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Il viaggio nel Vicino, Medio o Estremo Oriente (qui per ora considerate semplicemente come approssimative estensioni geografiche) ha rappresentato per molti cineasti europei del dopoguerra un’esperienza di vita e professionale importante, quasi irrinunciabile: Roberto Rossellini, Fritz Lang, Jean Renoir, Pier Paolo Pasolini, Louis Malle, Michelangelo Antonioni (e molti altri loro colleghi meno noti) hanno girato film di finzione, documentari o film sperimentali in India. Lo stesso Antonioni è stato in Cina all’inizio degli anni Settanta dove ha realizzato un documentario televisivo per la Rai, come analogamente avevano fatto qualche anno prima Chris Marker o Carlo Lizzani e come farà qualche tempo dopo Joris Ivens, Bernardo Bertolucci (ma anche Shirley MacLaine e Giuliano Montaldo). Marker, nel corso di una lunga carriera fatta di vagabondaggi, giunge con la macchina da presa in Siberia e in Giappone, mentre lo stesso Ivens gira in Indonesia, in Laos e in Vietnam. Nell’arcipelago nipponico atterrano, nel dopoguerra, per realizzare film di varia caratura e registro, anche Josef von Sternberg, Alain Resnais e più tardi lo fa Wim Wenders e, nell’ambito della videoarte, Bill Viola. Alain Robbe-Grillet lavora invece su commissione in Turchia, Agnès Varda in Iran, Werner Herzog in Iraq, più recentemente in Tibet, oltre a vantare esperienze in Australia e, soprattutto, in Africa, quest’ultimo continente calcato anche da personalità come Pasolini, Jean Rouch, Gillo Pontecorvo, Jean Marie Straub e Danièle Huillet.

Torneremo con maggiori dettagli su tutti questi film nelle prossime pagine. Intanto è bene ricordare che essi si fissano – inseriti come sono all’interno di un quadro di generale passione per il cinema proveniente da cinematografie allora considerate «emergenti»1– come tappe fondamentali

1 La passione e l’interesse per le cinematografie asiatiche trova conferme anche nell’ammirazione dei giovani turchi per il

cinema nipponico e, qualche anno dopo, della critica tutta per cinematografie che vengono «scoperte» con spirito pionieristico e entusiasmo cinéphile. Negli stessi anni dei viaggi in Asia ricordiamo, infatti, che ottengono rilevanti riconoscimenti i film firmati dai maestri del cinema asiatico (Mizoguchi, Kurosawa, Oshima, Imamura in Giappone, Ray negli anni Settanta in India), mentre iniziano a comparire nelle lingue europee i primi studi sistematici su queste e altre confinanti cinematografie. Si veda a proposito il lavoro di Burch per il cinema giapponese (To The Distant

Observer, Berkeley, University of California Press, 1979), Casiraghi (Il cinema cinese, questo sconosciuto, Torino,

nei rispettivi percorsi artistici. Per restare solo a quelli realizzati nel continente asiatico, basterà ricordare che per Rossellini la realizzazione di India Matri Bhumi (1959) e di L’India vista da

Rossellini (1959) segna il passaggio dalla stagione del polittico bergmaniano (i film in cui è

protagonista la moglie Ingrid Bergman come Stromboli terra di Dio del 1950, Europa ‘51, del 1952,

Siamo donne e Viaggio in Italia entrambi del 1953) a quella delle sperimentazioni cinematografiche e

televisive di stampo didattico, storico, divulgativo (Viva l’Italia, 1961, L’età del ferro, 1964 La presa

del potere da parte di Luigi XIV, 1966, ecc.). Per Pasolini, Appunti per un film sull’India cade nel

corso del fatidico 1968 e, insieme agli altri appunti e documentari di quegli anni (Comizi d’amore, 1963-64, Sopralluoghi in Palestina, 1965, Appunti per un’Orestiade Africana, 1970) va a costituire un corpus importante di cinema d’inchiesta sociale, politica, in qualche modo etnografica. Da par suo, Marguerite Duras, che non viaggia in Asia ma che è nata e cresciuta nell’Indocina francese, dedica alla penisola indiana non solo alcune sue celebri pellicole (India Song, 1975 e Son nom de Venise

dans Calcutta desert, 1976), ma anche romanzi e opere teatrali, tanto che il cosiddetto «ciclo

sull’India» si presenta come una delle colonne portanti della sua poetica transtestuale. Per Louis Malle, l’esperienza indiana sarà determinante ai fini del superamento di una serie di impasse artistico/produttive e soprattutto di carattere personale (il breve e turbolento matrimonio con l’attrice Anne-Marie Deschodt), prefigurando il successivo trasferimento di lavoro negli Stati Uniti nei primi anni Settanta. Per quanto riguarda Chung Kuo - Cina (1972) di Antonioni, è sufficiente ricordare che appartiene al periodo «nomade» del regista ferrarese (insieme a Blow Up, 1966,

Zabriskie Point, 1970 e Professione Reporter, 1975), al cui interno il Paese di Mezzo rappresenta la

meta più lontana e più «esotica» tra quelle toccate dalla sue peregrinazioni in terre straniere. È fin troppo noto il legame tra Ivens e i paesi asiatici, in particolar modo la Cina. Egli compie nel corso della sua settantennale carriera diversi viaggi in Cina e qui firma un documentario di guerra (The

400 Million, 1939), due brevi lavori in collaborazione con gli studenti dell’Accademia del cinema di

Pechino (Letters from China e The War of the 600 Million People, 1958), e soprattutto una delle sue opere più importanti e monumentali (Comment Yukong déplaça les montagnes, 1975), cui si aggiunge il suo ultimo film testamentale (Une Histoire de Vent, 1988). Lo sguardo della sua macchina da presa contiene scorci, vedute, racconti che provengono da tutto il Sud-Est asiatico che lotta per decolonizzarsi: eccolo allora calcare territori di guerra «sconosciuti» e «invisibili» all’opinione

pubblica europea come quelli del Laos (Le Peuple et ses fusils, 1970) o dell’Indonesia (Indonesia

Calling, 1946), o quelle fin troppo conosciute come il Vietnam, che visita e documenta durante le

fasi più cruente della guerra contro l’invasione statunitense (da qui i materiali per Le Dix-Septième

Parallèle, 1968 e per Loin du Vietnam, 1967). Chris Marker, dal canto suo, svela l’ascendente per il

Far East sia in Dimanche à Pékin (1955), sia in Lettre de Sibérie, sia soprattutto nei «giapponesi» Le

mystère Koumiko (1964), Sans soleil (1983), A.K. (1985), Tokyo Days (1988), Level Five (1997).

Dall’elenco di titoli sarà facile evincere come il Giappone, nonostante i tanti viaggi compiuti da regista ai quattro angoli della terra (Marker, come Varda e Ivens, è stato a Cuba, poi in Cile, in Corea) può certamente essere considerato come la sua seconda patria, o meglio ancora come il suo «dépays», dal titolo di un libro di fotografie che pubblica negli stessi anni di Sans soleil2.

Quelli citati – ça va sans dire – non sono i soli occidentali che viaggiano lungo l’immenso continente asiatico in questi stessi anni. Considerato che non è nelle nostre possibilità, né nei nostri obiettivi, delineare un quadro esaustivo delle tante esperienze odeporiche che coinvolgono artisti o intellettuali europei o americani, qui ci accontentiamo di ricordarne alcuni tra i tanti menzionabili, per dare un quadro più ampio possibile all’interno del quale inserire le produzioni appena citate. Pensiamo ai viaggi (e alle relative opere artistiche o letterarie nate da quelle esperienze) degli italiani Alberto Moravia3, Antonio Tabucchi4, e qualche anno dopo di Gianfranco Rosi5, Bernardo

Bertolucci6, Giorgio Manganelli7, Giuliano Montaldo8; tra i francesi citiamo, tra gli altri, Armand

2 C. Marker, Le Dépays, Parigi, Herscher, 1982.

3 Tra i tanti saggi o diari di viaggio che Moravia ha pubblicato nel corso della sua carriera ricordiamo, perché

documentano esperienze odeporiche asiatiche, Un’idea dell’India (Milano, Bompiani, 1961) e La rivoluzione culturale in

Cina ovvero il convitato di pietra (Milano, Bompiani, 1967), Viaggi. Articoli 1930-1990 (Milano, Bompiani, 1994) dove

sono raccolte alcune delle corrispondenze redatte dallo scrittore per il «Corriere della Sera», tra cui si annoverano quelle da Gerusalemme, Beirut, Aleppo, Homs, Palmira, Damasco, dall’Egitto (nel 1954), dall’Iran (nel 1958), dallo Yemen (nel 1962), dallibia e dalla Tunisia (nel 1963), da Kabul (nel 1964), dal Marocco (nel 1965) dal Sahara (nel 1976), dall’Arabia e dall’Iran (nel 1977) dalla Siria (nel 1985) e da Baghdad (nel 1987).

4 Cfr. A. Tabucchi, Notturno indiano, Palermo, Sellerio, 1984.

5 Il riferimento in questo caso è al documentario di Rosi The Boatman (Italia, 1993), girato a Benares, al contatto con il

popolo di pellegrini e dei battellieri, di coloro che vivono nelle acque del fiume Gange. Sul film, di cui parleremo solo marginalmente nel corso dello studio, si rinvia a: Carmelo Marabello, Materia indiana, memoria di immagine. Materia

africana, memoria di immagine. The Boatman, o dell’antropologia effettuale, «La ricerca folklorica», n. 57, aprile 2008, pp.

79-86.

6 Il nome di Bernardo Bertolucci, in relazione ai suoi viaggi di lavoro in Asia, è strettamente legato a due celebri

lungometraggi: il primo è L’ultimo imperatore (1987), il secondo Il piccolo Buddha (1993), anche se si dovrebbero contare anche i cortometraggi Videocartolina dalla Cina (1985), breve montaggio dei sopralluoghi per L’ultimo

imperatore svolte dal regista e il più recente Histoire d’Eaux, inserita nell’opera collettiva Ten Minutes Older – The cello

Gatti9, Renée Dumont10, Paul Ricœur11, Jean-Paul Sartre12, Roland Barthes13, Nicolas Bouvier14,

Claude Roy15,Michel Leiris16, Peter Levi17; tra gli inglesi o gli americani almeno Allen Ginsberg18,

Terry Riley19, Philip Glass20, John Cage21, Bill Viola22, Leslie Thornton23, Marie Menken24, James

7 Si vedano in particolare i reportage di viaggio pubblicati per celebri giornali italiani («Il Mondo», «L’Espresso», «Il

Messaggero») Cina e altri orienti, (Milano, Bompiani, 1974), L’esperimento con l’India (Milano, Adelphi, 1992),

L’infinita trama di Allah. Viaggi nell’Islam, 1973-1987 (Roma, Quiritta, 2002).

8 Sua è la firma registica di uno dei più importanti sceneggiati prodotti dalla Rai negli anni Ottanta, in collaborazione

con molti canali televisivi internazionali (compreso quello di stato cinese), vale a dire Marco Polo (1982), otto puntate per un totale di 450 minuti di film dedicate al celebre viaggiatore veneziano.

9 A. Gatti, Chine, Parigi, Seuil, 1968.

10 R. Dumont, Chine surpeuplée, tiers-monde affamé, Parigi, Seuil, 1965.

11 P. Ricoeur, Certitudes et incertitudes d’une révolution, «Esprit», Vol. 24, n. 1, Gennaio 1958, pp. 5-28. 12 H. Cartier-Bresson, J.-P. Sartre, D’une Chine à l’autre, Parigi, Robert Delpire, 1954.

13 R. Barthes, L’Empire des signes, Ginevra, Skira, 1970 (tr. it. L’impero dei segni, Einaudi, Torino, 1984); R. Barthes, Alors La Chine. Carnets du voyage en Chine, Parigi, C. Bourgois, 1975 (tr. it. I carnet del viaggio in Cina, O barra O

edizioni, 2010).

14 N. Bouvier, L’Atlas des Voyages. Japon, Losanna, Éditions Rencontre, 1967; Id., Chronique japonaise, Losanna, Payot,

1975 (tr. it. Il suono di una mano sola. Cronache giapponesi, Reggio Emilia, Diabasis, 1999), Id., Le Vide et le plein

(Carnets du Japon, 1964-1970), Parigi, Éditions Hoëbeke, 2004.

15 C. Roy, Clefs pour la Chine, Parigi, Gallimard, 1953 (tr. it. Introduzione alla Cina, Milano, Feltrinelli, 1956). Si

vedano anche i diari e i reportage: Id., La Chine dans un miroir, Parigi, La Guilde du Livre, 1952; Id., Le journal des

voyages (Parigi, Gallimard, 1960) e Id., Sur la Chine (Parigi, Gallimard, 1979).

16 Di Leiris, su cui torneremo diverse altre volte nel corso di questo studio, ricordiamo almeno M. Leiris, Fourbis,

Gallimard, 1955, (tr. it. Carabattole, Torino, Einaudi, 1998); Id., L’Afrique fantôme, Parigi, Gallimard, 1934 (tr. it.

L’Africa fantasma, Milano, Rizzoli, 1984); Id., L’occhio dell’etnografo. Razza e civiltà e altri scritti 1929-1968, Torino,

Bollati Boringhieri, 2005.

17 P. Levi, The Light Garden of the Angel King. Journeys in Afghanistan, Harmondsworth, Penguin, 1984 (tr. it. Il giardino luminoso del re angelo. Un viaggio in Afghanistan con Bruce Chatwin, Torino, Einaudi, 2003). Sul viaggio in

Afghanistan dei due scrittori si veda M. Tosi, F. La Cecla, Bruce Chatwin. Viaggio in Afghanistan, Milano, Bruno Mondadori, 2000.

18 A. Ginsberg, Indian Journals. March 1962-may 1963. Notebooks, Diary, Blank Pages, Writings, San Francisco, Dave

Haselwood Books, 1970 (tr. it. Diario indiano. 1962-1963, Roma, Arcana, 1979).

19 Tra le molte composizioni ispirate alla musica indiana e parsi segnaliamo almeno Persian Surgery Dervishes (1972), Descending Moonshine Dervishes (1975), Shri Camel (1978).

20 Si veda in particolare la sonata per pianoforte Trilogy composta dalle tre composizioni Einstein, Sathyagraha e Akhnaten, composte rispettivamente nel 1975, 1979 e 1983. Per un’introduzione all’opera del musicista si veda A.

Rigolli, Philip Glass. L’opera, tra musica e immagine, Milano, Auditorium Ed., 2003. Sulle influenze della musica indiana nella musica minimalista si veda invece: K. Potter, Four musical minimalists. La Monte Young, Terry Riley, Steve Reich,

Philip Glass, Cambridge, Cambridge University Press, 2000.

21 Sugli influssi della cultura e della musica orientale nell’opera di Cage si veda in particolare: M. Porzio (a cura di), Metafisica del silenzio. John Cage, l’Oriente e la nuova musica, Milano, Auditorium, 2008.

22 Si vedano in particolar modo Hatsu Yume (Usa/Giappone, 1981) e I Don’t Know What It Is I Am Like (Usa, 1986) 23 Il riferimento è in particolar mdo a Adynata (Usa, 1983).

Ivory25, senza contare il messicano Octavio Paz26, il tedesco Günter Grass27, il polacco Ryszard

Kapuściński28 o il svizzera Ella Maillart29.

Arrestiamo l’ennesimo fuoco di fila di nomi (e in nota di titoli e di date) perché quantunque non possa essere minimamente esaustivo ha raggiunto dimensioni tali per ergersi a «materiale propedeutico» all’impostazione metodologica di questo studio, dacché restituisce, per flash e sintomatiche illuminazioni anche in ambito artistico/letterario/figurativo/musicale, quel complesso interconnettersi di esperienze, discorsi e pluri-rappresentazioni delle alterità (in questo caso asiatiche) che spinge a ipotizzare l’avverarsi, in questo passaggio storico, di un cambio di paradigma e di una trasformazione degli schemi cognitivi applicati alle pratiche (inter)culturali traduttive. Il pantheon sopra descritto, unito alla cronologia di fatti e di eventi richiamati nello scorso capitolo (con cui è inestricabilmente legato), rappresenta infatti una sorta di convitato di pietra di questo studio, o se si preferisce, il fondale sempre presente – anche se non sempre messo a fuoco – di un paesaggio che cercheremo di descrivere, dettagliare, perimetrare più avanti. La convocazione di questo fondu serve per ora a premunirci dai rischi sempre presenti cui s’incorre quando si cerca di statuire degli insiemi omogenei, ovvero dai confini impermeabili e definiti, di realtà complesse, di fenomeni sfuggenti e stratificati, di modulazioni irregolari dei materiali di partenza: i pericoli non sono solo quelli «classici» delle discipline dell’incontro, vale a dire la riduzione essenzialista delle diversità, sacrificate sull’altare di utopiche quanto inutili coerenze, semmai quelli che si generano quando si deve gestire una mole esorbitante di dati, di sollecitazioni culturali, di questioni epistemologiche o di nessi e interrelazioni sinaptiche. Queste ultime se su un versante meriterebbero di essere messe in dialogo tra loro, sull’altro, qualora si cedesse alla tentazione computazionale,

25 Ivory è uno dei cineasti statunitensi che ha dedicato un grande numero di film e di documentari al subcontinente

indiano, girando spesso in loco con attori indiani. Segnaliamo almeno in nota The Householder (1963), The Delhi Way (1964), Shakespeare Wallah (1965), The Guru (1969), Bombay Talkie (1970), A Passage to India (1986) un corpus di titoli molto interessanti che varrebbe la pena poter studiare se non fosse estraneo ai perimetri di ricerca che ci siamo dati.

26 O. Paz, Vislumbres de la India. Barcellona, Seix Barral, 1995 (tr. it. In India, Parma, Guanda, 2001).

27 G. Grass, Zunge zeigen. Ein Tagebuch in Zeichnungen, Darmstadt, Prosa und einem Gedicht, 1988 (tr. it. Mostrare la lingua, Torino, Einaudi, 1989).

28 R. Kapuściński, Szachinszach, Varsavia, Czytelnik, 1982, (tr. it. Shah-in-shah, Milano, Feltrinelli, 2001).

29 E. Maillart, Des Monts Célestes aux Sables rouges, Parigi, Editions Bernard Grasset, 1934 (tr. it. parz. Vagabonda nel Turkestan, Torino, EDT, 1995); Id. Oasis interdites. De Pékin au Cachemire, Parigi, Editions Bernard Grasset, 1937 (tr.

it. Oasi proibite - Una donna in viaggio da Pechino al Kashmir, Torino, EDT, 2001); Id., The Cruel Way, Londra, William Heinemann, 1947 (tr. it. La via crudele - Due donne in viaggio dall’Europa a Kabul, Torino, EDT, 2005); Id.,

finirebbero per diventare troppo difficili da elaborare con una certa accuratezza. Insomma, rimandando la giustificazione della scelta alle prossime pagine, qui vogliamo anticipare una prima risoluzione dello studio, quella per cui abbiamo preferito concentrarci su un campo di studi delimitato ai film di viaggio, lasciando in un fuoricampo (spesso significante, influente e attivo) le esperienze analoghe di letterati, artisti, musicisti, uomini di teatro, intellettuali in genere.

Eccoci, dunque, all’argomento precipuo della ricerca. Lo possiamo per ora definire assiomaticamente come il «cinema odeporico modernista europeo» ovvero quell’insieme di esperienze di viaggio e di rappresentazione audiovisiva realizzate in terre asiatiche da cineasti nati nel Vecchio Continente e che vivono da protagonisti quella stagione del cinema che secondo Jacques Aumont si distingue dalla semplice modernità perché è più «risoluta, riflessiva, capace di teorizzarsi da sé, più consapevole della propria posizione in una storia della cultura e in grado di criticarsi per rinforzarsi»30. I film-makers citati a inizio capitolo appartengono, infatti, pur con una certa dose di

approssimazione, a una fase della storia del cinema, che va orientativamente dalla metà degli anni Cinquanta alla fine dei Settanta, caratterizzata dalla proliferazione di nuovi modelli di racconto, nuove modalità di produzione e distribuzione, nuove generazioni di registi, attori e maestranze che si affacciano nell’industria cinematografica mettendosi spesso in contrapposizione con i modelli, le forme, le generazioni precedenti. Se si collegano le loro parabole professionali alla situazione storico- sociale che vive l’Europa in quegli stessi anni, possiamo dire che i registi odeporici che qui studiamo abbracciano quasi tutti l’idea di un cinema militante, socialmente attivo, educativo, condividono posizioni progressiste quando non radicali e comuniste, partecipano alle battaglie civili, politiche e sociali che scoppiano in quasi tutte le capitali europee, specialmente sul finire degli anni Sessanta. Quando si mettono in viaggio, lo fanno spesso per sperimentare nuovi confini d’azione, per conoscere paesi e società lontane e/o minacciate dall’omologazione del capitalismo imperante, per parteggiare per chi è protagonista di lotte contro il colonialismo o di rivoluzioni che cercano di sovvertire l’ordine costituito (si pensi al caso di Cuba, alla lotta contro il franchismo in Spagna, alle rivoluzioni in Egitto o in Algeria o in Cina). Quasi tutti sono portavoce – più o meno direttamente – di una critica aspra e radicale nei confronti delle politiche belligeranti ed espansive dei rispettivi

30 J. Aumont, Moderne? Comment le cinéma est devenu le plus singulier des arts, Parigi, Éditions des Cahiers du cinéma,

paesi di origine, osservano con simpatia al costituirsi di comunità che si pongono in alternativa agli schemi della vita familiare/patriarcale tradizionali (ad esempio le comuni, i collettivi, i kibbutz, gli

ashram), studiano con curiosità e metodo altri modelli per vivere la spiritualità.

La loro partecipazione ai destini di culture e popolazioni lontane va inquadrata, ovviamente, in una più ampia battaglia sociale, culturale e politica che, in Europa come negli Stati Uniti, segue un doppio risvolto di partigianeria. Da una parte i movimenti giovanili, artistici, politici di cui alcuni dei registi qui considerati sono rappresentanti di primo piano, ritagliandosi spazi di polemica, agitando ideologie e convinzioni ferree, affermando diritti negati e manifestando in piazza contro istituzioni giudicate retrive (partiti, esercito, scuola, ecc…), si fanno portatori di verità insindacabili, di posizioni politiche non concilianti, di identità sociali risolute. Sono, in poche parole, dei movimenti «assertivi». Dall’altra parte, questi stessi gruppi, nel parcellizzarsi in mille e più esperienze movimentiste, restituiscono l’idea di un forte disorientamento se non ideologico, certamente culturale e in fondo anche individuale-esistenziale, che conduce i singoli a una ricerca continua, talora un po’ confusa, di modelli alternativi di comportamento, di esperienze di vita qualificanti, di momenti di auto-indagine. Sono movimenti assertivi che possono dunque produrre percorsi individuali «dubitativi». I cineasti che abbiamo scelto di studiare assimilano questo mood controverso. Ivens, Marker, Pasolini, Antonioni, Malle, Varda, Rouch, Herzog partono per i quattro angoli della terra in prima battuta per conoscere e poi per affermare il diritto alla rappresentazione, alla partecipazione, alla parola delle nuove società che si affacciano sul panorama geopolitico internazionale (o delle vecchie società che resistono ai modelli consumistici imposti dalla mondializzazione); contemporaneamente questo disperdersi in mille luoghi e in mille viaggi individuali, spesso solitari, risponde a un sentimento di spaesamento che nasce anche dal fatto che non sempre le realtà in cui essi si immergono rispondono agli immaginari e alle attese coltivate al momento della partenza. Come vedremo più avanti, i luoghi visitati si riveleranno inafferrabili, a loro volta sfuggenti e inconoscibili, costringendo i registi-viaggiatori a lavorare con metodologie inedite, a convivere con obblighi e costrizioni imprevisti, a riposizionare la propria presenza e a rivedere le pratiche di relazione con il fenomenico. Spesso ne scaturiscono prodotti non-(ri)finiti, che prendono la forma di appunti sparsi, di diari di viaggio, di lettere interrotte, di montaggi,

rimontaggi o ultra-montaggi, di immagini de-narrativizzate o giochi sperimentali, dove predominano i caratteri dell’instabile, dell’indeterminato (vedi cap. 14).

Così dispiegandosi, i testi sembrano significare oltre (e persino contro) il loro stesso volere, raccontandoci – questa è una delle ipotesi di partenza della presente ricerca – più storie di quante vorrebbero: non solo individuali (relative ai singoli percorsi artistici), ma anche culturali (relative ai principi, agli immaginari, ai propositi sociali veicolati da un periodo storico), linguistiche e morfologiche (relative alle dinamiche di messa in scena e messa in quadro dello sconosciuto), epistemologiche (relative alle reali possibilità di conoscenza dell’alterità offerte dal cinema), figurative/estetiche (relative alla capacità di permearsi di capisaldi e abitudini espressive proprie dei paesi visitati). Storie assertive e dubitative nello stesso tempo, dicevamo. L’insieme di aporie e contraddizioni che i loro viaggi determinano rappresentano un altro aspetto essenziale della presente ricerca. D’altronde vivere il soggiorno all’estero con partigianeria, simpatia, positiva faziosità nei confronti delle culture alloglotte produce una serie di antinomie che oseremmo definire congenite a questo tipo di pratica odeporica e che comunque vale la pena definire fin da principio. In prima battuta – come in parte già accennato – l’insieme di attese positive che spingono i cineasti al viaggio si scontrano, nell’incontro con le nuove realtà, con mezzi cognitivi spesso inadeguati a comprendere e insufficienti a capire. Capiterà a Pasolini, Antonioni, Malle, persino a viaggiatori più avvezzi come Marker o Ivens, di condurre rimodulazioni o ri-negoziazioni delle proprie convinzioni al contatto con l’alterità. Tali rimodulazioni – ed ecco la prima aporia – possono indirizzarsi verso un inaspettato recupero di paradigmi, di categorie del pensiero, di abitudini percettive, di meccanismi standardizzati della decodifica teoricamente biasimati dai viaggiatori: ci riferiamo in particolare all’ingenerarsi di frequenti malintesi, al ricorso agli stereotipi (talvolta inconsapevolmente, talvolta