Per confermare queste fin ovvie considerazioni basterebbe ricordare, ad esempio, la funzione commerciale e il profilo di «genere» che il film «esotico» e «orientalista» assume tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, permutando immaginari, fantasie, ma anche analoghi processi di sfruttamento economico del piacere esotico popolare praticato in altre forme di fruizione e consumo culturale/artistico, dalla pittura a soggetto31 al teatro32, dal vaudeville alle arti applicate33,
30 J. Ranciere, Le destin des images, Parigi, La Fabrique Éditions, 2003 (tr. it. Il destino delle immagini, Cosenza,
Pellegrini Editore, 2007).
31 Nel momento in cui si parla di «genere» in quanto strumento efficace di «commercializzazione» delle fantasie
esotiche/orientali non si può non parlare di quanto avviene nella storia della pittura e delle arti applicate, nell’importanza ad esempio che assumono i pittori orientalisti che accompagnano le spedizioni «etnografiche» nel Settecento o nell’Ottocento, gli artisti che vengono finanziati direttamente o indirettamente dalle amministrazioni coloniali (quella inglese in India, ma non solo), i fotografi, i produttori di cartoline, di stampe, di litografie, a comporre un atlante warburghiano di immagini laccate e seducenti per il piacere dei collezionisti europei. La bibliografia a tal proposito è molto ampia e non è qui riproducibile. Ci limitiamo a segnalare alcuni tra i contributi usciti negli ultimi, in particolar modo per quanto riguarda la pittura orientalista: D. Rosenthal Orientalism. The Near East in French Painting
1800-1880, Rochester/New York, Memorial Art Gallery of the University of Rochester, 1982 (catalogo); J. Thomson, The East. Imagined, Experienced, Remembered. Orientalist Nineteenth Century Paintings, Dublino, National Gallery of
Ireland, 1988; N. Tromans, R. Kabbani (a cura di), The Lure of the East. British Orientalist Painting, New Haven- Londra, Yale University Press, 2008; J. Beaulieu, M. Roberts, Orientalism’s Interlocutors. Painting, Architecture,
Photography, Durham, Duke University Press, 2002; J. Hackforth-Jones, M. Roberts, Edges of Empire. Orientalism and Visual Culture, Hoboken (NJ), John Wiley & Sons, 2008.
32 Per un quadro introduttivo sulle influenze dell’orientalismo nel teatro si veda N. Savarese, Teatro e spettacolo fra Oriente e Occidente, Roma-Bari, Laterza, 1992.
33 Una delle manifestazioni più evidenti della fascinazione che le culture asiatiche hanno esercitato in Europa e negli
Stati Uniti può essere considerata il giapponismo, quella vague particolarmente pronunciata verso la fine dell’Ottocento, allorquando grazie all’apertura di nuovi canali commerciali, giungono in Europa oggetti artistici e non provenienti dal Sol Levante. Per una veloce trattazione dell’attrazione europea per il Giappone, la sua cultura, i suoi artefatti, si veda almeno: L. Lambourne, Japonisme. Cultural Crossings Between Japan and the West, New York, Phaidon Press, 2007.
dalla fotografia34 alle arti coreutiche35. Fin dai primi anni di diffusione del nuovo medium, si
alimenta una moda per la rappresentazione folcloristica dell’alterità, ben collocata in un passaggio storico dove il colonialismo appariva – o veniva presentato – come un fenomeno positivo, non solo per i dominatori, ma anche per i dominati. Basta un veloce lavoro di spoglio dei cataloghi delle principali case di produzione presenti al di qua (Lumière36, Pathé37) o al di là (Edison38) dell’oceano,
per accorgersi quanti siano i titoli che seguono questa tendenza, o perché promettono di mostrare vedute, tranche de vie, fatti storici di paesi lontani (asiatici, ma non solo), o perché presentano rituali, danze, cerimonie estranee alle abitudini culturali dello spettatore europeo. Si pensi anche alla fortuna seriale che ha avuto in tutto il cinema dei primi tempi la rappresentazione della Danse
serpentine, una sorta di rivisitazione della Danza dei sette veli che lega il fascino della scoperta del
34 A tal proposito si rinvia al saggio: E. Nepoti, Immagini e immaginario del Giappone in Francia e in Italia dall’ukiyo-e al cinematografo degli inizi del Novecento, «Cinergie», n. 3, Marzo 2013, pp. 8-19.
35 Sul rapporto danza-cinema e relativa bibliografia si veda E. Uffreduzzi, Orientalismo nel cinema muto italiano. Una seduzione coreografica, «Cinergie», n. 3, Marzo 2013, pp. 20-30.
36 Nel catalogo Lumiére si possono trovare titoli come: Egipte, panorama des rives du Nil (1895); Alger: prière du muezzin
(1896); Coolies à Saïgon (1897); Emile Béchard, Descente de la grande pyramide (1897); Les pyramides (vue générale) (1897); Bourricots sous les palmiers (1897); Alger: rue Bab-Azoun (1897); Constantinople, panorama de la corne d’or (1897); Escrime au sabre japonais (1897); Le Caire, un enterrement (1897); Acteurs japonais: Exercice de la perruque (1898); Une rue à Tokyo (1898); Station du chemin de fer de Tokyo (1898); Une avenue à Tokyo (1898); Une place
publique à Tokyo (1898); Japonaise faisant sa toilette (1899); Danse Japonaise: Gueichas en Jinrikcha (1899); Les krémos: Pyramide (1899); Acteurs japonais: Bataille au sabre (1898); Le roi de Cambodge se rendant au Palais (1902); Danseuses Cambodgiennes du roi Norodom (1902). Cfr. A. e L. Lumière, Catalogue des vues pour cinématographe, Lione, Imprimerle
L. Decleris et Fils, 1907.
37 Tra i film prodotti dai fratelli Pathé figura innanzitutto Aladin et la lampe merveilleuse (1900), pellicola costituita da
45 scene per un totale di 230 minuti di proiezione, e poi titoli come Duel au sabre en Abyssinie (1897); Danses en
Abyssinie (1898); Arrivée d’un tramway à Saigon (1899); Danse des Javanais (1899), Événements de Chine: Bataille au pied de la muraille de Pékin (1900); Événements de Chine: Martyre d’un missionnaire à Pao-Ting-Fou - Intervention des troupes alliées (1900); Chinoiseries (1902); Vues d’Algérie: Mariage arabe (1902); Fantasias arabes. Quadrille à cheval (1902); Caravane dans le désert (1902), Le Walton – Acrobates chinois (1903); Les Fleurs animées (1906); Le Sorcier arabe (1906); Ali Baba et les quarante voleurs (1907), Le Couteau arabe (1908); En Chine - Hong Chu Fu (1908); Divertissement chinois
(1909), Les Mahométans chez eux (1909); Isis (1910). Cfr. H. Bousquet, Catalogue Pathé des années 1896 à 1914, Bures- sur-Yvette, Editions Henri Bousquet, 1994 (edizione consultata aggiornata 2004).
38 Thomas Edison, pur senza finanziare viaggi all’estero dei suoi cineoperatori, ha prodotto film «esotici» (talvolta
ambientati tra le minoranze indiane del paese) come: Carmencita (1894); Sioux Ghost Dance (1894); Buffalo Dance (1894); Imperial Japanese Dance (1894); Princess Ali (1895); Arrest in Chinatown, San Francisco, Cal (1897); Launch of
Japanese Man-of-war “Chitosa” (1988); Parade of Chinese (1898); A Street Arab (1898); Cuban Refugees Waiting for Rations (1898); Turkish Dance, Ella Lola (1898); Spanish Dancers at the Pan-American Exposition (1900); San Francisco Chinese Funeral (1903); Japanese Acrobats (1904). Cfr. C. Musser et al. Motion Picture Catalogs by American Producers and Distributors, 1894-1908. A Microfilm Edition, Frederick, University Publications of America, 1984; E. Savada (a
cura di), The American Film Institute Catalog of Motion Pictures Produced in the United States. Film Beginnings, 1893–
movimento cinematografico (e dei trucchi ottici artigianali) con quello della seduzione sessuale39. La
stessa produzione di Méliès – qualche anno dopo – annoverava alcuni adattamenti dei classici dell’orientalismo come Le mille e una notte o episodi della storia dell’antico Egitto e dell’antica Roma40, mentre, se avanziamo anche solo di pochi lustri, scopriamo che tra i titoli più popolari degli
anni Dieci o degli anni Venti comparivano opere come Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone,
Intolerance: Love’s Struggle Throughout the Ages (1916) o Broken Blossom (1919) di David W.
Griffith, The Sheik (1921) di George Melford o Ahmed, the Sheik’s Son (1926) di George Fitzmaurice (entrambi con Rodolfo Valentino), The Thief of Bagdad (1924) di Raoul Walsh, Das
indische Grabmal zweiter Teil (1921) di Joe May, Der müde Tod (1921) di Fritz Lang, Sumurun
(1920) e Das Weib des Pharao (1922) di Ernst Lubitsch, The Arab (1915) o The Ten Commandments (1923) di Cecil B. DeMille ecc., tutti titoli accomunati dal fatto di sfruttare ambientazioni esotiche, leggendarie o mitologiche per infondere eccentricità e meraviglia alle storie narrate e quindi per attrarre – quello era ovviamente l’auspicio – un numero sempre più cospicuo di spettatori41.
Più che la riprova di una presenza demiurgica che instilla ideologia colonialista in film di età e provenienza diverse, queste pellicole dimostrano che la domanda di perturbazione e disorientamento della visione da parte del pubblico pagante è alta e duratura nel tempo, una domanda alla quale l’industria dello spettacolo si sente in dovere di rispondere e alimentare per ovvie ragioni economiche, inventandosi sempre nuovi modi per riformularla. È difficile, infatti, paragonare tra loro, sul piano delle scelte estetiche o delle architetture narrative, opere di Griffith e Méliès, di DeMille e di Lubitsch. Eppure sembra esistere, in questi e in altri lavori del periodo, una
39 Alcuni esempi: Annabelle Serpentine Dance (Thomas A. Edison, 1894); Danse Serpentine n. 765 (Louis Lumière,
1896); Danse Serpentine (Leopoldo Fregoli, 1897), La Création de la Danse Serpentine (Segundo de Chomón, 1908).
40 Tra i tanti lavori orientalisti di Méliès citiamo almeno: Vente d’esclave au harem (1897); Cleopatre (1989); La vengeance du Bouddha (1901); Le Palais des Mille et Une Nuits (1905). In generale sul cinema di Méliès consigliamo, tra
i tanti testi a disposizione, A. Costa, La morale del giocattolo. Saggio su Georges Méliès, Bologna, Clueb, 1989.
41 Sull’orientalismo nel cinema muto si possono trovare diversi interventi, in modo particolare per quanto riguarda il
cinema americano. Rimandiamo per una serie più approfondita di riferimenti alla bibliografia della tesi presente alla fine del volume. Qui possiamo ricordare solo alcuni titoli che riteniamo fondativi degli approcci più comuni nella pubblicistica cinematografica: G. Marchetti, Romance and the “Yellow Peril”. Race, Sex and Discursive Strategies in
Hollywood Fiction, Berkeley, University of California Press, 1993; N. Browne, Orientalism as an Ideological Form. American Film Theory in the Silent Period, «Wide Angle», Vol. 11, n. 4, 1989, pp. 23-31. Ci pare utile anche ricordare:
M. Richardson, Otherness in Hollywood Cinema, New York, Continuum International Publishing Group, 2010; A. di Luzio, “East is East and West is West, and never the twain shall meet. L’immaginario esotico e orientale nei modelli di rappresentazione del cinema muto”, in G. Franci, M. G. Muzzarelli (a cura di), Il vestito dell’altro. Semiotica, arti,
convergenza d’interessi tra esigenze di profitto dell’industria (da qui la configurazione dei film in generi, l’economia della filiera, la formazione del divismo, ecc.) e domanda d’intrattenimento attrazionale42 dello spettatore (almeno in parte di natura escapista). In questo crocevia si consuma
una sfida per rendere «visibile», e dunque riconoscibile e condivisibile, un universo dai tratti perturbanti, suadenti, sfuggevoli.
Si è accennato poc’anzi alle dinamiche di genere e non lo si è fatto per caso. Come spiega Rick Altman, uno degli studiosi di cinema più autorevoli in materia, il genere non è «una categoria che si presta a un’identificazione chiara e stabile» ma, al contrario di quanto generalmente si crede, è «un termine polivalente, valorizzato in modo diverso da diversi gruppi di utenti […] in un’arena in cui gli [stessi] utenti, con interessi divergenti, sono in competizione per portare a termine i propri programmi»43. Vale a dire che la responsabilità di elaborazione e di ri-definizione continua del
genere non spetta ai soli registi, ma coinvolge «molteplici utenti […], non solo svariati gruppi di spettatori, ma [anche] produttori, distributori, esercenti, agenzie culturali e molti altri ancora»44. E
per spiegare bene il senso di questa competizione, forse non a caso, Altman recupera e riadatta una metafora orientalista coniata da de Certeau a proposito dell’attività ermeneutica dei lettori, considerati, dal gesuita francese, alla stregua di «nomadi che praticano il bracconaggio […], razziando i beni d’Egitto per trarne godimento»45. Scrive Altman:
I racconti delle tribù predatrici sulle rive meridionali del Nilo potrebbero apparire completamente fuori luogo nel discorso sul genere cinematografico eppure i sistemi operano in maniera analoga. Per poter creare nuovi cicli di film i produttori [intendendo il
42 Con la formula «Sistema delle Attrazioni Mostrative», coniato da Tom Gunning e Andrè Gaudreault, si definisce
generalmente il cinema delle origini o dei «primi tempi» (dal 1895 ai primi anni del Novecento), epoca in cui i film, di breve durata e girati spesso con una sola inquadratura, erano proiettati all’interno di spettacoli di varietà, alternati a numeri e attrazioni di varia natura (numeri di magia, vaudeville, esibizioni musicali, ecc.). Molti studiosi, facilitati anche dall’utilizzo del medesimo termine nel corpus teorico di Ejzenštejn, hanno ipotizzato che questo carattere mostrativo, quasi mitologico (si pensi al mito della caverna di Platone), barbaro diceva Pasolini, sia come iscritto nel corredo genetico di questo linguaggio espressivo, indipendentemente poi dai suoi sviluppi nell’ambito della narrazione per immagini. A tal proposito si veda: A. Gaudreault, T. Gunning, “Le Cinéma des premier temps. Un défi a histoire du film?” in J. Aumont, M. Marie (a cura di), Histoire du cinéma. Nouvelles approches, Parigi, Publications de la Sorbonne, 1989, pp. 49-63; T. Gunning, “The Cinema of Attractions. Early Cinema. Its Spectator and the Avant Garde” in T. Elsaesser (a cura di), Early Cinema. Space, Frame, Narrative, Londra, BFI, 1990, pp. 56-62.
43 R. Altman, Film/Genre, Londra, British Film Institute, 1999 (tr. it. Film/Genere, Milano, Vita & Pensiero, 2004, pp.
324-325).
44 Ivi, p. 317.
45 «I lettori sono dei viaggiatori; circolano su territori altrui, come nomadi che praticano il bracconaggio attraverso
pagine che non hanno scritto, razziando i beni d’Egitto per trarne godimento», M. de Certeau, L’invention du quotidien
sostantivo in un senso allargato che abbraccia varie categorie di persone, quelle sopra elencate. nda] devono attribuire nuovi aggettivi ai generi sostantivali esistenti. Così facendo i
produttori ‘espropriano’ precisamente il territorio precostituito del genere. Seppur senza autorizzazione, l’attività di differenziazione del prodotto s’insedia spesso in un nuovo genere, che diviene immediatamente soggetto a ulteriori incursioni da parte dei nomadi. Cicli e generi, nomadi e civiltà, incursioni e istituzioni, frodatori e proprietari – sono tutti parte del processo di rimappatura in corso che, a fasi alterne, mette in moto e fissa la percezione umana46.
L’ipotesi di Altman ha il merito di sottolineare il carattere provvisorio, instabile e mutevole del visibile, non solo quando viene applicato al sistema dei generi, ma anche quando coinvolge insiemi più larghi o meno codificati di immagini e immaginari come quello orientalista. Nel caso dei film da noi presi in esame, infatti, la dimensione di sorpresa e straniamento che solitamente tali film cercano di costruire (una sorpresa che non è per forza sinonimo di registro fantastico o favolistico, ma può anche statuirsi attraverso la messa in scena di una diversità etnografica o di una realtà fenomenologica apparentemente incomprensibile), per non esaurirsi in poco tempo, deve predisporre una continua attività di recadrage, ovvero di ri-generazione dell’immaginario orientale nelle mappe di senso del cinema. Lo ricorda, una volta ancora, Sorlin quando scrive che «il visibile è ciò che i fabbricanti di immagini cercano di captare per trasmetterlo e ciò che gli spettatori accettano senza stupore»47. Nel caso del cinema che racconta e mette in scena l’Oriente, nel quale
quindi lo sbigottimento e il meraviglioso sono un elemento imprescindibile, il visibile deve «istituzionalizzare» la diversità, deve cioè elaborare un mondo plausibile in quanto diverso, familiare perché totalmente «altro» rispetto all’esperienza comune dello spettatore (da qui forse le ragioni dell’estrema improbabilità di certe scenografie orientaliste). Si comprende bene quale sia la dinamica conflittuale in opera, quella che mette di fronte – tanto per riproporre l’immagine di de Certeau/Altman – comunità stanziali da una parte e bracconieri nomadi dall’altra. Affinché resti tale la sensazione di stupore e spaesamento che i gruppi di utenti richiedono e consumano (nel vero senso della parola) continuamente (dal primo giro di manovella del cinematografo, all’ultima notte degli Oscar), è necessario insomma che il visibile orientalista non metta mai radici, non sia il frutto stantio di rappresentazioni ripetute uguali, ma che sia a propria volta spaesato e minacciato,
46 Altman, op. cit., p. 321. 47 Sorlin, op. cit., p. 68.
territorio aperto alle incursioni di altre comunità di nomadi che invadono e modificano l’esistente. Un’«alterità» un poco più «altra» dell’«alterità» già codificata.
Studiare le rappresentazioni delle culture alloglotte, specie di quelle che portano con sé un immaginario culturale radicato e allignato a centinaia e centinaia di precedenti rappresentazioni, significa in altre parole doversi muovere all’interno di un ambito di studio magmatico, apparentemente fisso ma in continuo lento divenire. In tale frangente i caratteri della visibilità o della mostrazione, propri delle forme di racconto per immagini, rappresentano il luogo di confluenza (e di confidenza) in cui può realizzarsi l’incontro tra l’autorità che realizza e allestisce la rappresentazione e l’autorità – perché di autorità sempre si tratta – che la fruisce, la consuma, la rielabora. Può essere utile in tal senso convocare, e adattare al nostro discorso, le teorie di Roger Odin sulla semio-pragmatica adattata ai processi di finzionalizzazione del cinema e degli audiovisivi. Com’è noto, per il teorico francese, è necessario considerare il bacino di significati di un film come il risultato delle pratiche di relazione, non per forza dirette o subordinate, tra un emittente e un ricettore, due figure/funzioni che si muovono secondo procedure e strategie ermeneutiche indipendenti, anche se scelte tra quelle a loro disposizione nello spazio sociale che vivono e di cui, beninteso, sono anch’essi il prodotto. «Non c’è vera comunicazione tra l’autore e lo spettatore», sostiene Odin, perché non esiste un processo univoco di «trasmissione di un testo da un emittente a un ricevente ma [c’è] un doppio processo di produzione testuale: l’uno nello spazio della produzione e l’altro nello spazio della lettura»48. Collocati in alvei discorsivi separati, ricettore e enunciatore
possono soltanto cercare di capirsi, di comprendersi, ma alla lontana:
A prima vista il lettore può far funzionare qualsiasi modo rispetto a qualsiasi tipo di produzione; in realtà la costruzione testuale è sempre sottomessa a regole che limitano più o meno questa possibilità. Oltre le regole interne al testo (meno importanti di quanto si ritenga in genere) il lettore è il punto di passaggio di un fascio di determinazioni che regge, in gran misura, il modo in cui esso produce senso e affetti: determinazioni linguistiche, culturali, psicologiche, istituzionali, ecc. Queste determinazioni giocano un ruolo comunicazionale essenziale: più le determinazioni che influenzano lo spazio della ricezione si avvicinano alle determinazioni che influenzano lo spazio della produzione e più vi è possibilità che le costruzioni testuali messe in opera dall’attante-lettore si avvicinino a quelle effettuate dall’attante-regista, e che, dunque, i due attanti si comprendano;
48 R. Odin, De la fiction, Bruxelles, De Boeck Université, 2000 (tr. it. Della finzione, Milano, Vita e Pensiero, 2004, p.
all’opposto, più queste determinazioni sono differenti e più i testi prodotti in ciascuno dei due spazi differiranno49.
Rispetto alla posizione di Sorlin e di Altman, quella di Odin aggiunge un fattore di complessità al processo comunicativo che stiamo iniziando a valutare, ma in un’ottica di soluzione (parziale) delle aporie. Se, infatti, la rappresentazione orientalista o esotica, per essere tale, deve «istituzionalizzare lo stupore» ovvero rendere l’alterità familiarmente altra (Sorlin) e se in tale complessa dinamica negoziale, agisce comunque un fenomeno di lento e continuo confliggere tra configurazioni conservative dell’esistente culturale e altre trasformative (Altman), è altresì vero che l’orizzonte ricettivo in cui collocare tale disputa può assorbire queste improvvise asincronie o disequilibri in modo da gestire il processo di negoziazione e di trasformazione analizzato, specie quando si verificano significativi cambi di paradigma o di esperienze tra chi produce e chi fruisce una particolare testo. In altre parole, se il concetto di «visibile» e se la logica di «genere» restituiscono un’idea di progressiva e tutto sommato indolore taratura (récadrage) tra costrutti e fenomeni, di contro la semio-pragmatica apre le porte a una dinamica significante irregolare, scomposta, disseminata e disequilibrata che trova equilibrio soltanto in un particolare e assolutamente precario «spazio di comunicazione», modellizzato però da chi si rende responsabile di una particolare speculazione o di una interpretazione50. In questo spazio è possibile far convergere le esigenze e le
priorità dell’enunciatore e del ricettore, i quali appartengono a campi discorsivi autonomi, ma si
49 Odin, op. cit., p. XXIX. Di Roger Odin può essere utile recuperare il percorso teorico da lui stesso definito «semio-
pragmatico» che lo studioso francese non a caso associa allo studio parallelo di altre modalità di diffusione del cinema, all’esterno dei canali tradizionali della sala come il cinema amatoriale, quello didattico, il videoclip, il cinema d’animazione, il documentario politico-istituzionale, etc. Cfr. R. Odin, Pour une sémio-pragmatique du cinéma, «Iris», n. 1, 1983, pp. 67-81; Id., La sémio-pragmatique du cinéma sans crise ni désillusion, «Hors Cadre», n. 7, 1989, pp. 77-92; Id., Le film de famille. Usage privé, usage public, Parigi, Éditions Méridiens Klincksieck, 1995; R. Odin (a cura di), Le
cinéma en amateur, «Communications», n. 68, Parigi, Seuil, 1999.
50 Come già ricordato nel capitolo introduttivo, l’approccio semio-pragmatico, che Odin ha continuato a ritarare e
riconfigurare nel corso di tutta la sua carriera, ha trovato una recente e ultima configurazione nella teoria degli «spazi di comunicazione» dentro i quali inserire i discorsi sul film e più in generale su ogni oggetto comunicativo. Con «spazio di comunicazione», il teorico francese intende «lo spazio all’interno del quale [un] fascio di determinazioni spinge gli attanti a produrre senso sullo stesso asse di pertinenza». Si tratta di un’ipotesi di lavoro che tenta di «impoverire» il paesaggio comunicativo da tenere in considerazione «modellizzando» in modi arbitrari il contesto, con lo scopo di rendere effettiva la possibilità di un dialogo o di una speculzione. Il contesto, per Odin, è infatti una «nozione fluida che copre un insieme eterogeneo se non eteroclito di determinazione (insieme impossibile da padroneggiare nel discorso analitico) […] mentre lo spazio di comunicazione è una costruzione effettuata dal teorico. […] È il teorico a scegliere l’asse di pertinenza che assicura la coerenza dello spazio di comunicazione sul quale lavorerà o che utilizzerà come strumento analitico» Cfr. R. Odin, Les Espaces de communication. Introduction à la sémio-pragmatique, Grenoble, Presses Universitaires de Grenoble, 2011 (tr. it. Gli spazi della comunicazione. Introduzione alla semio-pragmatica, Bologna, Editrice La Scuola, 2013, pp. 48-50) (corsivi dell’autore).
vedono costretti a basculare in perimetri di senso contigui e in parte interdipendenti, purché tali relazioni di contatto avvengano nel «fuori-film» e non solo al suo interno, ovvero negli spazi abitati dagli attori della comunicazione, basandosi su processi di comprensione e integrazione emotiva, sociale o economica tra di essi. Grazie a tale approccio, Odin valorizza le forme aporistiche di questo tipo di relazioni, consentendo all’istituzione, all’autorità, al sapere/potere (imperialista) di dispiegarsi nel tempo e nello spazio dei significati e dei significanti, senza il dovere/potere di una intenzionalità