GLI SCRITTI LINGUISTIC
L ETTERA SUL TRATTATO D E VULGARI ELOQUENTIA
La lettera a Manzoni sul De vulgari eloquentia fu pubblicata per la prima volta sul “Propugnatore” nel 1868, seguita da quella a Terenzio Mamiani Dell’unità della lingua e de’
mezzi di diffonderla. Entrambi i testi entrarono poi a far parte, nel 1870, della silloge Arte patria e religione, all’interno del capitolo dedicato alla lingua italiana intitolato come la Relazione
manzoniana. L’ultima edizione della lettera dedicata al trattato dantesco venne pubblicata nel 1878 all’interno del primo volume delle Opere latine dove precede il testo e il commento dell’opera.
Anche questa missiva risulta essere, in modo differente rispetto a quella indirizzata al ministro, una risposta alla Relazione del 1868, in cui Manzoni non aveva fatto cenno al De
vulgari eloquentia. L’autore dei Promessi Sposi però si dedicò al trattato dantesco quello stesso
anno con la lettera Intorno al libro De Vulgari Eloquio di Dante Alighieri indirizzata a Ruggiero Bonghi.
Per Giuliani la chiave di lettura del trattato dantesco è il titolo, ridotto da alcuni «ad una forma più dispiegata e sbrigativa De vulgari eloquio, sive Idiomate.»279 Lo studioso non
concorda con questa scelta, poiché la materia stessa di cui Dante tratta nella sua opera permette di comprendere che «Eloquentia nel titolo del libro significa Facoltà di ben dire, e che indi esso libro deve considerarsi, qual è, un “Trattato di dottrina del ben dire in Volgare”.»280
Il «ben dire» inoltre, secondo Giuliani, non si riferisce solo alla poesia, come era parso a Boccaccio e allo stesso Manzoni, ma anche alla prosa: se è vero infatti che, nel secondo libro, Dante
venne prima a chiarire per che maniera questo siffatto Volgare, grandioso e regolato con arte si conviene ai compositori di canzoni, premette benanco che i dicitori prosaici hanno da attingerlo da cotali poeti, appresso i quali rimane come fermo esemplare […]281
279 G. Giuliani, Arte patria e religione, p. 284. 280 Ibidem.
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Quando parla di «volgare illustre» il poeta si riferirebbe dunque «non solo “al linguaggio della poesia, anzi di un genere particolare di poesia”, ma sì del linguaggio conveniente a trattare le grandi cose sì nella poesia e sì nella prosa.»282
Il problema dell’unità linguistica nel 1868 è molto forte, come risulta evidente dalla richiesta del ministro Broglio di trovare una soluzione per diffondere lo strumento linguistico in tutta la nazione. L’affermazione di Manzoni che nel De vulgari eloquentia non si parli di «lingua italiana» non può essere accettata da Giuliani:
del resto ch’egli (Dante) quivi “non abbia inteso di definire quale sia la Lingua
italiana” sarà il vero, ma che non l’abbia al modo suo definita di fatto, e che anzi in
esso Trattato “non si parli di lingua italiana né punto né poco” m’è impossibile di consentirvelo […]283
Giuliani fa notare come Dante abbia definito cosa intende per «Volgare italico» nel momento in cui tratta delle lingue originate dalla confusione della Torre di Babele e di come abbia attribuito a questo l’appellativo di «lingua» come per quella d’oc, d’oil e tutti i volgari italiani:
Or ecco […] definito che cosa Dante intendesse per Volgare italico o di sì, e come gli assegnasse il nome di lingua non meno che ai Volgari d’oc e d’oil, attribuendo pur questo nome di lingua al Volgare di Sicilia e di Puglia, anzi a tutti i nostri Volgari. Ma nella maniera stessa che si dice Volgare cremonese quello che è proprio di Cremona, e lombardo quello che é proprio di Lombardia e va dicendo, ripete che cosi questo
Volgare, che é di tutta Italia, si chiama Volgare latino o, come aveva già detto, Volgare d’Italia.284
Si tratta di un criterio geografico al quale si aggiunge una connotazione letteraria nel momento in cui il «Volgare d’Italia» viene definito «illustre»: in questo caso, oltre a fare riferimento alla realtà urbana, il volgare del sì si qualifica «come l’usarono “doctores illustres qui Lingua vulgari poetati sunt in Italia”.» A questa lingua servono delle regole, per le quali Dante si ispira al modello latino:
282 G. Giuliani, Arte patria e religione, p. 285. 283 Ivi, p. 286.
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ed a questa lingua volgare, che Dante denomina pur altrove Volgare di sì, anzi Lingua
di sì, il Volgare proprio degl’italiani, ei volle prescrivere alcune regole, conformi alla
Grammatica od all’arte de’ Latini, o sia nell'uso de’ vocaboli, curandone insin le sillabe e gli accenti, o sia nel modo della costruzione e dell’adattarlo ad ogni
convenienza del discorso, delle persone e delle cose.285
Risulta quindi opportuno distinguere tra una «lingua Volgare italica» e una lingua «Volgare illustre». La prima è una lingua parlata che si impara fin da bambini e che presenta notevoli differenze lungo la penisola; la seconda, al contrario, è una lingua scritta, prodotta dall’inscrizione della «lingua Volgare italica» in regole determinate. ma come questa non è uniforme:
Quindi non si può da noi disconoscere che il gran Poeta avesse distinta nel primo de’ libri De Vulgari Eloquentia e determinata una lingua Volgare italica, quella lingua, intendo, in quanto é parlata e significatrice delle prime cose cogli stessi vocaboli e modi; e avente le stesse perplessità di costruzioni fra le varie genti del bel paese là,
dove il sì suona. […] In più luoghi (Dante) appunto ci avverte, che una lingua siffatta
sia da tenersi come la Loquela italica, l’italico Parlare, la lingua Volgare del Lazio, il nostro Volgare, la Lingua che si stende a tutti gl’italici. […] Né il Volgare scritto o
grammaticale, vogliasi illustre, mediocre od umile, deve riguardarsi se non com’esso
Volgare parlato, assoggettato peraltro, più o meno, a quelle condizioni che la sullodata
arte richiede da chi vuole degnamente adoperarlo. Ed ecco perché questo Volgare che
deve usarsi dai dicitori prosaici, non meno che dai rimatori, “si mostra in ciascuna
città d’Italia e non dimora in alcuna”.286
285 G. Giuliani, Arte patria e religione, p. 287. 286 Ivi, p. 288.
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