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E LA POSIZIONE NEOTOSCANISTA DI GIULIAN

L A « VIVA LEZIONE » DEL T OSCANO

Il parlare con la gente delle campagne del senese, del pistoiese o delle aree intorno a Pisa e a Firenze, viene paragonato da Giuliani a una «viva lezione», molto più utile della lettura di un intero libro. Proprio per questo i popolani con i quali si sofferma a conversare vengono equiparati ai maestri di scuola: è il caso della tessitrice pisana le cui parole vengono riportate in una lettera indirizzata a Francesco Calandri del 19 maggio 1853:

[..] E vi so dire, che un’ora di quella viva lezione mi valse la lettura d’un libro intero. [...] In sulle prime mi son fatto da una tessitora, la quale non posso esprimervi quanto mi sia stata cortese e valente maestra. Buona donna, lavorate tutt’ora, n’è vero? cominciai io; ed ella pronta: Che vuole? questa è la nostra vita, io fo la tessitora, e queste mie nipotine (che le eran dattorno) l’una incanna le fila sul cannellaio e l’altra ordisce il cordoncino di seta: e così ci reggiam su alla meglio.139

Giuliani si dimostra attento scrutatore e indagatore di tutti gli aspetti della vita contadina e del lavoro artigiano, rivelando la propria curiosità per ogni singolo oggetto e abitudine del mondo popolare. Attingendo dalla diretta voce dei suoi interlocutori l’esatta denominazione degli strumenti e delle fasi lavorative, lo studioso riporta, laddove ritenuto necessario, il corrispondente standard: nel discorso con la tessitora, per esempio, pone tra parentesi, accanto al termine scola, il più corrente spola.

138 G. Giuliani, Moralità e poesia del vivente linguaggio toscano, 1871, p. XX. 139 G. Giuliani, Sul moderno linguaggio della Toscana, p. 7.

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Ma, in cortesia, que’ strumenti che veggo qua e colà a che servono?

Quella è la cassetta che ci serve per lavorarci le fila, e quelli dove s’introducono per intesserle, dopo averle fatte passare per il pettine, li chiamiamo i licci. Ecco la scola (spola) e il cannellino che ci va dentro.140

Quello che sorprende maggiormente Giuliani è la naturalezza con cui il popolo toscano adopera la propria lingua:

Aristotele diceva, che le parole son le note delle passioni dell’anima; nè io ho mai tanto sentito questa verità, siccome la sento, dacchè mi diletto a ragionare col volgo di Toscana. La eloquenza prorompe dalle labbra di chi favella secondo la virtù del cuore e come la natura richiede. Così il popolo, non guasto dagli usi cittadineschi, ha la parola pronta, animata e d’una efficacia cui non si resiste.141

Una spontaneità che risulta evidente, per l’appunto, dallo studio della lingua dei mestieri. Le lettere che riportano esempi del lessico usato dagli artigiani e dai contadini toscani costituiscono il cuore delle opere di Giuliani, fatta eccezione per Moralità e poesia del vivente linguaggio della

Toscana dove, come si vedrà, viene prediletta la lingua dei carteggi privati. I «maestri» cui lo

studioso si rivolge durante il suo pellegrinare per le campagne toscane sono delle tessitrici (Pietrasanta – Lucca; Vicchio - Firenze); una pizzicagnola (Pisa); dei viticoltori (Chianti / Maiano / Siena / Volterrano / Valdelsa / Valdinievole / Val d’Arbia / Maremma); un conciatore di pelli (Siena); dei cappellai (Siena / Santa Croce sull’Arno - Pisa); un bifolco (Siena); un carbonaio (Ponsacco – Pisa); un barocciaio (Certaldo); un coltivatore di patate (San Gimignano); un vetraio (Valdelsa); un fornaciaio (Pescia – Pistoia); dei mietitori (Castelfiorentino); dei coltivatori di ulivi (Montagnola Senese / Valdinievole / Valdicastello, frazione di Pietrasanta - Lucca); un pastaio (Pontedera – Pisa); un coltivatore di ciliegie (Ripoli – Pisa); una fantesca (Lecore, frazione del comune di Signa – Firenze); alcuni carbonai (Santa Fiora – Grosseto / Casentino); dei mercanti di bestiame (Borgo a Buggiano – Pistoia); dei falegnami (Prato / Stia, parte del comune di Pratovecchio Stia - Arezzo); dei coltivatori di faggi e abeti (Bagnolo, frazione di Santa Fiora - Grosseto); un artigiano dell’alabastro (Volterra); un allevatore di bachi (Valdichiana); guardabosco (Laterina – Arezzo); alcuni coltivatori di castagni (Casentino /

140 G. Giuliani, Sul moderno linguaggio della Toscana, pp. 7 - 8.

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Montamiata / Montescudaio – Pisa / Montagnola Senese / Versilia / Pistoiese / Gavinana, frazione di San Marcello Piteglio – Pistoia); un cartaio (Mammiano, parte del comune di San Marcello Piteglio – Pistoia); dei minatori (Maremma / Versilia); dei lavoratori di canapa (Solaio, frazione di Pietrasanta – Lucca); un annestatore (Crespina, frazione di Crespina Lorenzana – Pisa) e un cacciatore (Marmoraia, frazione di Casole d’Elsa – Siena). Qui di seguito si riportano quattro esempi rappresentativi della particolare attenzione rivolta da Giuliani al lessico tecnico. Secondo lo studioso «quelli poi che mantengono più vivo l’antico parlare, son coloro che si esercitano in tali professioni che propriamente si possono dir nostre.»142 È il caso di un cappellaio

di Siena la cui descrizione della lavorazione dei cappelli viene inserita dal padre somasco nella lettera VIII di Sul moderno linguaggio della Toscana, scritta da Siena il 6 giugno 1853

Poche ore fa sono entrato da un cappellaio, e in quella bottega parea mi ritrovassi come a scuola; certo v’era da imparare assai. […]

— Di che vi giovate a render le falde così lese?

— «Le falde la pigliano la distesa a forza d’acqua e di gruma; più gruma ci si mette, e più corpo piglia il cappello, e rientra meglio. A’ cappelli di fino gli si dà l’impermeabile (voce che mi sa di moderno) perchè vengano sodo; per gli altri di lavoro ordinario ci mette più conto adoperare la colla. Il cappello prima si batte con una corda da violoncello per isfioccarlo; sbacchettato, s’imbastisce; dopo l’imbastitura, il pelo gli si aggroviglia e viene unito in falda; poi il cappello si folla nella caldaia, e trattolo sù s’informa (mette sulla forma) e si rifinisce a forza di braccia».

— Che stromenti adoperate in tale lavoro?

— «Abbiamo le forme a cinque pezzi (quello di mezzo lo diciam mastio) e se non ci avessero questi cinque pezzi, i cappelli non sortirebbero interi. Per fare il capo e dargli la giusta misura ci serve il formino, e colla vite si fa prendere l’ovalità ai cappelli. Del formilione o forma da banco (che è da una parte più larga e dall’altra meno per motivo delle teste) si usa quando già son rifiniti i cappelli e si ha solo a dare il ferro al cucuzzolo». […]

Appena inteso e allora allora scritto questo eloquente dialogo, io interrogo di nuovo il cappellaio in che consisteva la follatura di cappelli. […]143

142 G. Giuliani, Sul moderno linguaggio della Toscana, p. 11. 143 Ivi, pp. 19 – 20.

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In una lettera al Conte Tiberio Roberto, scritta da Lucignano nel settembre del 1858, Giuliani trascrive invece il dialogo con un allevatore di bachi da seta:

Nati che enno i bacherini, gli si trita la foglia (di gelso), trita gli si dà, perchè non ponno ancora montarci su a roderla: se è già granita (la foglia, se è fatta) i bachi piccinini non la cominciano. A ogni dormitura si spogliano; se non si sbucciano (che è appunto lo spogliarsi), vuol dire che i bachi vanno a male. Guai a non tenerli puliti e non mutargli il letto a tempo! Un puzzare li ammortisce: fa peggio d’un veleno. La prima dormita noi si dice la pelosina; mettono come un pelo bianco, certi peluzzi fini, che appena si veggono. […]144

Proseguendo nelle sue indagini, il padre somasco si convince sempre di più che «la lingua de’ Toscani si debba a diritto stimare come ingenerata dalla loro natura, e che non vi sia mai stato popolo che gliel’abbia potuta imporre, nè mutare dal suo essere primitivo».145 In

particolare Giuliani ritiene che alcuni artigiani, in particolare «gl’intagliatori, gli orefici, i

legnaiuoli», parlino «sì bene e con tanta purità che a udirli vi parrebbe di vivere nel

Trecento.»146 A tal proposito, dopo aver avuto modo di conversare con un falegname di Prato,

lo studioso scrisse a Calandri il 22 giugno 1853:

Questa che ho a mani, è una scorbia (la dicono anche sgubbia o sgorbia) per lavoro d’intaglio, ci serve ad iscavare nel legno. Guardi (e me li segnava a dito), quelli son tutti ferri da taglio e fan comodo per iscorniciare. Oh di scorbie ve n’ha di tante nazione! Grosse, piccoline, mezzane, come un vuole al bisogno. Il tassello l’è una scorbia calcagnata, adocciata m’intende? S’adopera per fare un doccio da tetto; noi diciamo adocciare il lavoro. Pe’ lavori adocciati la scorbia diritta non basta. S’usa il vedano (o pedano) quando s’ha a lavorare i fondi dell’intaglio, far delle stampe sui legni, mettere insieme un’ossatura, tagliare per testa o per verso del legno, farvi le mortese, che sarebbe la femmina dell’intaglio (indi si dice mortesare il legno) …147

Tra le diverse parlate toscane Giuliani cerca di riabilitare quelle maremmane, da molti ritenute di minor bellezza in quanto esposte a continui influssi stranieri. il padre somasco non

144 G. Giuliani, Sul vivente linguaggio della Toscana. Lettere, 1865, pp. 245 – 246. 145 Ivi, 1865, p. 373.

146 G. Giuliani, Sul moderno linguaggio della Toscana, p. 11. 147 Ivi, pp. 67 – 68.

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è dello stesso avviso e infatti, a partire da Sul vivente linguaggio della Toscana del 1865, lascia ampio spazio alle parole di un minatore in servizio presso la Miniera dell’allume in Montioni della Val di Pecora di cui qui di seguito si trascrive un breve passo:

La prima cosa è fare i saggi, per vedere se la miniera e ricca o povera. Certi indizi sono fallaci, ma ce n’è che dicono il vero. A volte vi si trova del sasso tufato, più tufo che sasso, con certe venature di creta, che è rossa e pastosa come belletta. Bisogna tirar oltre, tanto che s'incontri la roba compatta; questa è la pietra alluminosa (l’allumite).

La pietra non ha tutta la medesima sodezza; ve ne ha de piccoli pezzetti meno sodi, per qualche poca di terra che vi è mischiata. Se ne ritrova pure accanto alla calcidonia, sasso durissimo che male ci regge l’acciaio.

I saggi si fanno a forza di picconi e di mine, secondo che è sodo: dove abbatte a esservi tutto masso, si va a mine. Nelle cave ci allarghiamo a grotte, a guisa di stanzoni più o meno grandi, come porta la sodezza del masso. Per reggere, gli si dà quella centinatura che occorre. Si fanno delle gallerie o dei tagli aperti a modo di fossoni: e anco dei pozzi a piombo. […]148