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E LA POSIZIONE NEOTOSCANISTA DI GIULIAN

LA LINGUA SCRITTA E LA LINGUA PARLATA

La lingua toscana appare pervasa da una poeticità congenita che affiora in ogni suo parlante e che, anche nelle sue forme più popolari, la fa apparire una lingua letteraria: è il caso del mezzadro di Sarzana che, alla domanda del padrone se avesse raccolto prima i frutti sulla strada o quelli nel campo, risponde prontamente: «ho colto in prima la strada».178

In una lettera al Cavalier Domenico Carutti (Cutigliano, agosto 1858) Giuliani esprimeva il proprio stupore per come

tutte le più belle doti mi sembrano raccolte in questo divino linguaggio, ma quella che aduna ogni altra e per diverso modo le avviva, è la singolare proprietà de’ vocaboli. Per ciascun sentimento o idea, anzi per quante gradazioni ricorrano in un’idea o sentimento, il volgo toscano adopera una parola speciale di significato o di suono. Il suo linguaggio divien perciò una continuata figura [...] Di tal guisa l’eleganza del dire e ogni altro pregio qui si direbbe naturale effetto della parola, sempre mai propria a significare le cose e tanto al vivo da mettervele sott’occhio.179

177 G. Giuliani, Moralità e poesia del vivente linguaggio toscano, 1871, p. 89. 178 G. Giuliani, Sul moderno linguaggio della Toscana, p. 5.

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I popolani toscani adoperano quotidianamente una lingua ricca di espressioni metaforiche e proverbi strettamente legati all’ambiente in cui vivono:

mai vi diranno mi s’è rotto un braccio, sì veramente l’ho tronco; e impotenti al lavoro, vi si raccomandano quasi avessero tronche le braccia. [...] Anche gli stessi affetti [...] sono una prima fioritura, una castagna in anima, un novello senza radice [...] 180

Sotto la neve pane, e sotto l’acqua fame, mi diceva già un contadino della

Valdinievole. E perchè mai? Chiesi io.

Perchè, mi rispose, sotto la neve il grano accestisce meglio, compone vita adagino, piglia più campo. Si sa, dalle barbe riscoppiano più fili e la figliolanza si fa maggiore. [...] Ma unguanno è venuta tant’acqua, che il grano ammutolisce: perchè m’intende? L’acqua rimore giù giù dalle barbe del grano e lo strugge.181

Non è solo il linguaggio figurato a determinare la letterarietà dell’idioma popolare, ma anche l’uso costante dell’endecasillabo «che sottentra continuo nei discorsi del Volgo, specialmente disperso nelle montagne». Si notino queste frasi riportate, a tal proposito, da Giuliani in Dante

e il vivente linguaggio toscano:182

«Lesto lesto, se no babbo ti piglia» «Ratto ratto, che il babbo non ti pigli»

Soprattutto nella seconda di queste locuzioni, pronunciata da una mamma di Capriglia (poco lontano da Pietrasanta), appare evidente come nell’Ottocento, all’interno della lingua parlata nelle campagne toscane, si continuasse non solo la lingua, ma anche la metrica di Dante: non esiste forse una corrispondenza con il verso della Commedia «Ratto ratto, che il tempo non si perda» (Purg. VIII, v. 103)?

La grande distanza esistente tra la lingua scritta e quella parlata viene comprovata da Giuliani quando, nel giugno del 1853, trovandosi a discorrere con un falegname di Prato, comincia a esprimersi nella maniera suggerita da Giacinto Carena non ricevendo alcun riscontro da parte del suo interlocutore.

180 G. Giuliani, Sul vivente linguaggio della Toscana. Lettere, 1860, p. 222.

181 G. Giuliani, Moralità e poesia del vivente linguaggio toscano, in “Il Propugnatore”, vol. I, p. 541. 182 G. Giuliani, Dante e il vivente linguaggio della Toscana, p. 19.

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A che e quando vi giova il piccolo saracco a lama pochissimo larga e manico tondo nella stessa direzione della lama? Quegli non mostrava pur d’intendermi. Ond’è che mi studio a ridir più chiaro: se bisogna fare de’ vuoti, dove non passa il saracco, darete mano ad altra sega più stretta, n’è vero?

-Si, al gattuccio, che presta servigio tal quale uno scarpello e si ponno fare de’ vuoti fondi quanto vuole.-

Questo perché l’attenzione dello studioso non era stata rivolta alla denominazione corrente degli strumenti e dalla loro funzione: quello che difatti manca agli italiani è «lo scrivere naturale, domestico, non difforme dalla lingua parlata, è l’eloquenza che ritragga dalla vita come dalla virtù del popolo».183

In Italia la lingua adoperata negli scritti non potrà mai essere uguale a quella parlata quotidianamente: «l’Autorità fra noi vinse la Consuetudine cedendo ad essa, tanto da appropiarsela e sollevarla a dignità per costituirla poi norma della lingua dell’intera Nazione».184 Fu Dante che, traendo «dal capriccio dell’Uso all’Arte letteraria» il volgare

toscano, fece sì che questo diventasse «il radicale fondamento» della letteratura italiana.185

Le opere letterarie appaiono agli occhi di Giuliani conformate a «un’affettata nobiltà» che le rende adatte a un pubblico di soli letterati, non al popolo cui dovrebbero servire: gli scrittori, anche toscani, «non si arrogano certo di possedere tutta quanta la lingua delle arti e de’ mestieri e propria agli usi del contadiname e della diversa gente volgare, da cui sogliono tenersi lontani».186 Una mancanza sottolineata già da Tommaseo nel 1841: «la lingua comune, quale

l’abbiamo negli scrittori, non è ne può essere intera. Non tutte le idee parlabili sono state espresso in iscritto: mancano dunque al linguaggio scritto molte e molte parole che gli son necessarie.»187

Proprio per questo la «viva lingua» viene ritenuta da Giuliani il punto di partenza fondamentale per la costituzione della norma linguistica, poiché «quando si parla bene, si scrive bene, anche senza saperne l’arte». Tuttavia è convinzione dei popolani toscani che la loro sia una lingua “brutta” rispetto a quella stampata sui libri. A questa riflessione il padre somasco è

183 G. Giuliani, Sul vivente linguaggio della Toscana. Lettere, 1860, p.65.

184 G. Giuliani, Moralità e poesia del vivente linguaggio toscano, in “Il Propugnatore”, vol. II, p. 197. 185 G. Giuliani, Dante e il vivente linguaggio toscano, p. 8.

186 G. Giuliani, Sul vivente linguaggio della Toscana. Lettere, 1860, p.188.

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mosso dopo aver discorso con una donna di San Marcello: «Semplicetta!», commenta Giuliani, «s’avvisava che ne’ libri non s’avessero a ritrovar parole altro che buone. Ed infatti nelle menti del popolo sta fermo che quant’è stampato, debba esser tutto santa verità. Ond’è che a persuadervi come vera una storiella, un detto, v’aggiungon subito: l’è bell’è stampata...ne

parlano i libri».188

In realtà non dovrebbe essere il volgo a guardare alla lingua degli scrittori, ma il contrario: «se gli scienziati toscani volgessero più sollecito occhio al libro che il popolo tien loro sempre dischiuso, non avrebbero da porre tanto studio per riuscire facili ed eleganti scrittori». Anche in Toscana però, come d’altro canto in tutta Italia, non si ascoltano «le feconde e tuttora nuove lezioni, onde i piccoli potrebbero vantaggiare il senno di chi sovr’essi pretende a speciale grandezza».189 È il popolo che dovrebbe giocare un ruolo di primo piano nel campo della lingua

letteraria, rendendosi nuovamente maestro dei grandi scrittori. La stessa convinzione viene condivisa da Tommaseo per il quale «sarebbe ormai tempo d’accorgersi che all’uso, siccome al popolo, prima di farci degni di comandare, bisogna sapergli ubbidire.»190

La bellezza e letterarietà del linguaggio popolare toscano aveva meravigliato lo stesso Giuseppe Arcangeli, toscano e accademico della Crusca, che durante una visita con Giuliani ad Arcetri, aveva sentito un contadino definire Galileo «quel Satrapone che non vedeva lume e indovinava le stelle»: una risposta che aveva lasciato senza parole l’Arcangeli spingendolo ad affermare che neanche Manzoni era arrivato «a più alto segno quando rappresenta Omero d’occhi cieco e divin raggio di mente».191

Respingendo quanto sostenuto dal Gelli, ovvero che «una lingua non diventa mai ricca e bella per i ragionamenti de’ plebei e delle donnicciole» essendo solamente «gli uomini grandi e virtuosi che innalzano e fanno grandi le lingue»,192 Giuliani vuole dimostrare come la lingua

parlata quotidianamente nelle campagne e nei villaggi non debba essere ritenuta inferiore rispetto all’illustre variante letteraria. Se infatti è indubbio che la lingua utilizzata dalla gente comune risulti essere meno raffinata di quella adoperata in letteratura, il linguaggio del popolo può essere tuttavia considerato come una vera e propria «fonte di nuovi parlari», dove le voci comuni cambiano nel conversare, rinnovandosi e nobilitandosi.

188 G. Giuliani, Sul vivente linguaggio della Toscana. Lettere, 1860, p.188. 189 G. Giuliani, Sul moderno linguaggio della Toscana, pp. 64 - 65. 190 N. Tommaseo, Nuovo dizionario dei sinonimi, p. XXX.

191 G. Giuliani, Sul moderno linguaggio della Toscana, p. 61. 192 Ivi, p. 25.

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La distinzione tra lingua illustre e plebea non ha pertanto più motivo di esistere, così come anche non vi è motivo per cui la tesi del Perticari continui a essere ritenuta valida: la lingua è una e nobilissima e, mentre in Toscana vive nelle sue forme popolari, nelle altre aree d’Italia si diffonde tramite le opere letterarie.

Anche nelle più infime scritture popolari esiste nobiltà di vocaboli e di frasi, laddove per “nobiltà” il padre somasco intende la combinazione tra la purezza, la proprietà e la toscanità, ovvero l’italianità, una caratteristica che si riscontra molto più facilmente nella lingua parlata dal popolo che non in certi scritti definiti “nobilissimi”. La natura stessa della lingua toscana fa sì che anche i contadini e gli artigiani, pur non avendo talvolta ricevuto neppur un minimo di istruzione, si dimostrino in grado di scrivere dei «bei versi» del tutto paragonabili a certi componimenti di Cielo d’Alcamo, di Ariosto e di Dante. Da qui l’attenzione costante di Giuliani verso quella che Enrico Testa definisce la “scrittura dei semicolti”: «già più volte lo dissi che i Manoscritti, di cui io tengo maggior conto, son quelli di gente che non sa altro che la grammatica naturale e non conosce neppur a nome l’arte rettorica. Dove anzi ritrovo qualche segno di studio, li metto in disparte, compiacendomi poi di raffigurare in quegli altri la verace forma e quasi il colore della nostra lingua». In questi scritti «si sente una tale virtù, che arriva al cuore e mostra quanto sia efficace la parola inspirata dall’affetto»193: è il caso di una lettera

del 23 marzo 1855 scritta da una ragazza di Cutigliano al fidanzato partito come tagliatore di legna per Orbetello:

Carissimo mio!

Non ti so dire quanta consolazione venne al mio core, quando seppi delle tue nuove, che io ne spasimavo tanto. Le parole mi dicesti nel partire, le tengo nel mio core. Se ci vogliamo bene, lo sa Dio solo. Io penso a te tutte l’ore; a questa lontananza, proprio non me ne so dar pace. M’affaccio alla finestra tante delle volte per vedere se arrivassi, e non arrivi mai; quando verrà quel giorno, che io possa rivederti, o mio amore? Iddio c’assista, che possiamo aver la contentezza di essere sposi. Di saluti te ne mando tanti, quanti ne vuole il tuo core. Se mi amerai, io sarò sempre la tua fedele Assunta.194

«E certo», afferma Giuliani, «che a porre l’occhio sopra questi scarabocchi, non si potrebbe tenere le risa, tanto v’appariscono deformi le cifre ed i rabeschi d’ogni sorta. Se non che bisogna

193 G. Giuliani, Sul vivente linguaggio della Toscana. Lettere, 1860, p. 203. 194 Ivi, p. 204.

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un po’ di pazienza e di assuefazione, e ne sarà poi facile distrigarci dagli avviluppati nodi per indi scoprire le gemme preziose»:195

ci entri una volta nell’animo che il saggio temperamento della lingua scritta con la parlata, cioè della natura con l’arte, può solo condurre alla vera perfezione dello stile.196

I«BARBARI LINGUAGGI» E LA NATURALEZZA DELLA LINGUA TOSCANA

I “non toscani” vengono definiti da Giuliani «forestieri in Italia»: per quanto infatti possa essere intenso lo studio volto all’apprendimento della «favella dell’affetto e del sentimento» attraverso le opere degli autori del Trecento, questo risulterà essere tuttavia sempre poco efficace. I «barbari linguaggi» non potranno mai possedere quella naturalezza che contraddistingue il linguaggio toscano: chi parla in dialetto è destinato a essere sempre solo un traduttore. Giuliani pertanto si rammarica, a causa delle proprie origini astigiane, di non poter adempiere alla stesura di un’opera in grado di ritrarre la lingua toscana, compito per lui alquanto arduo, ma che al contrario risulterebbe essere facile a un parlante di quella lingua.

Lo studioso si affretta però a precisare che con questo non intende dire che non vi siano tratti pregevoli negli altri dialetti, che peraltro meriterebbero uno studio altrettanto accurato, ma in misura diversa tutti appaiono ai suoi occhi imperfetti rispetto a quello parlato nella regione di Dante.

Bisogna notare che esistono delle corrispondenze tra i dialetti parlati nelle altre regioni e quello toscano: in una lettera ad Augusto Conti, dell’agosto 1858, Giuliani si sofferma sui diversi modi in cui viene chiamata, in alcune aree della Toscana e dell’Italia, la botrite (botrytis

cinerea). Questa malattia delle piante, che nel volterrano si chiama salsuggine («stante le saline

che si trovano colà presso»), viene invece definita melata da quelli che «più sogliono tener cura a guadagnare sul frutto delle api»: «tutti prendono i vocaboli dalle cose che loro occorrono più facili nell’intelletto e frequenti sotto l’esperienza de’ sensi».197 Allo stesso modo i piemontesi

195 G. Giuliani, Sul vivente linguaggio della Toscana. Lettere, 1860, p. 203. 196 G. Giuliani, Sul vivente linguaggio della Toscana. Lettere, 1860, p. 65. 197 Ivi, p. 260.

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e i liguri «dan nome di manà e mana (manna) a quel veleno infesto delle viti; e vi parlano essi dell’uva immanata, al modo che per le terre toscane se ne ragiona come fosse ammelata.

Nonostante la vicinanza riscontrabile tra i vari dialetti per quanto riguarda determinati ambiti e vocaboli, «gli è per poco impossibile, che alle aspre e discordevoli voci il Toscano non riguardi come stranieri quelli che dall’Alpi o dall’Etna visitano il paese dove il sì meglio suona».198 Quello che meraviglia Giuliani, fin dalle prime lettere indirizzate a Calandri nel

1853, è la facilità con la quale anche il «minimo artigianello» toscano riesce a utilizzare l’idioma che tanto fa sudare sui libri i parlanti delle altre regioni: se non si riesce a far propria la lingua di Dante, difficilmente si può sperare di essere compresi: «nel discorrere con questo popolo a me avviene più volte di non essere inteso, e ciò appunto perchè non mi vengono in pronto quelle proprie parole che per felice abitudine loro soccorrono costantemente».199

Pur augurandosi «una più frequente concordia di suoni» che potrà «per le diverse terre italiche farci riconoscere come fratelli e d’una stessa patria», Giuliani, nella lettera a Mamiani, afferma l’impossibilità per la nostra lingua di diventare «a un modo parlata»: semmai potrà essere intesa «ancorchè si continuino pertinaci le differenze di pronunzia e le più spiccate e singolari proprietà degli idiomi municipali»200: caratteristiche «dell’uso vivo e volgare» che

non scompariranno mai totalmente. Ciò non impedirà però agli italiani di «afforzare l’unità della lingua, qualvolta ci recheremo a coscienza di cittadino italiano lo studiarla tutti, ciascuno alla volta sua e alla sua cerchia».201