E LA POSIZIONE NEOTOSCANISTA DI GIULIAN
ALLA R ELAZIONE DEL 1868 E LA DIFESA DELLA LINGUA LETTERARIA
Ciò che si è esposto fin qui sulla posizione linguistica di Giuliani, in particolare riguardo ai dibattiti del 1868, potrebbe far sorgere due domande: si può ritenere corretta l’affermazione di Domenico Proietti secondo cui «Giuliani dissentì dalle proposte delle due commissioni - la fiorentina, presieduta da R. Lambruschini, e la milanese, presieduta da A. Manzoni -»?162 La
strenua difesa operata dallo studioso nei confronti della lingua letteraria all’interno della lettera indirizzata a Mamiani non contraddice quanto da lui asserito a proposito della lingua popolare toscana?
In merito al primo quesito, nonostante Giuliani si dimostri non del tutto convinto della Controrelazione pubblicata da Lambruschini, ritenuta priva di alternative concrete, diversi sono i punti in comune tra i due studiosi.
Tra le nuove proposte avanzate da Lambruschini vi è quella di favorire gli studi delle lingue classiche, un’idea che trova concorde Giuliani, soprattutto per quanto riguarda il latino, giacché «se non si formano i maestri nelle scuole maggiori, i quali per conoscenza ed esercizio d’arte acquistino il buon gusto, anco per quello che s’attiene alla nostra lingua, non avremo valenti maestri de’ maestri».163
L’elemento determinante che permette di collocare Giuliani nell’alveo della sottocommissione fiorentina è però il modello linguistico di riferimento. Per Lambruschini, la purezza della lingua si riscontra solo nel «linguaggio semplice, vivo, sereno dei nostri avi, conservato pur tuttavia dal nostro popolo»,164 il fiorentino parlato dalla classe colta di Firenze
non può quindi essere il modello a cui rifarsi per trovare una lingua comune a tutta Italia. La ragione di tale rifiuto è la stessa di Giuliani: la corruzione del linguaggio. Secondo lo studioso infatti prima di poter diffondere la «buona lingua» bisogna salvarla della corruttela,
162 D. Proietti, Giuliani Giovanni Battista, voce in Dizionario Biografico degli italiani. 163 G. Giuliani, Arte patria e religione, p. 299.
164 R. Lambruschini, Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla, Estratto dalla “Nuova Antologia”, Firenze, 1868, p. 11.
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dall’introduzione di «parole nuove, parole veramente barbare, costrutti strani, metafore alle quali mai non giunse l’ampolloso seicento» che vengono «accettate, ridette da tutti e prese per oro di coppella dal volgo degli scrittori di giornali e di libercoli».165
La questione della purezza della lingua viene trattata anche da Giuliani a più riprese, a cominciare dalla già citata Prefazione a Sul moderno linguaggio della Toscana dove egli accusa gli scienziati di adoperare troppi tecnicismi rinnegando il toscano parlato che «allungherebbe di troppo gli scritti».
Anche Tommaseo, nel suo Dizionario dei sinonimi, aveva notato come «i Toscani scrivendo una lingua barbara e non parlata che dai servitori di piazza o da qualche nobile infrancesato; i non Toscani adoprando a sproposito le toscane eleganze, nocquero alla fama del caro idioma.»166
A minacciare la lingua delle plebi non è tanto il linguaggio tecnico, ma anche, e forse prima di tutto, l’uso di parole straniere. La riflessione di Giuliani parte dallo studio del Saggio di
alcune voci toscane d'arti e mestieri di Antonio Bresciani, di cui non solo non condivide lo stile
utilizzato, ma di cui soprattutto rifiuta l’idea che le influenze straniere non modifichino la lingua del popolo: esistono infatti alcuni mestieri, tra cui i sarti e i carrozzai, dove ormai ben poco è rimasto delle parole un tempo utilizzate. Ciò nonostante, fa notare Giuliani, ci sono ancora delle professioni in cui continua a mantenersi viva la lingua del Trecento: è il caso dei calzolai, nel cui linguaggio permangono un gran numero di “voci d’arte”:
Quanto a’ calzolai mi vennero notate molte voci d’arte, le quali non so come siano sfuggite all’avveduto occhio del famoso filologo. E in prima ei non toccò pure delle specie variabilissime di scarpe; tali sarebbero il tronco (mezzo stivale), il tronchetto, gli scarponi o scarponcelli e gli scarpini a bocca di lupo. V’ha ancora i zoccoli o pianelle, la cui parte sottana chiamano il ceppo. Degli strumenti, quello che nel libro suindicato è detto il lustrino per lustrare i filari od orlicci delle scarpe, qui si chiama il bizegolo; la cui parte tondeggiante ne forma il fungo che serve a lustrare i tacchi, e l’altra con che si lustrano le piante è delta la marcia.167
Giuliani non condanna l’apprendimento e l’utilizzo delle lingue straniere, purché si voglia prediligere la lingua d’Italia: per prima cosa bisognerebbe infatti conoscere la propria lingua e
165 R. Lambruschini, Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla, pp. 10 - 11. 166 N. Tommaseo, Nuovo dizionario dei sinonimi, p. XXVII.
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poi imparare le altre; molti si vantano di conoscere alla perfezione il francese, ma molto probabilmente troverebbero alquanto difficile scrivere anche sole poche righe nell’idioma materno. La dura critica contro il troppo amore per le lingue straniere si manifesta compiutamente nelle ultime righe della lettera scritta a Castel Fiorentino: «sappiam essere francesi, se volete, inglesi, financo tedeschi: italiani, raro o non mai».
La degradazione della lingua, essendo indissolubilmente legata al modo di essere di un determinato popolo, diviene dunque simbolo del corrispondente degrado delle tradizioni: quando infatti una comunità appare caratterizzata dalla bontà dei costumi, di questo risente anche il fattore linguistico. I toscani, la cui lingua può considerarsi incontaminata, serbano perciò l’indole gentile propria degli italiani; lo studio del linguaggio del popolo toscano, considerato da Giuliani come “il tesoro di tutti i beni della nostra nazione”, risulta pertanto essere uno dei fattori fondamentali non solo per l’unificazione linguistica, ma anche per quella politica.
Per quanto riguarda la seconda questione, si tratta di una contraddizione solo apparente. Bisogna infatti ricordare che per Giuliani l’italiano ha una storia circolare che parte dal volgo toscano, attraversa l’opera letteraria dei grandi scrittori del Trecento grazie ai quali è diventato idioma nazionale quando ancora mancava l’unità di Nazione e torna al popolo presso cui ancora si continua.
Sempre, nel pensiero linguistico di Giuliani, i due binari della lingua letteraria e di quella parlata procedono parallelamente: una delle caratteristiche della lingua del volgo è infatti la continua preservazione della «lingua succiata dal latte materno» o, riprendendo Dante, del «linguaggio della balia». È questa proprietà che rende possibile, secondo Giuliani, l’identificazione tra il «moderno linguaggio della Toscana» e la lingua degli scrittori del secolo d’oro: «quivi s’ode parlare con la facile eleganza e nativa grazia e con lo schietto candore come scrivevasi dagli aurei trecentisti; e fa gran maraviglia e consolazione di ravvisare in tal guisa perpetuato il materno linguaggio».168
In virtù di questo fatto, il popolo viene considerato dallo studioso quasi alla stregua di un vocabolario a cui attingere per apprendere appieno l’uso e il significato di alcune parole utilizzate dagli autori del Trecento: «per intendere la lingua di Dante, la lingua che chiama e mamma e babbo bisogna ascoltar questo popolo autore di essa lingua e costante nel mantenerla».169
168 G. Giuliani, Sul vivente linguaggio della Toscana. Lettere, 1860, prefazione. 169 Ivi, p. 61.
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È il caso di un contadino di San Gimignano grazie al quale Giuliani riesce a comprendere il significato del termine “grotta” utilizzato da Dante al v.9 del XXXIV canto dell’Inferno («Per lo vento mi ristrinsi retro / al duca mio: chè non v’era altra grotta»):
da noi si dice grotte i ripari che si fanno alla terra smottata; ne conviene? gli argini, perchè tengano, s’hanno da aggrottare, che le piogge a volte non li mandino a rovina.170
O ancora si può riportare l’esempio di Nastagio Jacomini, pastore della Versilia, che spiegava al padre somasco come «nel cioncarli, i pani della neve, a volte fanno cri come cristalli»:
e non è questo il cricch usato da Dante? [...] La voce cricch, donde nè derivato
criccare, che è di uso assai frequente nella Versilia, l’Allighieri deve forse averla
intesa, passando per que’ luoghi. Difatti ricorda Pietropana con dire, che se quel monte fosse caduto sopra il ghiacciato lago di Cocito, questo non avria pur dall’orlo
fatto cricch: Inf. XXXII, 30. Anche cionco per tronco occorre nella Divina
Commedia; e possiam indi prendere nuovo argomento che gran parte della lingua adoperata dall’Allighieri nel suo Poema si mantiene qua o là per le terre toscane.171
Anche Tommaseo evidenziava l’origine popolare della lingua della Commedia, la stessa a essere adoperata nelle opere di tono più colloquiale e familiare: «la lingua della commedia di Dante era tutta (tranne i termini scientifici e qualche latinismo raro) parlata in Toscana: le voci e modi che in Dante ci paiono de’ più strani, si trovano usati in altre opere di familiare linguaggio.»172
Il 20 ottobre 1858 Giuliani raccontava di come, qualche tempo prima, avendo con sé La
toscana coltivazione delle viti e degli arbori di Davanzati, si fosse trattenuto a conversare con
un contadino «cognominato Burrone»:
nulla vi dico quanto mi fosse caro di aver riconosciuto com’egli intendesse a prima giunta e qua e là mi spiegasse il dettato dello scrittore fiorentino. Ma non posso tacervi
170 G. Giuliani, Sul moderno linguaggio della Toscana, p. 46.
171 G. Giuliani, Sul vivente linguaggio della Toscana. Lettere, 1865, p. 447. 172 N. Tommaseo, Nuovo dizionario dei sinonimi, p. XXX.
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che in alcune sue risposte egli venne esprimendosi forse meglio e più preciso, che non portava la dimanda fatta colle parole stesse del Davanzati. [...]
-Davanzati: L’ulivo vuol essere piantato di marzo o d’aprile, poi che mosso ha. -Burrone: La posta degli ulivi è di marzo, quando già vanno in succhio.173
Il merito degli autori consiste nell’accettare le voci del popolo: interpretandone i significati, definendone i confini e nobilitandone l’uso gli scrittori vengono per questo paragonati da Giuliani agli orefici che «ricevono l’oro grezzo e lo coniano a moneta lucida e tonda». Una convinzione che trova affinità nel pensiero dell’abate Cesari, laddove nella Dissertazione sopra
lo stato presente della lingua italiana scriveva:
i letterati adunque prendono le voci dal popolo; ma essi però non iscrivono come il popolo parla: eglino scelgono le voci più appropriate, più gentili, più belle, ed ordinatamente e vagamente accozzandole, ne formano loro scritture; e di questo modo danno alle lingue quella perfetta forma, che in lor può capire, e le conservano all’eternità della fama il buono e il bello.174
Se lo scopo del governo è quello «d’aiutare e rendere più universale in tutti gli ordini del popolo la notizia della buona lingua» è dunque necessario che il volgo venga istruito per «poter leggere e scrivere grammaticamente ciò che gl’importa sapere»; troppe volte infatti i libri sono scritti in modo tale che «lo stesso titolo riesce un enigma». Giuliani mette dunque in evidenza una problematica, quella della comprensione della lingua dei libri, condivisa anche da altri studiosi suoi contemporanei, primo fra tutti Gino Capponi che, nei Fatti relativi alla storia della
nostra lingua, sottolinea l’importanza che «nei libri qualcosa debba essere che sia imparata
fuori dei libri, perchè altrimenti lo scrivere viene quasi a pigliare la forma d’un gergo necessariamente arido meno efficace, da cui s’aliena il comune dei lettori.»175 Per ovviare a
questo problema, causa anch’esso della mancata diffusione e unità dell’italiano, Giuliani auspica quindi che «i libri per il popolo» vengano scritti con la lingua del popolo e «del Toscano massimamente»176, che siano premiati i giornali «meglio scritti» e, soprattutto, i libri elementari
modelli di buona lingua.
173 G. Giuliani, Sul vivente linguaggio della Toscana. Lettere, 1860, p. 117.
174 A. Cesari, Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana, Padova, Antenore, 1810, p. 43. 175 G. Capponi, Fatti relativi alla storia della nostra lingua, p. 679.
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Studiare gli «antichi nostri scrittori [...] conduce a bene stimare questa viva lingua e profittarne»: per questo motivo «anche la riflessione sul proprio dialetto, riscontrato con la lingua de’ classici, giova molto a chi vuol diffondere ne’ suoi scritti un colore di vita» e l’appropriarsi del linguaggio della Toscana, tramite lo studio, è da considerarsi quasi un dovere per coloro che desiderano rendere le proprie opere veramente italiane.
la ricchezza non basta il possederla, se non sappiamo pregiarla e volgerla degnamente in uso. Altro è sapere, altro è saper di sapere, e questo nol dà la natura, ma bensì lo studio e l’arte. Che vale aver l’occhio fine e vederci chiaro e bene, ove manchi la luce ad aiutar l’occhio per compiere l’ufficio suo? Nè cotal luce può derivarsi altronde che dai buoni Scrittori, i quali coll’appropriato uso di quelle voci, di que’ modi e di que’ costrutti famigliari al volgo, ci persuadono a farne stima [...]177
«QUEL SATRAPONE CHE NON VEDEVA LUME E INDOVINAVA LE STELLE»: