LA FILOLOGIA DANTESCA TRA OTTOCENTO E INIZIO NOVECENTO
S PIEGARE D ANTE CON D ANTE :
UN ESEMPIO TRATTO DALLA COPIA DELLA COMMEDIA DI PADOVA
Al di là dei numerosi commenti dati da Giuliani alle stampe nel corso della sua vita, che verranno analizzati attraverso una serie di schede nel capitolo seguente, e che costituiscono la messa in atto del metodo da lui propugnato, il documento che più di tutti permette di crearsi un’idea precisa su come lo studioso operasse in divenire sul testo dantesco è rappresentato dalla
Commedia padovana.306 Un esempio emblematico è rappresentato dalla pagina relativa a
Purgatorio XXV, 26-42 che qui verrà analizzata.
Il nucleo tematico attorno al quale ruota la maggior parte delle postille è il verso 31 del canto: se il Bianchi (curatore dell’edizione posseduta da Giuliani) aveva optato per la lezione «se la veduta eterna gli dispiego», il padre somasco mostra di preferire «se la veduta interna gli
dislego», come si legge invece nel Paradiso, a cui rimandano, infatti, le annotazioni in
interlinea: «interna: Par. XIX, 60»307 («com’ occhio per lo mare, entro s’interna») e «dislego:
Par. XXXIII, 31» [«perché tu ogne nube li disleghi]». Per «veduta interna» Giuliani intende
«vista della mente», come nella Monarchia (menzionata sul margine destro della pagina: «veduta interna: vista della mente, Mon. II, 1 Ɵ») e nel significato attribuito dal Petrarca ad «occhio interno» nel v. 12 («Ché più bella che mai con l’occhio interno») del sonetto Spinse
amor e dolor ove ir non debbe. In questo caso la citazione del sintagma petrarchesco è seguita
da un numero di pagina («Petrarca, p. 294»), che certo rimanda a un’edizione del Canzoniere petrarchesco posseduta da Giuliani. Come evidenzia lo studioso sul margine sinistro della pagina, la «veduta interna» coincide con gli stessi «raggi della mente» di cui si parla in
Paradiso, XIX, 52-54 («dunque vostra veduta, che convene / essere alcun de’ raggi de la mente
/ di che tutte le cose son ripiene»). Lo stesso concetto viene espresso con diverse perifrasi anche in altre opere di Dante, e cioè, oltre che nella Monarchia, nel Convivio, cui Giuliani rimanda nelle annotazioni successive: «gli occhi intellettuali: Con. II, 5 r», «gli occhi della mente umana ossia gli occhi della ragione, Con. I, 4. 6; II, 5. p IV, 15». Un’altra interessante postilla a margine, col suo rinvio a «Canzoniere pag. 203», permette di datare almeno parte delle annotazioni come successive all’anno 1863, in cui Giuliani diede per primo unitamente alle
306 Per «Commedia padovana» si fa riferimento alla copia del poema annotata da Giuliani conservata presso la Biblioteca Antica del Seminario Vescovile di Padova. Cfr. Cap. II, La Commedia Padovana: comprendere Dante grazie ai contadini toscani. (Cfr. II Appendice, p. 571)
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stampe La Vita Nuova e il Canzoniere di Dante Allighieri. Alla pagina 203 del volume si trova, infatti, la canzone dantesca Doglia mi reca ne lo core ardire, i cui versi 48-50 («Questo servo signor tanto è protervo, / Che gli occhi, ch’a la mente lume fanno, / Chiusi per lui si stanno») vengono così commentati dal Giuliani:
Questo servo (l’appetito sensitivo) fatto signore della ragione, cui dovrebbe servire, tanto è protervo (baldanzoso), che per lui gli occhi della mente stanno chiusi alla luce
del vero. Sicché l’uomo, che se ne lascia vincere, fatto ha la mente sua negli occhi
oscura (Purg., XXXIII, 126)308, e però ha l’occhio dell’anima intento alle folli cose, è fuori di conoscenza e della verità309.
Ancora alla lezione «veduta interna» è dedicata l’intera annotazione posta sul margine inferiore di pagina 424, dove Giuliani puntualmente motiva tale sua scelta
Se gli libero la mente dal legame, in che lo tengono i suoi dubbi, se queste piaghe mentali gli risono, onde veggo il vero ec. Deve certo leggersi veduta interna gli
dislego, perché qui si tratta di sanare le piaghe dell’intelletto ovvero della mente, e
queste non possono essere che ignoranze ed errori, onde la mente è come legata e impedita a conoscere il vero. Quindi altrove a significare ch’egli fu chiarito d’alcun dubbio ed errore, sì occorre che per fargli chiara la sua inferma vista, gli fu data soave medicina (Par. XX, 141310). E il detto Bernardo prega Maria che disleghi a Dante ogni
nube di sua mortalità (Par. XXXIII, 31)311 e l’errore è pur come nebbia che fiede
l’intelletto: Pur. XXVIII, 90312. […]
Particolarmente degna di nota, a questo proposito, è una lettera che Giuliani indirizzò a Tommaseo il 27 settembre 1865313 nella quale il padre somasco metteva a parte dei suoi dubbi
l’illustre lessicografo:
308 Anche qui è errato il rinvio di Giuliani a «Purg., XXXIII, 26».
309 Giambattista Giuliani, La «Vita Nuova» e il «Canzoniere» di Dante Allighieri ridotti a miglior lezione e
commentati, Firenze, Le Monnier, 1863, p. 286.
310 Altro errato rinvio dello studioso a «Par. XX, 41».
311 Cfr. Paradiso XXXIII, 31-33 («perché tu ogni nube li disleghi / di sua mortalità co’ prieghi tuoi, / sì che ’l sommo piacer li si dispieghi»).
312 Cfr. Purgatorio XXVIII, 90 («e purgherò la nebbia che ti fiede»).
127 Badia il 27 di settembre 1865
Venerando Amico,
la più parte de’ codici fiorentini legge veduta eterna, anziché vendetta eterna, in quel verso di Dante ch’io v’accennava (Pur. XXV, 31) come degno di recarsi a nuovo esame. E veduta leggono puranco tutti e quattro i Codici di Siena, se non che in uno di questi è scritto eeterna (Codice segnato VI. 30) e in due altri etterna (Codice VI, 27. IX, 20). Ma io sono di fermo avviso, che da questa scorretta scrittura si debba trarre la vera lezione, che porterebbe interna e non eterna. E dico vera, perchè Virgilio aveva pregato Stazio di essere a Dante sanatore delle sue piaghe, di quelle piaghe vo’ dire, per cui questi già s’era più volte raccomandato al savio Maestro: «O sol che sani ogni vista turbata, / Tu mi contenti sì, quando tu solvi / Che, non men che saver, dubbiar
m’aggrata». Inf. 11, 91[-93]. Di tutti Stazio si rivolge subito al caro alunno, dicendo:
«Se le parole mie, / figlio, la mente tua guarda e riceve / lume ti fiero al come che tu
die» [Purg. XXV, 34-36]. Or non è questo un dirgli: Se tu attendi al mio ragionamento, ti sarà chiara la tua interna veduta, la mente tua vedrà il vero desiderato? Un modo
simile occorre là, dove l’Allighieri ne rammenta, che l’Aquila benedetta gli ebbe ragionato a lungo per sciogliergli la mente dei dubbi intorno a Rifeo e a Traiano: Per
farmi chiara la mia corta vista, / data mi fu soave medicina, Par. XX, 140[-141]. Né
il dislegare la veduta interna mi parrebbe punto diverso dal solvere la mente che Dante adopera altrove: Par. VII, 22 [«ma io ti solverò tosto la mente»]314. Del resto nel Convito (tratt. II cap. 5) si parla della imperfezione degli occhi della mente umana e
de’ nostri occhi intellettuali, e si assegna bene la ragione di questa nostra inferma
veduta, corta d’una spanna. Quanto al dislego mi richiama al contemplante Bernardo
che prega la Vergine, perché pregando disleghi a Dante ogni nube di sua mortalità (Par. XXXIII, [31-]32), non altrimenti che la Filosofia, invocata da Boezio, ricorre alle Muse per aiutarlo al bisogno: lumina eius mortalium rerum nube caligantia,
purgamus: Phil. I. pros. 2. Non mi fermo poi a combattere la lezione comune, perché
la veduta eterna in Purgatorio non ha luogo; né la vendetta eterna parmi al proposito, trattandosi di spiegare come si può far magro / Là dove l’uopo di nutrir non tocca,
Pur. XXV, 20[-21]. D’altra parte quella verità che si vuole conoscere da Dante e che
gli viene spiegata, è fuori dell’ordine delle verità eterne, e deve riguardarsi come un effetto provveduto in tempo dall’arte della sapienza divina. Ond’è che la lezione da me proposta mi sembra la sola accettabile e propria al caso, né io oserei di proporla, se la verità palese non mi vi costringesse e se all’autorità degli amanuensi non dovesse prevalere la ragione e l’uso di Dante. Ad ogni modo mi rimetto al vostro senno: tu
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duca tu signore e tu Maestro. Vogliate almeno scusarmi del libero ardire, e tenetemi
sempre, quale io vi sono per intima stima e col maggior sentimento, vostro devotissimo amico.
Giovanni Battista Giuliani315
Tornando alla Commedia padovana, non mancano anche in questa pagina i rimandi alla lingua toscana contemporanea: questo per quanto riguarda specificamente Purgatorio XXV, 27 («ciò che par duro ti parrebbe vizzo») accanto al quale Giuliani pose la postilla «È d’uso vivo:
fichi vizzi, dicono ec.», secondo la modalità a lui congeniale di interpretare il lessico dantesco
alla luce dell’uso toscano vivente. Come si accennava poco sopra, il metodo di spiegare Dante con Dante non prevedeva il solo uso di opere del poeta, ma anche quello delle fonti da lui usate: è quanto risulta evidente al verso 39 del medesimo canto («quasi alimento che di mensa leve») per il quale si rimanda ad Alberto Magno e, in particolare, al suo commento del De generatione
et corruptione di Aristotole («superfluo: Alberto Magno de gen.»).
L’INTERTESTUALITÀ DANTESCA: L’IMPORTANZA DELLE OPERE MINORI
Due sono gli obiettivi principali che Giuliani si prefissa volendo spiegar Dante con Dante: la ricostruzione del testo critico delle opere dantesche e l’interpretazione delle parole del poeta. Se tuttavia il primo fine riuscì ad essere portato a termine, il commento integrale alla
Commedia, come si è visto, non fu mai concluso.
La metodologia propugnata da Giuliani si fonda su alcuni pilastri fondamentali: il confronto sistematico tra tutti gli scritti danteschi, la conoscenza dell’usus scribendi di Dante, lo studio accurato delle fonti di cui si servì il poeta e il sistematico raffronto tra il linguaggio dantesco e l’uso vivente di Toscana.
Un caso emblematico è costituito dall’Epistola a Cangrande della Scala, documento intorno al quale nell’Ottocento si accesero animate dispute e di cui il padre somasco fu uno dei primi a difendere l’autenticità. Nella Prefazione al suo studio del 1856 Del metodo di commentare la
Divina Commedia. Epistola di Dante a Cangrande della Scala, Giuliani spiega infatti:
315 Lettera di Giambattista Giuliani a Niccolò Tommaseo, 27 novembre 1865, Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Tomm. 87, 42–16r-v. (Cfr. II Appendice, pp. 572 – 573)
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m’indussi a volgarizzare di nuovo quell’epistola, perchè assai notevoli mende si discopersero nel testo, e perchè le traduzioni del Fraticelli e del Missirini non si concordano sempre colla mente dell’Autore. Ai pensieri del quale io mi tenni ristretto in ogni possibile maniera, adoperando, giusta l’uopo, le conformi parole che egli mi somministrava nella Commedia e nelle opere Minori. E qualora nel mio volgarizzamento e così ne’ commenti apparisca qualche ardita interpretazione, chi voglia cercarne il motivo, vedrà esserne tuttavia un solo; il debito che mi sono imposto di spiegare Dante con Dante.316
Un parametro importante, aggiunge inoltre Giuliani, per l’attribuzione a Dante dell’epistola allo Scaligero è la conformità, nella forma così come nello stile, agli altri scritti del poeta:
la forma che Dante di continuo strettamente segue ne’ suoi ragionamenti [...], mediante la quale il discorso muove sempre dai sommi e fondati principii onde le verità si conchiudono, scorgesi intera nella Dissertazione allo Scaligero, nè si differenzia punto da quella improntata nella Monarchia, nel Volgare eloquio e nelle tre Cantiche. Sopra ciò, quivi occorrono le istessissime frasi, le voci barbare e scolastiche, il duro stile, gli esempi, sinanco i sillogismi che s’incontrano qua e colà nelle opere di Dante latinamente scritte.317
Il valore esegetico attribuito da Giuliani alle opere minori appare quindi evidente fin dai suoi primi saggi dedicati all’argomento; ciononostante una descrizione puntuale del suo modo di procedere verrà da lui stesso fornita solo nel 1861 nel capitolo Dante spiegato con Dante. Nuovi
commenti alla Divina Commedia contenuto nella silloge Metodo di commentare la Commedia di Dante Allighieri:
in prima cercai di raffrontare la Commedia ne’ luoghi simili, e degli uni mi valsi ad illustrare gli altri, o a vicenda. Poscia dispiegatemi alla mente le svariate fila di quella immensa tela, m’ingegnai, per quanto era in me, di contesserle insieme con quelle della Vita Nuova, del Convito, della Monarchia, delle Lettere, delle Canzoni, delle
Egloghe e del Volgare Eloquio.318
316 G. Giuliani, Del metodo di commentare la Divina Commedia, Savona, L. Sambolino, 1856, prefazione. 317 Ivi, p. 15.
318 G. Giuliani, Metodo di commentare la Commedia di Dante Allighieri, Firenze, Le Monnier, 1861, pp. 151 – 152.
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«DANTE E IL LINGUAGGIO DI QUESTO POPOLO SON TUTTA LA MIA CURA»:
DANTE E LA PAROLA DEI CONTADINI TOSCANI
Tra le innovazioni introdotte da Giuliani vi è sicuramente quella di raffrontare, a livello lessicale e sintattico, il linguaggio dantesco con quello dei contadini toscani: non si tratta in realtà di una novità vera e propria in quanto già Tommaseo, come si avrà modo di vedere nello specifico nei paragrafi successivi, fin dalla prima edizione del suo commento del 1837 adottò questo particolare confronto.
Bisogna tuttavia notare che tra i due studiosi esistono alcune differenze metodologiche: nella maggior parte delle note linguistiche introdotte da Tommaseo nel suo commento la spiegazione del termine analizzato si esaurisce in frasi come «vive in Toscana», «è del toscano», «s’usa in Toscana»; Giuliani tende invece ad argomentare maggiormente la propria chiosa, riportando l’antefatto che sta alla base di quello specifico rimando al toscano dell’uso. Nel primo la fraseologia di riferimento non viene quasi mai annotata, se non in alcuni casi come accade per i proverbi e per i modi dire; nel secondo, al contrario, l’esempio tratto dalla lingua del popolo di Toscana viene sempre riportato. Mentre lo studioso dalmata spesso si limita ad affermare genericamente che un vocabolo «vive in alcune aree della Toscana», in Giuliani si nota un’accuratezza quasi dialettologica che lo porta a specificare, oltre alla variante diastratica, anche quella diatopica, con precisi riferimenti al paese o alla frazione di provenienza del suo informatore.
Interessante a questo proposito è una lettera del 15 febbraio 1858 indirizzata da Giuliani a Tommaseo e oggi conservata presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze: da questa si intuisce come molto probabilmente all’inizio il contributo di Giuliani al Tommaseo – Bellini dovesse riguardare proprio le parole e i modi di dire danteschi o, quanto meno, questa doveva essere la speranza dello studioso che infatti propone al lessicografo l’invio di liste di corrispondenze tra il linguaggio usato dal poeta e l’uso vivo toscano.
[…] All’istesso modo dell’acchiusa, le potrei inviare un’altra lista delle voci dantesche col rigore della scienza di Dante e dell’uso toscano. Ma vorrei prima intendere il suo amorevole e savio consiglio.319
319 Lettera di Giuliani a Tommaseo, 23 marzo 1858, Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Tomm. 87, 41 – 9r. (Cfr. II Appendice, pp. 556 – 557).
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A partire dal suo primo viaggio in Toscana del 1853 per il padre somasco gli studi danteschi e quelli sul «vivente linguaggio toscano» andarono via via alimentandosi vicendevolmente: da un lato la parlata di contadini e artigiani, raccolta e studiata con attenzione, ha permesso allo studioso di Dante di interpretare il senso di luoghi della Commedia non ancora chiariti, dall’altro la parola poetica si è fatta riferimento storico fondamentale per avallare l’importanza dell’idioma “vivente” di Toscana come lingua da estendere a tutta la nazione.
Il confronto tra la lingua di Dante e quella usata dai contadini delle campagne toscane comparve, per la prima volta, nel saggio del 1857 Dante spiegato con Dante: nuovi studi sulla
«Divina Commedia», dove, commentando il verso 63 di Paradiso III («sì che raffigurar m’è
più latino»), Giuliani riscontrò il medesimo uso dell’aggettivo latino, nel senso di chiaro, nella frase di un contadino di Cavinana: «quel vocabolo è tuttor vivo in Toscana; ed io intesi a Cavinana un cotale che, rimproverando con aperti modi il suo compagno, pur gli diceva: “tel dico latino io?”».320 Se in questo caso la parola del popolano toscano viene in soccorso allo
studioso per commentare correttamente il verso dantesco, in altri casi l’uso vivente serve a emendare il testo critico dell’opera dantesca: è quanto accade, per esempio, nell’edizione del
Convivio curata da Giuliani e pubblicata tra 1874 e 1875. Qui, alla riga 90 del capitolo XXIX,
la «meliga» viene infatti sostituita con la «saggina» («e siccome d’una massa bianca di grano si potrebbe levare a grano a grano il formento, e al grano sostituire saggina rossa […]»).321 Si
tratta ovviamente di un intervento sul testo del tutto arbitrario in cui le parole dei contadini, che avevano spiegato al padre somasco come la saggina possa assumere il colore del mattone, assumono un valore eccessivo:
ed in cambio di “meliga”, che è la lezione Volgata, non indugia punto di scrivere “saggina” […] giacchè è voce tuttavia nell’uso di Toscana, dove inoltre v’ha ancora de’ contadini che, specialmente quando l’annata è brusca, si giovano della saggina mista col segalato per farne pane. E questo riesce proprio, per dirla al modo che dicono essi, del color di mattone.322
320 Giambattista Giuliani, Dante spiegato con Dante: nuovi studi sulla «Divina Commedia», in «Rivista contemporanea», a. V, vol. XI, Torino, 1857, p. 227.
321 G. Giuliani, Il Convito di Dante Allighieri reintegrato nel testo con nuovo commento, vol. I, Firenze, Le Monnier, 1874, pp. 514 – 515.
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La grande importanza attribuita da Giuliani a questo aspetto trova il suo coronamento nella seguente affermazione, tratta dal saggio del 1866 Dante spiegato con Dante: il canto V
dell’Inferno commentato da G. B. Giuliani:
all’infuori dei vocaboli che Dante trasse dalle scienze o coniò di suo, si potrebbe affermare, che tutta la lingua usata nella divina Commedia è viva viva nell’una o nell’altra terra toscana. Per lui questa gentile favella divenne imperatrice dell’altre affini favelle italiche, ed accolta per ispontanea suggezione dei popoli congeneri, si diffuse negli scritti e divenne la lingua d’Italia.323