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Ecco un nuovo gruppo di lemmi ricco di spettri semantici ambigui e, almeno in parte, inafferrabili. L’«altro» – insieme a tutte le declinazioni spaziali, relazionali o concettuali che condividono la medesima etimologia latina (da «alterum», accusativo di «alter» ovvero «diverso») come ad esempio «altrove», «altrui», «alterità», «d’altronde», ecc. – si ritaglia una pertinenza semantica sempre in relazione/contrasto con un soggetto uniforme e omogeneo dell’enunciazione, un «io» o – in caso di una proiezione sociale – un «noi». Come scrivono Marco Aime e Davide Papotti in un libro sull’antropologia dei fenomeni turistici, «l’alterità si fonda necessariamente

sull’idea che abbiamo del noi. È tutto ciò che sta al di là di quel confine che abbiamo tracciato al limite di ciò che consideriamo essere nostro»57. Parafrasando altrimenti, possiamo dire che l’«altro»

inteso come categoria astratta è una declinazione, meglio ancora un’immagine speculare dell’identità del sé, un suo doppio, direbbe Massimo Fusillo58. Specifica meglio Kilani:

L’alterità non rappresenta un’essenza, una qualità intrinseca che certe popolazioni o certe culture porterebbero inscritta in se stesse. L’alterità deve essere considerata come una nozione relativa e congiunturale: si è «Altro» solo agli occhi di qualcuno. L’«Indiano», il «Selvaggio», l’«Orientale», il «Contadino» o il «Marginale» non costituiscono sostanze immutabili. Essi appaiono tali solo in virtù del rapporto stabilito dallo sguardo che l’Europa o la società moderna rivolgono a questi gruppi in un dato momento della loro storia. In breve, la categoria dell’«Altro» non ha a che fare con una definizione sostanziale; non corrisponde a un’entità autonoma e individuabile in positivo, ma è al contrario sempre inserita in una relazione generalmente di dominazione-subordinazione. Le categorie o i gruppi che appaiono differenti lo sono in rapporto a una struttura dominante che li ingloba e con la quale intrattengono certi rapporti di separazione o di opposizione59.

L’«alterità», l’«altrove» e l’«altro» sono in sostanza dei costrutti dialogici che si presentano quali veicoli ponderati di senso (di un senso che organizza un rapporto di dominazione-subordinazione) nella misura in cui ci raccontano di un soggetto che auspica e anela un’identità (personale o collettiva), lasciando, di fatto, in secondo piano i perimetri configurativi dell’oggetto che viene investito dallo stigma del diverso. Non è un caso che il termine «altro» sia particolarmente diffuso nelle discipline umanistiche più autoreferenziali e autoriflessive, ovvero quelle che si dimostrano particolarmente attente al ruolo, ai limiti, alle possibilità del sé in quanto tale, come fine essenziale o sinapsi indispensabile di un sapere. Ci riferiamo ad esempio all’antropologia, alla psicologia/psicanalisi, alla narratologia, alla filosofia, alla teologia, tutti campi di studio nei quali parafrasando Montaigne60 o Ricoeur61, la teorizzazione dell’«altro» e dell’«alterità» aiuta a focalizzare

questioni e problematiche che riguardano il sé, la comunità di appartenenza, i luoghi/gli spazi/i tempi di espressione della propria cultura di riferimento o della propria soggettività. Ecco allora

57 M. Aime, D. Papotti, L’altro e l’altrove. Antropologia, geografia, turismo, Torino, Einaudi, 2012, p. XV (Corsivi degli

autori).

58 M. Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, Firenze, La Nuova Italia, 1998.

59 M. Kilani, Introduction à l’anthropologie, Parigi, Payot, 1992 (tr. it. Antropologia. Una introduzione, Roma, Edizioni

Dedalo, 1994, p. 32).

60 «Je ne dis les autres, sinon pour d’autant plus me dire». Cfr. M. de Montaigne, Essais, Bordeaux, Simon Millanges,

1580, Vol. I, p. 26 (tr. it. Saggi, Milano, Adelphi, 1966).

61 P. Ricoeur, Soi-mème cornine un autre, Parigi, Editions du Seuil, 1990 (tr. it., Sé come un altro, Milano, Jaca Book,

proliferare testi sulla «scrittura dell’altro»62, dove in verità si studiano le strategie di scrittura dei

viaggiatori ed etnografi europei, sull’«altro e lo stesso»63, dove però si studia il piacere della cultura

europea per la costruzione di giochi espressivi fondati sulla specularità e sul doppio, sul «problema dell’altro»64, dove nondimeno il «problema» non sono gli altri, ma il «noi» che hanno messo in atto

metodi di conquista e di silenziamento nei confronti delle comunità indigene americane, sull’«invenzione dell’altro»65, dove si sancisce l’arbitrarietà e il carattere etnocentrico del costrutto,

sui «vestiti dell’altro»66, dove il modello, inteso qui come indossatore, colui che si veste con gli abiti

altrui, è sempre il soggetto scrivente, mentre l’altro è convocato strumentalmente nei tratti dell’apparenza, dell’abitabilità, della riconoscibilità. E così via.

In verità la questione dell’«altro» è talmente estesa e articolata da non essere qui affrontabile se non in maniera epidermica e funzionale ai fini delle nostre argomentazioni67. Per delimitarla

abbiamo deciso di ricostruire solo le posizioni di due insigni teorici e narratologi come Michail Bachtin e Ztvetan Todorov, perché le consideriamo appropriate ed efficaci ai fini degli obiettivi posti da questo studio. Il primo lo ricordiamo soprattutto per l’introduzione negli studi narratologici del concetto di «eteroglossia», quell’idea secondo cui all’interno di un codice linguistico s’insediano una molteplicità di diversi linguaggi, stili, discorsi, gerghi, pertinenze e competenze comunicative, assorbiti dall’enunciatore su influenza del contesto «altro» in cui è iscritto e poi rielaborati in funzione narrativa, drammaturgica, rappresentativa per assegnare al discorso un orizzonte multivocale, non più solo centripeto (ovvero mirato alla ricerca di un’omogeneità linguistica di natura ideologia), ma centrifugo e dispersivo. Tale ricchezza polifonica della «voce del sé» è data – secondo Bachtin – dalle contingenze del contesto comunicativo in cui è inscritto e accresciuta dalle forme dialogiche della relazione interculturale, solitamente drammatizzate e

62 M. De Certeau, L’Ecriture de l’histoire, Parigi, Gallimard, 1975 (tr. it. La scrittura della storia, Roma, Il Pensiero

Scientifico, 1977; ripubblicato e ampliato con altri saggi in La scrittura dell’altro, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2005).

63 M. Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, Firenze, La Nuova Italia, 1998.

64 T. Todorov, La Conquête de l’Amérique. La Question de l’autre, Parigi, Seuil, 1982 (tr. it. La conquista dell’America. Il problema dell’“altro”, Torino, Einaudi, 1984).

65 M. Kilani, L’invention de l’autre. Essais sur le discours antrhropologique, Losanna, Editions Payot, 1994 (tr. it. L’Invenzione dell’altro, Bari, Dedalo, 1997).

66 G. Franci, M. G. Muzzarelli (a cura di), Il vestito dell’altro. Semiotica, arti, costume, Milano, Lupetti, 2005.

67 Impossibile in questa sede riprodurre, anche solo parzialmente, un elenco esaustivo sugli studi dedicati alle questioni

dell’«altro» e dell’«alterità». Un parziale e molto limitato carotaggio si può trovare nella bibliografia in appendice al volume dove sono segnalati i principali studi presi in considerazione in questa sede.

codificate negli artefatti narrativi68. In altre parole, il linguaggio con cui si narra una determinata

storia porta in sé una molteplicità di punti di vista del mondo e sul mondo, diventa il prodotto di una polifonia che può emergere se entrano in gioco identità comunicative che si costruiscono nella disponibilità al confronto, nella forma dialogica69.

The novel orchestrates all its themes, the totality of the world of objects and ideas depicted and expressed in it, by means of the social diversity of speech types and by the differing individual voices that flourish under such conditions. Authorial speech, the speeches of narrators, inserted genres, the speech of characters are merely those fundamental compositional unities with whose help heteroglossia [raznorčie] can enter the novel; each of them permits a multiplicity of social voices and a wide variety of their links and interrelationships (always more or less dialogized). These distinctive links and interrelationships between utterances and languages, this movement of the theme through different languages and speech types, its dispersion into the rivulets and droplets of social heteroglossia, its dialogization – this is the basic distinguishing feature of the stylistics of the novel70.

L’ipotesi narratologica di Bachtin è utile al nostro discorso perché permette di rendere complessi gli statuti di costruzione dei soggetti che gestiscono l’enunciazione (e di conseguenza che stabiliscono cosa è «altro» e cosa non lo è), rendendoli porosi proprio alle contingenze del «viaggio» comunicativo e alle sollecitazioni dei soggetti con cui interloquiscono/interagiscono. Se Rimbaud aveva semplificato il concetto con il celebre verso poetico «Je est un autre»71, Bachtin di fatto

dispiega questa stessa convinzione nei rivoli dispersivi della comunicazione relazionale iniziando quel processo di «decostruzione» (dall’interno) delle polarità enunciative, e in particolare del soggetto dell’enunciazione, che porterà ad approcci teorici più recenti come quelli intertestuali o post-strutturalisti, secondo una tensione verso la complessità e l’accoglienza delle potenzialità aporetiche e disorganiche delle reti discorsive (qui individuabili nella polivocalità del linguaggio) che è propria di questo studio. Egli tuttavia non propone un venir meno dell’interesse verso le intenzionalità dell’autore, come invece capiterà qualche decennio dopo su proposta della teoria

68 A tal proposito si veda: M. Bachtin, The Dialogic Imagination. Four Essays, Austin, University of Texas Press, 1981.

Per una disamina del termine si veda l’introduzione al testo scritta dal curatore del volume e traduttore Michael Holquist, cit. pp. I-XXXIII. Per un’introduzione complessiva al pensiero di Bachtin si rimanda a M. Holquist,

Dialogism. Bakhtin and His World, Londra, Routledge, 2002 e, in italiano, a A. Ponzio, Tra semiotica e letteratura. Introduzione a Michail Bachtin, Milano, Bompiani, 2003.

69 Per una collocazione del concetto di eteroglossia all’interno delle teorie dialogiche bachtiniane veda, almeno in

italiano, S. Sini, Michail Bachtin. Una critica del pensiero dialogico, Roma, Carocci, 2011.

70 Bachtin, op. cit., p. 262-263.

71 A. Rimbaud, “Lettre à Georges Izambard”, in Id., Œuvres Complètes, Parigi, Pléiade, 1946, p. 252 (tr. it. “Lettera a

decostruzionista, assegnando invece una preminenza e una specifica attenzione allo spazio di azione di chi costruisce gli artefatti narrativi:

Il nostro punto di vista non propone affatto la passività dell’autore che si limiterebbe a produrre punti di vista e verità altrui, rinunciando al proprio punto di vista, alla propria verità. Di ciò non si tratta, bensì di un rapporto del tutto nuovo tra la propria verità e la verità altrui. L’autore è profondamente attivo, ma la sua attività ha un carattere particolare,

dialogico. Quest’attività che interroga, provoca, risponde, consente, obietta ecc., non è

meno attiva di quella che compie, reifica, spiega per causalità e uccide e soffoca la voce altrui72.

La questione, per Bachtin, non è il «chi» (dato per assodato), ma il «come» e il «quanto» (tutti da assodare). Dunque interessarsi dell’«altrui» serve a capire come si attiva la relazione, quanto intensa è, come si amalgama, quanto è resistente. E così via. Ne consegue che il binomio «io/altro» o «noi/loro» risulterà meno polarizzato di quel che si potrebbe pensare dall’uso singolare e astratto dei pronomi, per merito di uno statuto di sfuggevolezza e spugnosità che può essere attribuito non tanto alle forme di conoscenza dell’alterità, quanto alle forme di manifestazione dell’identità (ovvero dell’«io», del «noi», del «sé»).

Su questa falsariga si muove, aggiungendo nuovi elementi di ponderazione, il filosofo e linguista Ztvetan Todorov. In Mikhail Bakthine. Le principe dialogique (1981), La Conquête de l’Amérique: La

Question de l’autre (1982) e soprattutto in Nous et les autres (1989). Todorov affronta la «questione

dell’altro» come il nocciolo centrale dell’implicazione del sé. Sudioso di origini bulgare trapiantato a Parigi, Todorov commenta alcuni episodi della sua biografia nell’introduzione a quest’ultimo libro. È un passaggio a nostro modo di vedere importante. Prima di occuparsi di scrittori e intellettuali francesi che hanno scritto opere letterarie basate sulla rappresentazione delle alterità (tra cui Montesquieu, Segalen, Levi-Strauss, Montaigne, Chateaubriand, Loti, Gobineau, Michelet e molti altri), Todorov rammenta al lettore la sua infanzia al contatto con il soffocante regime comunista e, subito dopo, la sua giovinezza al contatto con le frange più radicali del movimentismo sessantottino parigino, costatando, in questo secondo caso, le mire piccolo borghesi e l’impostazione individualista propria di alcuni leader della contestazione. Nel testo introduttivo a Noi e gli altri, Todorov costruisce una sorta di proprio doppio intradiegetico che prende parola e narra alcune

72 Il brano si trova in M. Bachtin, Problemy poetiki Dostoevskogo, Mosca, Sovetskij pisatel’, 1963 (tr. it. Dostoevskij. Poetica e stilistica, Torino, Einaudi, 1968) ma qui è citato da T. Todorov. Mikhail Bakthine, le principe dialogique. Suivi de ecrits du cercle de Bakthine. Parigi, Editions du Seuil, 1981 (tr. it. Michail Bachtin, Torino, Einaudi, 1990, p. 164).

esperienze dell’«autore» in carne e ossa73, istituendosi così come «soggetto» (l’autore) e,

contemporaneamente, come oggetto (il personaggio) della narrazione. Manifestando il disagio provato dal doppio intradiegetico nei confronti di altri «personaggi» incontrati nella sua vita parigina, lo scrittore Todorov decide di indicare che i suoi «altri», quelli che considera stranieri in quanto alternativi alla propria visione del mondo, sono in realtà quelli che nello studio saggistico che si accinge a presentare verranno chiamati «Noi»: ovvero i francesi, siano essi gli autori letterari che studia, i compagni di viaggio con cui ha condiviso la lotta giovanile (e forse le cattedre accademiche da adulto), i lettori che leggeranno e studieranno il suo saggio.

Sensibile, in qualche modo, alla dimensione dell’appartenenza e della disappartenenza culturale, della diversità di sguardo rispetto a una comunità dentro la quale faticosamente e lentamente cerca di integrarsi (embricando canoni, linguaggi, schemi cognitivi sopra una corazza di dolorose esperienze autobiografiche almeno parzialmente inespugnabili) l’autore di natali bulgari sostiene, in estrema sintesi, l’ipotesi secondo cui i testi letterari vadano studiati nelle loro implicazioni ideologiche, sociali, politiche, filosofiche, non prima di aver valutato quali sono le strategie di costruzione ed emersione del soggetto che attiva il principio dialogico del confronto. I «veri» «altri», se così si può dire, ovvero gli «altri» esotici, stranieri e lontani, finiscono per essere messi in secondo piano innanzi ai «noi» francesi che a loro volta sono «altri». Ne consegue un cortocircuito attraverso il quale il sentimento di non appartenenza e di esplicitazione del disagio del sé può diventare una chiave di volta per comprendere la relazione con il diverso. O meglio la perimetratura del diverso in uno spazio«altro» e intoccabile può diventare un modo per ragionare e comprendere le strategie di reificazione del sé . Secondo Lazzarin:

[in Todorov] la scoperta dell’altro coincide con la scoperta del sé, e quest’ultima assume diversi aspetti – uno centrale, il recupero del proprio passato personale, altri più periferici [...], la scoperta della propria identità di uomo sradicato, l’analisi dei meccanismi della memoria, la riflessione sull’esperienza totalitaria vissuta durante la giovinezza, il tentativo di elaborare una morale per la vita quotidiana. [...] Ecco che la scoperta dell’altro è anche un modo per ripensare la propria esperienza intellettuale e morale [...]. Così alterità e identità rappresentano il duplice obiettivo di un medesimo sforzo74

73 Si noti che è una pratica piuttosto diffusa soprattutto negli scrittori postcoloniali. Si possono trovare strategie

narrative analoghe anche nei testi di Bhabha, Hall, Spivak, Said, dove evidentemente le esperienze personali (la migrazione, le origini miste, gli studi) appaiono consustanziali ai loro metodi di studio.

74 S. Lazzarin, Todorov, Bachtin e la scoperta dell’altro. Appunti per la storia di una carriera intellettuale, «Nuova corrente»

Stabilendo delle liaison con il percorso qui esposto, possiamo allora provare ad anticipare un’adozione stratificata e, parzialmente, indeterminata dei termini «altri» e «alterità» che compongono il sottotitolo della tesi e che rappresenteranno uno degli elementi di omogeneità dei film studiati. L’«altro» e l’«alterità» non saranno soltanto lemmi che individueranno l’insieme delle popolazioni culturalmente ed etnicamente diverse con cui entreranno in contatto i registi odeporici, ma saranno anche bacini di senso che conterranno plurime declinazioni del diverso, prime tra tutte quelle che coinvolgono le soggettività screziate e «polivocali» dei viaggiatori, le loro reazioni «altre» innanzi a un reale che sfugge, le loro modalità «altre» di posizionamento retorico nel gioco della finzione etnografica. Parleremo di «altri», ma forse non ne parleremo affatto.

figura intera, «ACME - Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano», Vol. LXV,

Settembre-Dicembre 2012, pp. 221-242; S. Atanassov, Todorov ou le moi dialogique au carrefour des cultures, «Canadian Review of Comparative Literature/Revue Canadienne de Littérature Comparée», Vol. XXXI, n. 2, 2004, pp. 137-152.

I termini «modernismo» e «autore» sono – se possibile – ancora più complessi da definire e difficili da collocare in questo studio rispetto a quelli appena declinati nel precedente capitolo, quantomeno perché hanno significati multipli, perché sono portatrici di storie semantiche stratificate, diverse a seconda della loro applicazione disciplinare e, non da ultimo, perché sono categorie maggiormente dibattute rispetto alle precedenti negli studi sul cinema e gli audiovisivi. Il primo termine, «modernismo», si caratterizza per la molteplicità di senso che acquista in base agli ambiti artistici all’interno dei quali viene declinato (letteratura, pittura, architettura, religione), dunque per l’eterogeneità dei fenomeni storici/culturali che intende indicare/definire1. L’ambiguità

semantica sostanziale del costrutto fa sì che istituisca relazioni di prossimità che talvolta sfociano nella sinonimia e altre volte nell’antinomia con termini contigui e altrettanto problematici come «moderno», «modernizzazione», «post-moderno», «post-modernismo», ecc.. Convocare il termine «modernismo» significa attivare un panorama sfocato di discorsività che muta in funzione dello sguardo analitico che vi si pone sopra e delle assegnazioni semantiche, spesso non dichiarate, che i lessici disciplinari impongono sulle materie di riferimento. Applicando il costrutto al campo circoscritto della storia del cinema sarà facile imbattersi in un modernismo che guarda al primitivismo, all’arte povera, al minimalismo e a un modernismo che guarda alle accelerazioni e allo sviluppo tecnologico, alla macchina-corpo o all’astrattismo; esiste un modernismo «classico», per via di talune forme e modelli narrativi che si sono canonizzate con il tempo (il riferimento è alla «stanca» ripetitività di certi «film d’essai») ed uno che sfiora il postmoderno per lo spazio che i taluni film dedicano alla dimensione ludica del racconto, al gusto citazionista, all’ibridismo di formati e

1 Anche in questo caso si cade nella categoria del pleonastico nel momento in cui si ricorda che sul concetto di

«modernismo» la bibliografia è tanto estesa quanto quella dedicata agli altri concetti qui declinati e che la sintesi che riproduciamo non vuole e non può essere in alcun modo esaustiva, limitandosi a operare dalla letterature di riferimento alcuni prelievi utili poi nella parte successiva del lavoro. In nota ci limitiamo a ricordare alcune letture generali e propedeutiche a ulteriori approfondimenti sul modernismo, in modo particolare quello applicato alle arti e alla letteratura: A. Eysteinsson, The Concept of Modernism, Ithaca/Londra, Cornell University press, 1990; P. Ackroyd, Notes

for a New Culture, Londra, Alkin books, 1993; T. Armstrong, Modernism. A Cultural History, Cambridge, Polity press,

2005; M. Călinescu, Five Faces of Modernity, Modernism, Avant-garde, Decadence, Kitsch, Postmodernism, Durham, Duke University Press, 1987; R. Walz, Modernism, Londra, Routledge, 2013 (seconda edizione ampliata); P. Childs,

registri di genere adottati. Ne parleremo meglio fra poche righe. Il secondo concetto, generalmente ammantato di un’allure romantica, è stato in buona parte smitizzato dalle teorie post-strutturaliste e decostruzioniste nate in ambito letterario, filosofico e storico-artistico, a partire almeno dalla seconda metà del Novecento, sancendone se non l’irrilevanza di ruolo, certamente la minore centralità nelle pratiche di ermeneutica dei fenomeni artistici, culturali e sociali a tutto vantaggio di altre categorie analitiche. Nondimeno quella dell’«autore» resta una chiave di lettura abitualmente utilizzata in vari ambiti esegetici, guida le strategie di diffusione commerciale di certe pellicole, coinvolge questioni di varia natura come quelle legate all’individuazione della posizione da tutelare nel processo di divulgazione e sfruttamento economico delle opere di ingegno. L’«autore» è – sotto un profilo giuridico – il regista di un film, colui che è investito delle maggiori responsabilità nell’allestimento di un lavoro cinematografico o, semmai, chi è depositario dei diritti d’autore, ovvero chi finanzia un film (un produttore, una rete televisiva) o ancora, nell’attuale stagione mediale, chi fruisce un prodotto audiovisivo, lo condivide, lo rimonta, lo «scarica», lo reinterpreta? Gli ambiti discorsivi che i due termini convocano sono magmatici, scivolosi, problematizzanti. Nonostante ciò, le due locuzioni vanteranno una posizione preminente nelle dissertazioni contenute in questo testo, anche se il loro spettro semantico – lo vedremo meglio nelle prossime pagine – sarà ridotto ad alcuni tratti precisi e tra loro complementari che merita precisare.