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Iniziamo con il notare che molti studi di ambito cinematografico prediligono in realtà il lemma «moderno», rispetto a quello di «modernismo», per quanto entrambe le voci, nell’accezione diventata di uso comune, rimandino alla medesima stagione storica, quella delle «nuove onde», del «film d’arte» o ancora più propriamente del «cinema d’autore». In modo particolare, il lemma «moderno» (e talvolta, ma non sempre, quello di «modernismo») ha finito per indicare quei movimenti cinematografici e quei cineasti che si sono affermati intorno agli anni Cinquanta e Sessanta con la comune volontà di rinnovare radicalmente le pratiche dei film di finzione (e quelle del documentario), spesso rigettando i canoni formali e i modelli estetici più diffusi a livello di costruzione degli impianti narrativi, organizzazione della messinscena, scelte discorsive, uso delle

fonti, e così via2. Il moderno, in altri termini, qualifica un episodio una serie di episodi e culturali

che si presentano sotto il carattere della «novità» («nuove onde», «nuovo cinema»…) e che intendono introdurre nel paludato mondo delle narrazioni mainstream degli shock creativi, delle scosse rigeneranti, delle forme radicali di trasformazione. Accanto alla più importante di queste realtà, la Nouvelle Vague francese, sbocciano infatti, più o meno contemporaneamente, il Free

Cinema inglese, il Cinema Nôvo brasiliano, la Nūberu bāgu giapponese, la Nová Vlna cecoslovacca, il Neuer Deutscher Film, ecc…. senza contare l’importante precedente posto del neorealismo italiano. Il

carattere di «novità» di questa stagione riguarda non solo le etichette dei movimenti o le forme da essi adottate, ma anche i modi di produzione e quelli di fruizione dei film: sempre nel medesimo periodo, s’intensificano i discorsi sui film (grazie al saldarsi di una generazione di giovani critici e

cinéphile), i luoghi deputati alla visione (le sale d’essai, le riviste cinematografiche, i cineforum), gli

abiti teorici con cui rileggerli (la filmologia, la prima semiologia, il realismo ontologico); si assegna soprattutto al film uno statuto artistico e al suo regista il riconoscimento del titolo di «autore» (meglio se con la maiuscola) secondo intensità raramente conosciute prima. Nei casi più rilevanti, il film diventa un’opera d’arte, l’intera produzione di un regista un corpus artistico, gli elementi tematici o formali che ritornano di pellicola in pellicola una poetica o volendo una weltanschauung.

Utilizzati in questo modo, il lemma «moderno» e il suo quasi omonomimo «modernismo» servono insomma come marker di periodizzazione storica, indicatori d’insiemi molto ampi ma tutto sommato definibili di film. L’ungherese András Bálint Kovács, in un recente e articolato studio sull’argomento intitolato Screening Modernism: European Art Cinema, 1950-1980, individua

2 A conforto di quanto andiamo dicendo ci limitiamo a segnalare i titoli di alcuni volumi che si sono occupati di

modernità nel cinema. Come vedremo non tutti sono concordi nella periodizzazione che ha finito per essere dominante, scegliendo in alcuni casi (si veda a proposito i testi di Sultanik, Perry e più in generale quelli di area anglosassone) di indicare nel modernismo soltanto la stagione del cinema muto avanguardistico. D. Païni, Le cinéma, un art moderne, Parigi, Seuil, 1994; A. Sultanik, Film, a Modern Art, Bridgewater, Associated University Presses, 1986; A. Abruzzese,

L’occhio di Joker. Cinema e modernità, Roma, Carocci Editore, 2006; R. Armes, The Ambiguous Image. Narrative Style in Modern European Cinema, Bloomington, Indiana University Press, 1976; J. Aumont, Moderne? Comment le cinéma est devenu le plus singulier des arts, Parigi, Ed. Cahiers du cinéma, 2007 (tr. it. Moderno? Come il cinema è diventato la più singolare delle arti, Torino, Kaplan, 2008); M. Puigdevall, Á. Quintana (a cura di), Cinema i modernitat. Les transformacions de la percepcio, Girona, Fundacio Museu del cinema/Ajuntament de Girona, 2008; F. Casetti, L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, Milano, Bompiani, 2005; G. De Vincenti, Il concetto di modernità nel cinema, Parma, Pratiche, 1993; P. Adams Sitney, Moderniste Montage. The Obscurity of Vision in Cinema and Literature,

New York, Columbia Univ. Press, 1990; D. Chateau, Philosophie d'un art moderne. Le cinéma, Parigi, L’Harmattan, 2009; G. Jacob, Une histoire du cinéma moderne, Parigi, Ramsay, 1997; T. Perry (a cura di), Masterpieces of Modernist

Cinema, Bloomington, Indiana University Press, 2006; S. McCabe, Cinematic Modernism: Modernist Poetry and Film,

all’incirca duecentocinquanta pellicole che rispondono a tali caratteristiche, sfidando – anche sul piano quantitativo e compilativo – la fuggevolezza del costrutto, la precarietà insita nella suddivisione temporale e soprattutto l’oggettiva difficoltà di assegnare un profilo di «modernità», di «novità» o di «autorialità» alle centinaia di opere in questo periodo3. Il lavoro di Kovács, d’altronde,

si propone di mappare e tradurre in genealogie e percorsi coerenti questa stagione cinematografica, confermando, rafforzando, forse persino cristallizzando nei fatti, un’impostazione tassonomica che tende a rilevare soprattutto (forse esclusivamente) i caratteri di diversità e di distanza che separano le sperimentazioni modern(ist)e rispetto al cinema classico, in modo particolare quello americano, ignorando gli elementi di contiguità. Essendo tali tratti ormai del tutto storicizzati, ci limitiamo a ricordare alcuni degli elementi che contraddistinguono il cinema moderno, attraverso formule semplificatorie, le stesse che individua Kovács nel suo testo: il profilo alienato e disorientato dei personaggi-flâneur, la perdita di centralità dell’azione, la predilezione per narrazioni enigmatiche, inconcluse, dal finale aperto o dai ritorni ciclici, la frammentazione discorsiva, l’utilizzo di transizioni inattese, destabilizzanti o ellittiche, il minimalismo stilistico, la sostituzione di rapporti concausali tra gli eventi con ampie sezioni di «tempi morti» o di dispersione, l’utilizzo della voce narrante come flusso di una coscienza appartenente al personaggio o al suo «autore», le forme di narrazione saggistica (il cosiddetto film-saggio), la teatralizzazione della finzione, e via discorrendo.

Anche se il testo di Kovács ne è privo, è bene rammentare che la storicizzazione dicotomica (ovvero «moderno» come polarità speculare del «classico») risponde spesso a una più generale disposizione diacronica e ideologica delle pratiche cinematografiche che è stata, almeno in parte, superata. Non è raro, infatti, rinvenire tra le accezioni del «moderno» – meno tra quelle del «modernismo» e vedremo poi perché – un sotto-testo semantico dagli echi hegeliani che vuole il costrutto come determinazione precisa di un percorso a tappe, preceduto da una fase «primitiva» (il cosiddetto «pre-cinema») e da una «classica» (il film hollywoodiano, le «cinéma de papa») ed eventualmente seguito da una «barocca» o «manierista» (il cosiddetto postmoderno). All’interno di tale impostazione «evolutiva», il «moderno» è stato spesso considerato un apogeo, un punto culminante o quantomeno un passo avanti di tipo qualitativo nel percorso di sviluppo della Settima arte. E ciò è avvenuto non tanto in virtù del rinnovamento delle morfologie e per le sperimentazioni

di tipo narrativo/discorsivo/figurativo che abbiamo ricordato (manifestazioni di una vitalità del medium già presenti prima del suo avvento e dopo la sua «fine»), quanto semmai per l’avverarsi di uno statuto di autorevolezza agognato da decenni da studiosi, registi e addetti ai lavori, precedentemente negato e ora finalmente concesso. Con il «moderno» si concretizza, infatti, l’ingresso del cinema nel sistema tradizionale delle arti. E con Deleuze, pochi anni dopo, la Settima arte – proprio grazie alle opere dei registi moderni(sti) – può celebrare il suo accesso anche al campo della filosofia in quanto le viene riconosciuta la capacità di generare concetti e la prerogativa di produrre pensiero4.

Come accennato, l’ipotesi di un’evoluzione progressiva della storia degli audiovisivi (e in genere di tutti i sistemi espressivi) è stata velocemente abbandonata dalle successive teorie che hanno preferito individuare l’accendersi di «fuochi» di modernità (o di «modernismo») in determinati milieu, in vari momenti storici o all’interno di particolari processi configurativi. Ad esempio Aumont, nel suo Moderne? Comment le cinéma est devenu le plus singulier des arts5, riconosce alcuni

di questi passaggi, ma assegna loro un’intensità variabile e li dispiega in tutto il Novecento cinematografico e, in alcuni casi, anche prima6. L’approccio «pluri-puntuale» di Aumont al campo

della «modernità» si dispiega lungo assi semantici e fili discorsivi diversi, talvolta giustapponibili tra loro, altre volte meno: il «moderno» può allora essere considerato come espressione di un’innovazione tecnica (le tecnologie moderne) oppure come capacità di accordarsi a una tendenza, a una moda (uno stile moderno); può essere visto come intensificazione dell’attuale, del contingente,

4 G. Deleuze, L’image-temps, Parigi, Les Editions de Minuit, 1984 (tr. it. L’immagine-tempo. Cinema 2, Milano,

Ubulibri, 1985).

5 J. Aumont, Moderne? Comment le cinéma est devenu le plus singulier des arts, Parigi, Ed. Cahiers du cinéma, 2007 (tr. it. Moderno? Come il cinema è diventato la più singolare delle arti, Torino, Kaplan, 2008).

6 Aumont individua le «incandescenze» in molti momenti della storia del cinema: nell’imporsi stesso del dispositivo

considerato come un mezzo tecnologicamente all’avanguardia, avveniristico; nei contenuti dei primi film uni-puntuali (i cortometraggi dei Lumière come riproposizione per immagini delle caratteristiche di modernità che Benjamin individua nell’opera di Baudelaire)6; negli immaginari e nei miti costruiti dal cinema muto (il culto della velocità e del ritmo, la

predilezione per le «sinfonie» urbane come Chelovek s kino-apparatom di Dziga Vertov o Berlin - Die Sinfonie der

Groβstadt di Walter Ruttmann, l’utopia dell’uomo-nuovo o dell’uomo-macchina come emerge da casi quali Metropolis

di Fritz Lang); nelle contiguità che durante gli anni Venti e Trenta si stabiliscono tra cinema di ricerca e avanguardie artistiche (il «futurismo» sovietico di Ėjzenštejn, l’impressionismo francese di Epstein o Gance, l’espressionismo tedesco di Murnau, Wiene, Lang); nella teorizzazione del «cinema puro» e della fotogenia (ancora Epstein, sempre anni Trenta); nel Citizen Kane di Welles che riflette sui rapporti tra capitalismo e media e che esibisce la propria tecnica con straordinaria consapevolezza, e, poco prima dell’avvento delle nuove onde, nel neorealismo di Rossellini, nelle battaglie culturali affrontate dalle riviste di critica cinematografica del secondo dopoguerra (tra cui ovviamente è d’obbligo includere «Arts» e i «Cahiers du cinéma»).

del presente storico che coinvolge masse, realtà e informa zeitgeist (un uomo moderno) oppure come laboratorio di tecniche avanguardistiche che si sviluppa in un campo elitario del sapere, magari ideologizzato (un’arte moderna).

È esattamente a causa di questa irrequieta magmatica semiosica che si è preferito definire i vent’anni circa di fortuna dei «nuovi cinema» senza ricorrere ai termini del «moderno» o della «modernità» e preferendo loro viceversa quello semanticamente più delimitato di «modernismo». Sebbene non sia priva, anch’essa, di controindicazioni7, la locuzione ha il pregio di essere mutuata

da altri campi artistici all’interno dei quali indica, generalmente, fenomeni temporalmente e spazialmente circoscritti come lo sono, per citare alcuni casi, la letteratura modernista ispanica o inglese, l’architettura modernista catalana, il modernismo pittorico dell’Art Nouveau, ecc. In tal modo, s’intende circoscrivere l’evocativa di quest’ultimo lemma ai campi dell’espressione artistica e alle problematiche di natura estetica che essi sollevano, senza richiamare contestualmente – come capiterebbe se adoperassimo un concetto più trasversale come quello di «moderno» – costrutti affini (ma distraenti) come quelli di «nuovo», «innovativo», «progredito», «attuale», «alla moda». Come vedremo, nel modernismo odeporico i caratteri dell’avveniristico, dell’innovativo, della sperimentazione, della vogue, si disperderanno in rivoli di difficile individuazione, mescolati ad altre questioni topiche e ad altre pratiche relazionali che – come si accennava in precedenza – riguardano, ad esempio, il gusto per il primitivo, per l’ipo-tecnologico, per l’arcaico o il mitologico.

La sottolineatura dell’«-ismo» ha un altro doppio valore di merito. In prima battuta la presenza del suffisso rimarca la dimensione «astratta», dunque ricostruita, artefatta, ipotetica, del termine con cui s’intende definire e «periodizzare» (per quanto possibile) un episodio culturale piuttosto ampio. L’-ismo, parafrasando in modi diversi, nega ogni sua naturalezza o spontaneità e non cela i tratti arbitrari propri di ogni speculazione retrospettiva, proprio perché si presenta come categoria

7 La principale delle quali è sicuramente l’assegnazione del concetto, da parte di alcuni studi di area anglosassone, alla

sola età delle avanguardie cinematografiche. La ragione è sostanziale e non può essere ignorata: è infatti attorno agli anni Venti e Trenta che si sviluppano varie forme di modernismo, anche in ambito artistico e (seppure con scadenze leggermente anticipate) nell’ambito della letteratura. È sempre in questo periodo che l’illusione del progresso delle scienze e delle tecnologie, il mito della macchina e della velocità, i processi di automazione industriale, lo sviluppo urbano delle metropoli, conoscono una improvvisa accelerazione. Si è deciso nondimeno di assegnare il termine «modernismo» (anche) al cinema delle nuove onde, seguendo in tal senso una via già tracciata da altri studi come quelli già citati di Kovács e Aumont per rimarcare sia gli elementi processuali e dinamici del periodo studiato, sia l’intensificazione dei discorsi che si producono attorno e oltre la figura del regista odeporico, sia la forte destabilizzazione prodotta dall’esperienza del viaggio come elemento di trasformazione insito in un determinato fenomeno.

proposta a episodio concluso, ormai esaurito. In seconda battuta, il suffisso tende sì a individuare un fascio pertinente di pratiche che possono trasformarsi (o essere accorpate) in un movimento, una tendenza o una dottrina, ma lo fa indirizzando l’attenzione verso gli aspetti d’intensificazione o radicalizzazione del fenomeno descritto, tanto da dilatare (oltremisura?) i confini precedentemente segnati e da permettere – lo vedremo meglio nella parte conclusiva del lavoro – un possibile capovolgimento parossistico degli assunti. Gli autori «modernisti» saranno, in altre parole, quei registi che cercano di praticare una radicalità, che cercano di stabilire una distanza, che si offrono come latori di una differenza. È proprio per questa ragione che ci interessano: perché il desposito differenziante insito in ogni loro lavoro viene messo in discussione e forse ancor più in crisi quando la radicalità, la distanza, la differenza non saranno un loro segno distintivo ed esclusivo, ma saranno contrassegno peculiare delle popolazioni incontrate nel viaggio e delle situazioni in cui si troveranno a lavorare. Come reinterpretare un’identità così marcata, un posizionamento così chiaro quando la radicalità non è delle forme ma delle condizioni indigenti di vita del prossimo o quando la distanza che si crea non è da una certa idea di cinema ma dal primo telefono o dal primo giornale raggiungibile a piedi o in auto, o ancora quando la differenza non è di posizioni politiche ma di colore della pelle, lingua parlata, riti e religioni praticate?