E LA POSIZIONE NEOTOSCANISTA DI GIULIAN
L A RICERCA DELLA LINGUA DEL POPOLO : FEDELTÀ O INFEDELTÀ ?
Per studiare più da vicino quella lingua, Giuliani si sofferma a discorrere con i contadini e gli artigiani facendo loro le stesse domande: «così il paragone mi viene più facile e sicuro, tanto da poter determinare, se un vocabolo o una frase continui in tutta la Toscana, ovvero sia speciale di qualche città o villa».129
Fin dalla Prefazione a Sul moderno linguaggio della Toscana, Giuliani sottolinea la grande importanza da lui attribuita all’analisi di quelle espressioni e di quelle allocuzioni in cui maggiormente si riflette la cultura toscana: da qui dunque prende avvio la costante e accurata attenzione posta alla lingua del popolo di cui l’autore si propone di farsi fedele trascrittore:
vuolsi a ricercarla, più che ne’ vocaboli, nelle frasi a che danno luogo, e ne’ costrutti, dove gli stessi vocaboli e le frasi pigliano, a così dire, nuovo essere e figura e vie meglio corrispondono ai movimenti dell’animo e alla maggior forza, se non all’ordine
127 N. Gabiani, Carteggio dantesco di Giambattista Giuliani, p. 11.
128 G. Giuliani, Dante e il vivente linguaggio toscano, Firenze, Stamperia Reale, p. 6.
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proprio de’ pensieri. Quivi possiamo scorgere [...] la moralità e la poesia della gente favellatrice. A questo posi mente nello scegliere que’ spontanei fiori, che rendono amabile il linguaggio toscano.130
Il criterio fondamentale seguito da Giuliani è la fedeltà rispetto a quanto ascoltato: «non riferisco per altro tutto quello che m’è riuscito d’intendere, ma nulla ch’io non abbia inteso»; un amore per la verità che viene sottolineato anche nelle lettere indirizzate all’amico Tommaseo, in particolar modo in una missiva del 23 marzo 1858 inviata da Siena, dove si legge: «quanto a ciò che narro, potrò forse avere frainteso, ma la verità governa sempre la mia coscienza».131
In mancanza di strumenti che permettessero di registrare tali e quali le fonti orali la possibilità di rimaneggiamento da parte dell’editore era indubbiamente un problema; attorno ad esso sorsero infatti vivaci discussioni inizialmente riguardanti i testi folklorici, tra cui i canti popolari (ben noti a Tommaseo)132 e le fiabe. A tal proposito è interessante ricordare che nel
1871 Vittorio Imbriani pubblicò a Napoli la Novellaja fiorentina di cui una seconda edizione venne data alle stampe, con l’aggiunta della Novellaja milanese, sei anni più tardi. Nella Dedica
– Prefazione a quest’ultima, Imbriani mette a confronto le due possibilità che si aprivano al
curatore di un tal genere: intervenire sul testo o lasciarlo come era stato trascritto. L’autore, così come Giuliani, propendeva per quest’ultima scelta:
intendevo dar novelle tali e quali m’erano state racconte, e c’era il suo perché. Certo, mi sarebbe stato più facile il narrare rifacendo di pianta la dicitura; anzi, con più ci avrei messo di mio nel lavoro e più mi sarebbe tornato agevole e meno avrei trovato nojoso il compito. Ma mi stava a cuore di ritrarre esattamente la maniera, in cui fraseggia e concatena il pensiero il volgo.133
Tale metodo, che inevitabilmente portava a incorrere in errori dovuti all’impossibilità di una registrazione affidabile, veniva invece osteggiato, come ricorda l’autore, da altri uomini di
130 G. Giuliani, Moralità e poesia del vivente linguaggio toscano, Firenze, Le Monnier, 1871, pp. XI - XII. 131 Lettera inedita di Giuliani a Tommaseo, Siena, 23 marzo 1858, Firenze, BNCF (Tomm. 87, 41 – 9r). Cfr. II
Appendice.
132 A tal proposito si rimanda al capitolo Dibattiti ideologici e questione della lingua. Le raccolte di canti popolari
nell’Ottocento in C. Marazzini, Unità e dintorni. Questioni linguistiche nel secolo che fece l’Italia, Gattinara, Edizioni Mercurio, 2013, pp. 327 – 348.
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lettere come Alessandro D’Ancona (che infatti lo «biasimava di aver stenografato senza ritocchi»)134 e Gherardo Nerucci il quale aveva preferito mettere mano ai testi.
Seppur spostandosi su un altro piano, quello delle indagini linguistiche che in quegli stessi anni andavano incontro, tra l’altro, all’affermarsi della grammatica storica, con le sue trascrizioni Giuliani entrava in un dibattito che, come si è appena visto, era assai vivo.
Il rigore professato dal padre somasco veniva per esempio messo in dubbio da Guido Mazzoni che nella sua opera L’Ottocento, pur riconoscendo al lavoro di Giuliani di essere un «bel materiale», tuttavia sostiene che a questo «nuoce l’avervi posto il Giuliani la mano per ritoccarlo qua e là a suo gusto».135 Sicuramente non si può negare che, nonostante la concreta
ammirazione per il linguaggio popolare, la prosa dello studioso appaia fortemente connotata dal punto di vista letterario: il principio della verità viene talvolta disatteso con l’introduzione di elementi dotti. A questo proposito si veda l’analisi di Serianni della terza lettera contenuta in
Sul vivente linguaggio della Toscana (1865), scritta da Pisa il 21 e 22 maggio 1853:
trascrivendo le parole di un contadino Giuliani riporta infatti la forma muoio anche se, ricorda il linguista, «il dittongo uo è estraneo al pisano (come in genere al toscano popolare moderno). […] Il dittongo si deve a un’intrusione dotta di Giuliani».136
«Stando contento alla verità della parola», Giuliani non bada «alla pronunzia variabile», riportando per intero alcune abbreviazioni e non soffermandosi a dare spiegazioni a proposito dei neologismi o di quelle espressioni che trovano riscontro negli autori del Trecento.
È peraltro da notare come, all’interno delle prime opere di carattere linguistico, Giuliani, pur utilizzando correntemente costrutti tipici toscani, si premuri di segnalare con il corsivo le frasi o le parole maggiormente sentite come “toscane”, quasi a voler segnalare la costante consapevolezza della diversità del suo «dialettaccio» piemontese dalla «miglior norma» del toscano.137
134 V. Imbriani, La Novellaja fiorentina. Fiabe e novelle, p. VI.
135 G. Mazzoni, L’Ottocento, in Storia letteraria d’Italia, 2ᵃ, Milano, Vallardi, 1944, p. 1321. 136 L. Serianni, Il secondo Ottocento, Bologna, il Mulino, 1990, p. 47.
137 G. Giuliani, Sul moderno linguaggio della Toscana, p. 7. È interessante notare come Giuliani si riferisca al piemontese utilizzando un dispregiativo quando solo due pagine prima aveva evidenziato l’importanza di studiare tutti i dialetti italiani: «ogni dialetto d’Italia sarebbe degno di particolare e diligente ricerca, e credo che se ne avvantaggerebbe grandemente lo studio della materna lingua e la conoscenza degli antichi costumi.» Cfr. ibidem, p. 5.
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La volontà di riportare per iscritto, non di imitare, la lingua adoperata dai suoi interlocutori è evidente nel paragone con il quale Giuliani conclude il Proemio a Moralità e poesia del
vivente linguaggio toscano:
devo ancor raffermare ch’io non mi sono ingegnato di colorir quadri alla maniera Olandese, non reggendomi la presunzione a tanto. D’altro lato gli Olandesi imitavano la natura, ed io invece mi contento solo di copiarla tal quale mi si è offerta. Onde lo studio, cui dovetti rivolgermi colle maggior cura, fu semplicemente la scelta delle cose copiate dal vivo e dal vero, si che s’avesse a riguardare la presente mia opericciuola, siccome una nuova Antologia di alcuni Discorsi del Volgo Toscano.138