravi. (Inferno, vv. 100 - 105)

A questo proposito diverse sono state le accuse rivolte all’aver posto papa Celestino V e Anastasio II all’inferno: accuse prodotte con modi «insolenti e frivoli» e che Giuliani si propone di «spegnere» una volta per tutte. Quello che guida il poeta è l’amore per il vero e se talvolta Dante sembra venir meno a questo principio, questo accade o perché in preda a una violenta passione o perché «la storia falsamente gli grida». Niente poteva spingere Dante a condannare tra gli eretici un papa, se non la volontà di mostrare ai suoi seguaci la gravissima pena a cui Anastasio era sottoposto all’inferno: «la divina Commedia, perché giovasse al bene comune e tutti impedisse dal trasviarsi, dovea comprendere le tradizioni che maggiormente erano divulgate ed avute per veraci da ogni maniera di persone» anche a scapito del vero storico. Le prove addotte da coloro che sostengono che Dante «errasse a bella posta o almeno con piacere»

176

non sono altro che armi che rivolgono contro sé stessi perché «chi intimamente penetrò l’animo del sommo fiorentino, e non v’indusse le proprie idee, vi avrà scorto ben altri disegni».

Sempre nel 1844 il discorso fu ristampato, senza modifiche di rilievo, nel volume CI del “Giornale arcadico” e in volume, per i tipi Veladini di Lugano con l’aggiunta della dedica a Francesco Calandri. Notevolmente arricchite dall’aggiunta delle riflessioni sul veltro della

Commedia, come si intuisce fin dal titolo mutato rispettivamente in Della riverenza di Dante Allighieri al pontificato di Roma e del veltro allegorico della Divina Commedia e in Del cattolicesimo di Dante Allighieri e del veltro allegorico della Divina Commedia, sono invece

le edizioni del 1848 e del 1851.456

A collegamento tra i due argomenti viene posto un paragrafo, il XVIII, in cui Giuliani si propone di esporre «un argomento invincibile a qualunque impugnazione, e facile eziandio a persuadervi, che il famoso Veltro, sperato distruggitore dell’antica lupa, non può raffigurare altra persona che un novello pontefice».457 Quello che molto spesso sfugge all’attenzione dei

commentatori è il fine della Commedia «di condurre gli uomini alla felicità della terra e del cielo»: a questo Dante guarda quando all’interno del poema sottolinea la necessità «d’un Imperatore che rinforzando i precetti della filosofia e di essi aiutandosi, diriga l’uomo alla beatitudine di questa terra» e «d’un Papa che a seconda delle teologiche virtù, lo ravvii e tenga diritto nel cammino del cielo».458 Due strade che non devono ostacolarsi a vicenda, ma al

contrario venirsi incontro l’un l’altra, «per il che appare manifesto l’error di coloro che, ravvisando nella tanto decantata lupa l’imagine della potenza ecclesiastica della curia romana, vorrebbero che un reggitor dell’Impero o un suo vicario fosse quel novissimo veltro che [...] l’avrebbe ritolta dagli abusi e costretta in freno».459 Allo stesso modo non si può pensare che il

compito del veltro sia solamente quello di limitare il potere temporale del papato, perché in tal

456 Si veda G. Giuliani, Della riverenza di Dante Allighieri al pontificato di Roma e del veltro allegorico della

Divina Comedia ragionamento di Giambattista Giuliani, Genova, Tipografia Ferrando, 1848 e G. Giuliani, Alcune prose di G. Giuliani, Savona, Sambolino, 1851. In una nota a p. 5 di entrambe le edizioni è lo stesso Giuliani ad avvertire il lettore: «la prima parte di questo discorso fu letta nell’accademia Tiberina di Roma il 27 maggio 1844: ma ora è stata rifatta e adattata alle circostanze presenti, aggiuntovi di più la seconda parte del Veltro allegorico». Si noti inoltre la soppressione, in entrambe le sillogi, del «breve cenno di alcune opere dove o si offende o si combatte o si sostiene la sana e religiosa dottrina dell’Allighieri» a cui erano dedicate le ultime pagine dell’intervento sul “Giornale arcadico” e che erano state riportate, sotto forma di appendice, nell’edizione in volume del 1844.

457 G. Giuliani, Della riverenza di Dante Allighieri / Alcune prose, p. 25. 458 Ivi, p. 27.

177

modo non si spiegherebbe come «tal provvidenza potesse bastare al grandissimo uopo di svellere dal mondo la maligna radice dei vizi e farvi rigermogliare le sante virtù».460

Interessanti sono le parole di Carlo Vassallo che, nella Commemorazione di G.B. Giuliani, ricorda come

dopo il Dionisi i commentatori si erano straniati dall’esegesi dantesca de’ secoli antecedenti. Se infatti il Bettinelli si studiava perfino di togliere a Dante il titolo di poeta, il Foscolo per contro, pur sentendolo ed esaltandolo, ne faceva un visionario; il Marchetti ed il Picci vedevano nel poema solo adombrato l’esilio, Gabriele Rossetti vi fondava sopra la sua allegoria antipapale, ed in Germania, dopo il Gräul, si sognava nel Veltro l’anagramma di Lutero. In Francia intanto, proponendosi un fine diverso, giungeva alle stesse conseguenze E. Aroux nell’opera: Dante herétique,

revolutionnaire et socialiste (1854), coronata poi due anni dopo colla Clef de la Comédie anti - catholique de Dante Alighieri, dove contorcendo le parole ei cercava

di far vedere come l’Alighieri e gli altri poeti italiani del secolo XIV avessero fatto uso di un gergo settario, ostile alla Chiesa. Contro tutti costoro era necessaria un’instauratio ab imis fundamentis; e questa fu fatta in Germania da C. Witte, ed in Italia dal Giuliani.

Dopo aver espresso la propria contrarietà nei confronti di chi vorrebbe identificare il veltro con Lutero (come ad esempio Graul)461 o con Cangrande della Scala, Giuliani si sofferma ad

460 G. Giuliani, Della riverenza di Dante Allighieri / Alcune prose, p. 32.

461 In una lettera del 2 gennaio 1845 Witte esponeva la propria opinione sulla religiosità di Dante citando proprio quei suoi compatrioti che credevano di poter scorgere nel veltro della Commedia Lutero, Valdo e Huss: «se nella prima di queste opere (il quadro di Vogel von Vogelstein raffigurante la Commedia su cui Giuliani aveva scritto un discorso), l’oggetto di cui si tratta concorse con gl’insigni meriti per rendermene graditissima la lettura, con non minor soddisfazione lessi la seconda che vittoriosamente restituisce all’Allighieri il vanto di cattolico ortodosso. Ella non ignora, per quanto ho veduto, che oltre ai sogni del Foscolo e del Rossetti, alcuni dei miei compatriotti credono di onorar la memoria del divino poeta, accoppiando il suo nome con quelli di Pietro Valdo, di Huss e di Lutero. Quantunque io sia acattolico, ho sempre creduta falsissima una tale opinione, la quale invece di farci conoscere nella Divina Commedia il più squisito fiore del medio evo, esalante quanto di più santo e di più sublime nacque nei cuori di tante generazioni, ce la trasporta in un secolo tutto differente, e deve di necessità far crollare i fondamenti della gran fabbrica del poema, con somma pazienza gettati dall’autore sull’immutabile dottrina della Chiesa, e sulle credenze del suo tempo.» Cfr. A. De Gubernatis, Ricordi biografici, pp. 310 - 311. Alle teorie di Graul Giuliani dedicava una nota nel «breve cenno di alcune opere dove o si offende o si combatte o si sostiene la sana e religiosa dottrina dell’Allighieri» in cui affermava che dopo aver inteso «queste, direi

178

analizzare quei passi della Commedia in cui Dante si interroga, e interroga le anime, sulla ragione «del sì lamentabile sviamento del mondo». Scorrendo le pagine del poema e della

Monarchia non si può negare l’attribuzione «di qualunque danno e pervertimento dall’avarizia

che ne’ papi usava il suo soperchio» (cfr. Inf. VII, 48).462 È infatti l’avarizia a essere

allegoricamente rappresentata nella lupa che il poeta incontra all’inizio del suo viaggio: di questo «ce ne convince Dante istesso» non solo nella Commedia, ma anche nella Lettera ai

cardinali, in cui vengono definiti lupi «tutti e quanti sono miseri seguaci di quella: cupiditatem unusquisque sibi duxit in uxorem», e nella canzone O patria degna dove la corrotta Firenze

viene rappresentata attraverso la metafora della «lupa rapace» (v. 60).463 Se il principale male

del mondo può essere identificato nell’avidità, derivante dalla cattiva condotta dei papi (più attratti dai beni terreni che da quelli spirituali), «convien dire che a ripararlo bisognava un Pontefice di egregi ed incolpabili costumi, disprezzatore dei fuggevoli splendori mondani, e sol bramoso delle celestiali ed eterne ricchezze».464

«L’essere succeduto a Bonifacio VIII, principio e cagione di tutto il male, e il prestarsi acconciamente alla visione imaginata nel 1300, e l’aver dato sicuri indizi della bontà propria di un successore di Pietro» sembrano essere indizi a favore di chi (come Marco Giovanni Ponta, Giuseppe De Cesari e Salvatore Betti) scorge nell’immagine allegorica del veltro papa Benedetto XI.465 Dello stesso avviso sembra essere anche Giuliani che, a riprova di tale tesi,

sottolinea: «l’Allighieri pose Nicolò III in atto di starsi aspettando a successori nel penace tormento dei simoniaci un Bonifacio VIII, un Clemente V; ma nulla disse di Benedetto XI che li divise nel regno».

Fin qui l’edizione Ferrando e quella confluita in Alcune prose concordano perfettamente (anche nel numero di pagina): mentre nel 1848 Giuliani termina il proprio scritto tessendo le lodi di papa Pio IX (il cui pontificato durò dal 1846 al 1878) ravvisando in lui quasi un nuovo “veltro”, tre anni più tardi l’elogio viene sostituito da un’ultima riflessione sulla fede e sulla

bestemmie, sentii bollirmi l’animo di forte sdegno e fu allora che mi venne in pensiero di scrivere questo discorso della riverenza che Dante ebbe alla sedia apostolica: perchè quindi come di legittima conseguenza, si dimostrasse il sano ed incolpabile cattolicismo del massimo poeta di cui l’umana specie si onori».

462 G. Giuliani, Della riverenza di Dante Allighieri / Alcune prose, p. 39. 463 Ivi, p. 40 nota.

464 Ivi, p. 44.

465 Benedetto XI (nato Nicola di Boccassio) fu eletto papa il 22 ottobre 1303. Il suo pontificato fu breve: la morte lo colse infatti dopo neanche nove mesi dalla sua elezione il 7 luglio 1304.

179

religiosità di Dante. Le ragioni di questa modifica non vengono esplicitate dall’autore, ma è probabile che riguardino gli avvenimenti politici della prima guerra d’indipendenza.

La soppressione operata nell’edizione del 1851 della celebrazione di Pio IX può infatti essere legata alla sfiducia conseguente al ritiro dello Stato Pontificio dal movimento nazionale dopo che, in un primo momento, il papa aveva deciso l’intervento accanto al Piemonte. Dopo infatti che la disfatta di Novara, del 23 marzo 1849, «tolse agli italiani ogni speranza di prossimo risorgimento», Giuliani scrisse al padre una lettera in cui quella «beatissima luce di questo tempo felice»,466 che sembrava illuminate l’Italia solo tre anni prima grazie al nuovo Pontefice,

appare ormai spenta per sempre:

[...] Bensì vorrei che l’Italia potesse risorgere al posto a lei conveniente fra le nazioni del mondo; ma poichè oramai questa suprema consolazione mi scema, ritorno con maggior cura a’ miei studii, e in questi passo la mia vita assai lietamente. [...] Così ora siamo condannati a rattristarci d’un male a cui non si può riparare, e sdegnarci di tanta cecità e superbia umana.467

466 G. Giuliani, Della riverenza di Dante Allighieri, p. 53. 467A. De Gubernatis, Ricordi biografici, p. 319.

180 1846

SAGGIO DI UN NUOVO COMMENTO ALLA DIVINA COMMEDIA DI DANTE ALLIGHIERI