Gran parte del perimetro significante della ricerca – compreso il modo con cui si utilizzano certi termini – ruota attorno alla pratica odeporica. Per il cineasta modernista, lo abbiamo sottolineato più volte, viaggiare rappresenta un modo per iscriversi nella diegesi in modo indiscutibile e persino lancinante. Egli è lì. C’è. È Rossellini in persona, non un suo alter-ego, che si trova in India, incontra Nehru, intreccia una relazione sentimentale con Sonali, entra in conflitto con la stampa locale; sono Antonioni e Ivens, non delle loro astrazioni, a relazionarsi con i burocrati cinesi e a combattere per ottenere le autorizzazioni per filmare oppure a essere ospitati a palazzo da Zhou En- lai o Ho Chi Minh; è Pasolini, non un suo delegato di celluloide, a fare sopralluoghi e inchieste nel cosiddetto Terzo Mondo, a intervistare le persone con il suo microfono a tracolla, a percorrere centinaia di chilometri in auto, a lanciare appelli per la tutela di Sana’a. È Marker, non il suo alter- ego Sandor Krasna, ad attraversare il mondo con la macchina da presa, dall’Islanda all’Africa subsahariana, dal San Francisco al Giappone, per catturare il filo di un ragionamento personale che mira a essere intersoggettivo, ma anche per fotografare tutto ciò che ritiene interessante e dalle fotografie trarre inserti per i suoi libri di viaggio, volumi fotografici, «film in forma di foto». È Malle quello che viene attaccato dagli indiani inglesi che scoprono di non riconoscersi nel suo documentario sull’India e a vedersi rifiutare il visto per ritornare nel subcontinente. È Antonioni che viene attaccato dalla Banda dei Quattro, è il suo nome quello scandito dalle masse cinesi che inscenano manifestazioni di protesta contro il suo film. È Sternberg il cineasta che viene accolto come un eroe dalla stampa giapponese al suo arrivo a Tokyo, primo grande regista hollywoodiano a girare un film nel Sol Levante ed è sempre lui (non altri) a doversi prendere una copia in pellicola di
Anatahan e portarsela negli Stati Uniti per cercare di distribuire un film che non aveva accolto alcun
significativo consenso. È a Resnais, e non ad altri, in virtù dei suoi precedenti documentari, e in modo particolare al suo crudo Nuit et brouillard, che viene chiesto di provare a girare un film su Hiroshima in loco. Sono più in generale gli elementi di testimonianza diretta dei registi in viaggio, il loro essere stati lì, ad avvalorare i viaggi e, di conseguenza, le rappresentazioni più o meno verosimili di quei viaggi: biografie, autobiografie, interviste, scritti e racconti hanno un’importanza capitale nella diffusione dei saperi e delle ricezioni. Non è certamente un caso che quasi ogni regista in
viaggio dia alle stampe, una volta tornato, qualche testo in forma di memoria e di testimonianza di quell’esperienza40.
Da un certo punto di vista potremmo dire che i nostri registi viaggiano non in quanto persone, ma in quanto «autori». Essi si portano in valigia il loro ruolo sociale anche perché in certi casi (ad esempio per Rossellini, Antonioni, Ivens41) è la riconoscibilità internazionale conquistata a
consentire loro di raggiungere luoghi geografici preclusi ai più, di incontrare uomini politici, talvolta di trasgredire regole o leggi del paese ospitante. Nondimeno, viaggiando in quanto autori essi si «riscoprono» persone, nella fatica del cammino, nell’imprevedibilità dell’incontro, nella difficoltà del
tournage. Ecco allora che l’esserci nei luoghi visitati e nelle diegesi costituisce un modo per mettersi
in gioco allontanandosi, il più possibile, dalla coerenza oppressiva del costrutto autoriale e per imprimere un diverso movimento delle forme, legato agli andamenti sussultori del contingente, alla curiosità per lo sconosciuto, all’urgenza della militanza, all’indagine del «sé» che si rispecchia nell’«altro», alle imposizioni determinate dalle abitudini culturali delle società visitate. Il viaggio porta seco il desiderio di rinunciare – almeno in modo parziale, almeno in termini teorici – all’ideale romantico dell’artista come creatore consapevole di un’opera e del film come risultato di uno sforzo intellettivo, razionale, metodico e, dunque, come orizzonte coerente e chiuso di significati. Di più: se accettiamo l’idea foucaultiana che l’«autore» è un elemento discorsivo distraente (distrae il lettore dalle logiche arbitrarie che organizzano i saperi) possiamo anche studiare i film odeporici come strumenti che, portando il costrutto autoriale in viaggio e conducendolo lontano dal proprio «habitat naturale», lo distraggono dalla sua funzione distraente, permettendo parallelamente allo spettatore di ritarare i propri meccanismi allertivi (la gerarchia delle proprie predisposizioni) e di interrogarsi sulla reale capacità statutaria dell’«autore» e sul significato dell’esperienza odeporica. A cosa offrire attenzione? Al regista in viaggio o alla realtà visitata? E se le immagini del viaggio esotico
40 Segnaliamo in nota che l’approccio che portiamo avanti – l’interesse per il costrutto autoriale che si delinea dentro la
pratica del viaggio – è simile a quello utilizzato in alcuni recenti lavori di analisi della letteratura odeporica. Si veda a proposito: G. Benvenuti, Il viaggiatore come autore. L’India nella letteratura italiana del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2008. M. Riva, S. Parussa, L’autore come antropologo. Pier Paolo Pasolini e la morte dell’etos, «Annali di Italianistica», n. 15, 1997, pp. 237-265.
41 Sulla pertinenza di una figura di «confine» come Ivens per il nostro studio – egli è, infatti, un «autore» sui generis, in
quanto prima di tutto documentarista, ovvero un regista che si «cancella» mettendosi a disposizione dei fatti storici e delle realtà rappresentate – si rimanda a una breve riflessione presente nel paragrafo dedicato a Comment Yukong déplaça
sono di per sé interessanti, indipendentemente da chi le ha prodotte, quale reale ordinamento assegnare all’azione del cineasta odeporico?
Nel precedente paragrafo avevamo ricordato gli elementi aporistici e antinomici insiti nel viaggio, sottolineando i sottotesti etnocentrici propri di ogni rappresentazione che giunge da rappresentanti di culture e nazioni dal passato coloniale. Qui conviene declinare la stessa convinzione sul piano delle narrazioni e delle discorsività cinematografiche. Il regista è certamente un esploratore con la macchina da presa che informa, in virtù di un determinato sguardo ideologico, la realtà che visita e che filma, ma è anche un professionista che decide di rinunciare ad alcuni privilegi del proprio ruolo (il controllo del setting, l’uso del 35 mm., la scelta di attori professionisti, ecc.) per svuotare – almeno in teoria, almeno parzialmente – la sua funzione autoritaria. Quale profilo di autorità egli presenta? Come la rende compatibile o incompatibile con l’autorità culturale etnocentrica di cui è giocoforza portatore?
Viaggiare mette in discussione e in pericolo, infine, il modernismo inteso come configurazione di una sensibilità estetica, come impegno metalinguistico, come teorizzazione del «sé». Se è vero che la ricerca di una relazione più inclusiva e partecipativa nel reale è una delle caratteristiche della stagione modernista, è anche vero che certe espressioni tragiche delle realtà visitate – come ad esempio la bomba di Hiroshima, la guerra in Vietnam, la distruzione di Sana’a, le epidemie di peste a Calcutta – pongono dubbi morali più che legittimi circa la pregnanza dell’immagine, l’estetizzazione di uno sguardo soggettivo, l’autoreferenzialità di un progetto cinematografico. In che modo e come un regista che si reifica nel viaggio prova a collocarsi innanzi a tali tragedie? In che modo e fin dove si possono praticare forme di narcisismo autoriale – l’autorità che si fa bella – quando si entra in contatto con realtà povere, indigenti, in difficoltà?
A queste e altre domande cercheremo di dare risposte nei prossimi capitoli. Non prima però di aver presentato, in modi sintetici e sempre con uno sguardo metodologico-teorico, lo schema complessivo della tesi.