Agli inizi del 1971, a pochi mesi dall’esperienza laotiana e dalla fine del montaggio di The People
and their Guns, il documentarista olandese Joris Ivens22 viene invitato – attraverso l’ambasciata
cinese a Parigi – a trascorrere un breve soggiorno ufficiale in Cina. È il mese di giugno quando Ivens
21 Come già capitato per le altre opere monumentali qui studiate, anche Comment Yukong déplaça les montagnes sarà
trattato in forma particolarmente sintetica, soprattutto per quanto riguarda il dettaglio delle sinossi dei dodici film di cui è composto. Le ragioni sono di natura essenzialmente «quantitativa»: ovvero si cercherà di contenere, per quanto possibile, ingombri altrimenti incontrollabili.
22 Occuparsi dei film asiatici di Ivens pone una serie di problemi di congruità e di pertinenza della ricerca. Come
ricordato nella prima parte del lavoro, abbiamo deciso di studiare i film di quei cineasti che possono essere assegnati alla categoria dell’«autore» modernista, categoria che si è detto essere piuttosto scivolosa, dunque di difficile afferrabilità, e che abbiamo deciso di declinare essenzialmente nell’ambito della riconoscibilità sociale e dell’autorevolezza estetica, artistica e sociale che i registi cui assegniamo tale «patente» possono vantare in un dato momento della loro carriera. Ivens è un esempio perfetto tanto dell’evanescenza del costrutto cui si fa riferimento, quanto della sua rilevanza nell’ambito delle pratiche di fruizione e consumo dei film. Da un certo punto di vista Ivens – in quanto documentarista che cerca di far parlare la realtà, la storia, i suoi protagonisti, tenendosi dietro i fatti, nascondendo per la maggior parte delle volte la sua presenza – non dovrebbe essere considerato un «autore», almeno non nel suo senso «romantico» ed estetizzante, ovvero come qualcuno che interviene nell’orizzonte di una narrazione insinuando uno sguardo soggettivo riconoscibile, costruito a partire da marche stilistiche o tematiche ben definibili. Da un altro punto di vista, però, la sua militanza comunista, la stagione avanguardista vissuta negli anni Trenta, le esperienze nei teatri di guerra di mezzo mondo, quelli nei paesi che hanno realizzato le più note rivoluzioni socialiste del Novecento (quella russa, quella cubana, quella cinese), lo trasformano poco per volta in un cineasta autorevole, riconosciuto, ammirato, figura emblematica di un certo modo partigiano di intendere il cinema e crocevia delle riflessioni che non pertengono solo l’ambito del documentario. Una piccola dimostrazione dell’attenzione che viene rivolta alla sua persona e al suo ruolo può giungere sfogliando le monografie a lui dedicate da metà degli anni sessanta, all’incirca dal suo sessantacinquesimo compleanno, in poi. Da Joris Ivens - Cinéma d`aujourd`hui (Parigi, 1963) di Zalzman a Kinorezisser Joris Ivens (Mosca, 1964) di Drobashenko, da Joris Ivens (Parigi, 1965) di Grélier a Joris Ivens, Dokumentarist der Wahrheit (Berlino, 1965) di Wegner, da Joris Ivens, revolutionair (Amsterdam, 1969) di Bertina a Joris Ivens, de weg naar Vietnam (Utrecht, 1970) di Meyer, da Joris Ivens, cinquant`anni di cinema (Modena 1979) di Gambetti a Il cinema di Joris Ivens (Milano, 1977) di Kreimeie, è un susseguirsi di testi monografici, biografici, autobiografici, critici, esegetici, aneddotici, libri-intervista sulla sua carriera, sul suo modo di lavorare, sui paesi visitati e gli eventi storici narrati. Sono testi che costruiscono Ivens come «autore», gli assegnano una nomea (quella dell’«olandese volante», o anche del cineasta «comunista») contribuendo così a renderlo il protagonista di una discorsività diffusa, capillare, intensa. D’altronde è difficile da confutare il fatto che egli acquisti progressivamente una notorietà pari a quella di altri grandi cineasti suoi contemporanei (Renoir, Rossellini, Hitchcock) e si ritagli un profilo di respiro internazionale, tale per cui gli è possibile conoscere e interloquire con personalità del calibro di Salvator Allende, Ho Chi-Min, Zhou En-lai e altri uomini di stato. Da qui una funzione autoriale che si esplica sia dentro i progetti documentaristici sia, soprattutto, nel fuori-film. Egli può girare in luoghi preclusi, di fatto, ad altri cineasti (il Laos, lo Xinjiang) e ha la possibilità di veicolare riflessioni, movimenti di opinione, battaglie politiche e sociali come pochi altri cineasti. Si pensi, solo per fare un esempio, al caso di Loin du Vietnam, nel quale la presenza di Ivens, ancorché appartata, è decisiva per mettere a disposizione del collettivo di cineasti che organizza la lotta cinematografica contro la guerra americana, testimonianze, immagini e informazioni di prima mano provenienti direttamente dal suo recente soggiorno in Vietnam. Anche per questa ragione, in questa sede, si è deciso di occuparci prevalentemente di quella parte del corpus registico – essenzialmente quella che inizia alla fine degli anni Sessanta e si conclude con la sua morte – in cui un Ivens anziano e ormai definitivamente «consacrato» fa valere la forza della propria presenza sul campo e in campo, ovverosia tanto nell’articolazione dei progetti di viaggio pericolosi e affascinanti (Laos, Vietnam, Cina) quanto nelle strategie di sua inclusione diegetica, in modo particolare nella sua ultima opera di semi-fiction, Une histoire de vent, dove egli di fatto diventa il protagonista assoluto della storia, recuperando in un sol colpo la tradizione della narrativa odeporica cinematografica incentrata su esperienze personali e su una realtà altra espressamente soggettivata da uno sguardo estetico.
e la compagna e collega Marceline Loridan, dopo una breve visita in Giappone, ospiti di un simposio sul documentario, atterrano a Pechino. Ad attenderli c’è nientemeno che Zhou Enlai, allora Primo ministro del Consiglio di Stato, che Ivens conosce fin dai tempi di The 400 Million (1939), quando aveva trascorso in Cina circa nove mesi per documentare le attività di resistenza della popolazione e dell’esercito cinese in piena guerra contro il Giappone. I rapporti tra i due si erano poi rinsaldati con i successivi soggiorni del cineasta olandese nel Paese di Mezzo, in modo particolare quello del biennio ‘57/’58, quando Ivens era stato consulente per la realizzazione di documentari statali e aveva tenuto alcuni corsi all’Accademia del cinema di Pechino.
Quando il cineasta olandese atterra a Pechino la Cina sta vivendo mesi particolarmente intensi e tesi dal punto di vista politico, presa com’è da violente lotte di potere che si combattono all’interno e all’esterno del Partito Comunista. Siamo nel pieno della Rivoluzione culturale anche se gli episodi più radicali e violenti di questa stagione storica possono considerarsi alle spalle: l’ascesa repentina del movimento delle Guardie Rosse è del 1966 (con tanto di raduni oceanici, scontri di piazza, l’occupazione e la chiusura forzata di molte istituzioni statali, tra cui uffici e scuole, l’arresto e la spedizione in campi di rieducazione dei membri di partito considerati «controrivoluzionari») mentre poco più di un anno dopo si registra l’altrettanto violenta sua repressione da parte dell’Esercito cinese, cui si aggiunge – sempre in un’ottica di soppressione delle fazioni politiche avverse e come prevenzione di nuovi episodi di rivolta – la politica di trasferimento coatto dei giovani inurbati nelle campagne o nelle fabbriche a scopo rieducativo. Con il nuovo decennio, le manifestazioni più recrudescenti sembrano lasciare il passo a una timida riorganizzazione statale e a un’apertura di nuovi contatti e relazioni internazionali dopo il brusco freno imposto dallo scoppio della Rivoluzione culturale. Zhou Enlai, a lungo Ministro degli Esteri durante gli anni Cinquanta, esponente tra i più «moderati» dell’establishment che affianca un sempre più anziano Mao Zedong, può essere considerato la figura più rappresentativa di questa nuova fase di distensione diplomatica, poiché è lui il silente regista della visita ufficiale di Nixon in Cina nel 1972 e di altre iniziative di scambio culturale come quella poi conosciuta con la definizione giornalistica «la diplomazia del Ping Pong»23. È a lui, come si accennava sopra, che si deve l’invito rivolto a Ivens di trascorrere alcune
settimane in Cina nel 1971 e la successiva proposta di realizzare un documentario sulla Cina della
23 Per un approfondimento sulle politiche estere cinesi durante il decennio della Rivoluzione Culturale si veda B.
Rivoluzione culturale che offrisse agli occidentali una rappresentazione più complessa, veritiera, articolata del grande Paese di Mezzo rispetto a quelle che erano state diffuse negli anni precedenti. Una proposta, in tal senso, simile a quella rivolta, più o meno negli stessi mesi, ad Antonioni, tramite l’intermediazione della Rai.
Come già il regista ferrarese, anche la coppia di documentaristi accoglie con entusiasmo la possibilità di lavorare in Cina, per di più nel bel mezzo di un periodo storico percepito in tutta la sua rilevanza internazionale, ma anche così poco conosciuto in Europa, almeno nelle sue conseguenze reali. Secondo quanto racconta Ivens nei suoi testi biografici e autobiografici, da cui attingeremo la maggior parte delle informazioni necessarie per questa nostra ricostruzione24, egli
inizia a lavorare alacremente al film fin dal suo ritorno in Francia, in prima battuta per raccogliere i finanziamenti necessari per avviare la produzione e poi per realizzare un piano di lavorazione ambizioso: raccontare la Rivoluzione culturale agli europei, colmando «il fossato d’incomprensione che separava gli Occidentali dai Cinesi»
Nelle mie intenzioni speravo che questo film sulla Cina trasmettesse un’informazione diretta da un paese verso un altro […] limitata dal linguaggio stesso del cinema, ma volevo appunto servirmi di questo linguaggio e dei suoi limiti per arrivare a un avvicinamento di quelle due realtà […]. Volevamo evitare gli stereotipi, gli esempi troppo perfetti, la rigidità degli interventi ufficiali, tutto ciò che in generale poteva interporsi tra noi e la realtà della vita quotidiana25.
Per raggiungere questo obiettivo, Ivens e Loridan scelgono di utilizzare un metodo di lavoro vagamente ispirato al cinéma-vérité, già frequentato dalla Loridan quando lavorava con Morin e Rouch26. Innanzi tutto preparano alcuni questionari con l’obiettivo di comprendere quali sono le
domande, gli interrogativi, le curiosità che il grande subcontinente desta nell’opinione pubblica francese. Durante un ciclo di conferenze dedicato proprio alla situazione della Cina svolto in diverse città della Francia, sottopongono il questionario ai partecipanti, raccogliendo e catalogando le risposte per temi e argomenti simili. Con in mano una sorta di sorta di mappa delle attese e delle
24 R. Destanque, J. Ivens, Joris Ivens ou la memoire d’un regard, Parigi, Editions BFB, 1982 (tr. it. Joris Ivens o la memoria di uno sguardo, Roma, Ente dello Spettacolo, 1988); D. Bickley, Joris Ivens filming in China, «Filmmakers Newsletter»,
Vol. X, n. 4, Febbraio 1977, pp. 22-26.
25 Destanque, Ivens, op. cit., p. 399-401.
26 Loridan partecipa a Chronique d’un été come autrice e intervistatrice. Sulla sua esperienza affianco a Rouch e Morin si
curiosità occidentali sulla Cina, scrivono un primo trattamento di poche pagine per indicare le linee guida del lavoro, focalizzare il soggetto del film, ragionare sul modo migliore per affrontarlo.
Il secondo soggiorno in Cina dura più di venti mesi e sono quelli necessari per la realizzazione della maggior parte delle riprese. Comincia nel marzo 1972 (il 19 marzo per la precisione) a pochi mesi dalla morte misteriosa in un incidente aereo di Lin Biao, braccio destro di Mao, capo dell’esercito e ispiratore del movimento delle Guardie Rosse, a lungo considerato come il successore del Grande Timoniere, ma poi accusato da quest’ultimo di aver tramato alle sue spalle per eliminarlo dalla scena politica, cercando di realizzare un (mai storicamente dimostrato) colpo di Stato. È utile ricordare questo episodio anche rispetto all’esperienza ivensiana perché segnala la precarietà e la volubilità della situazione politica di quegli anni che, se possibile, sarebbe peggiorata fino a diventare imprevedibile con l’aggravarsi delle condizioni di salute di Mao, l’accentramento di potere realizzato dalla cosiddetta Banda dei Quattro, la marginalizzazione, la malattia e poi la morte, nel 1976, di Zhou Enlai, che tra l’altro precederà di poche settimane quella dello stesso Grande Timoniere.
Per Ivens, ancor più che per Antonioni, realizzare un film in Cina diventa un’impresa per certi versi proibitiva, resa paradossalmente più difficile dalle simpatie e dalla partecipazione emotiva e intellettuale che il regista mostra, da sempre, per il maoismo. Da quanto emerge dai suoi racconti, i problemi che sorgono durante i mesi di soggiorno a Pechino e dintorni sono di diversa natura. Innanzitutto di natura tecnica: se, infatti, gli strumenti di lavoro utilizzati (come macchine da presa, registratori sonori, impianti d’illuminazione) sono stati acquistati dagli stessi Loridan e Ivens in Francia e dunque sono di buona fattura, coloro che li dovrebbero usare, ovvero le maestranze cinesi, si trovano immediatamente in difficoltà per acquisire conoscenze e familiarità con una strumentazione che non conoscono e con metodi di ripresa che non hanno mai praticato. L’operatore di macchina, ci racconta per esempio Ivens, non ha alcuna esperienza con il formato in 16 mm. e con il suono sincrono, non è abituato a usare la camera a spalla, né a pensare a riprese in continuità, ovvero di durate tali da trasformare un’inquadratura in un long take o in un piano sequenza. Come se non bastasse, la maggior parte della troupe non conosce il francese e la comunicazione si fa pertanto difficile. Il risultato, stando sempre alle narrazioni autobiografiche del
cineasta olandese, è una serie imprecisata di riprese inutilizzabili, o perché male fotografate, o perché mal registrate, o perché troppo brevi, o perché troppo distanti dall’oggetto della rappresentazione.
In seconda battuta, già dopo le prime settimane, iniziano a presentarsi diverse difficoltà di natura organizzativa, legate alla situazione politica e sociale del paese. Ivens spende diverse pagine dei suoi scritti per descrivere il generale atteggiamento ostruzionistico delle istituzioni locali con le quali la troupe deve negoziare l’allestimento delle riprese (un assaggio di tali situazioni si vedrà nel successivo film «cinese» di Ivens, Une histoire de vent). I responsabili locali del partito sono, infatti, propensi a preordinare situazioni artefatte, abbellite e «politicamente corrette» a uso e consumo della troupe, così da offrire un’immagine positiva e inattaccabile della Cina comunista.
Fin dal principio fummo posti di fronte a uno stato di fatto: c’erano situazioni che potevamo filmare, situazioni che non potevamo filmare e soprattutto situazioni che dovevamo filmare assolutamente. In generale erano queste che il più delle volte ci erano proposte e che noi volevamo evitare per la semplice ragione che si trattava di scene convenzionali, palesemente organizzate a nostro uso e consumo e che non corrispondevano a ciò che volevamo mostrare della Cina. […] Ovunque andassimo avevamo diritto al mercato locale, alla festa locale, alla strada principale, agli edifici ufficiali. Tutto il resto era, non vietato, ma inaccessibile «perché», ci dicevano i nostri organizzatori, «tenuto conto del vostro programma, ci sono tante cose da fare che è meglio cominciare dalle più importanti». Quando ci spostavamo per portarci con la troupe in uno dei luoghi delle riprese, non c’erano mai meno di cinque o sei autovetture ufficiali che ci precedevano e ci seguivano con tutti i nostri accompagnatori. Ci restava appena la possibilità di scegliere il nostro angolo di ripresa. […] Era insopportabile27.
Un terzo problema, legato indissolubilmente a quelli precedenti, riguarda l’impossibilità di intavolare confronti chiari e comprensibili con le persone che i cineasti incontrano e decidono di intervistare. Non è solo una questione di traduzione. La poca libertà di espressione generalmente concessa ai cittadini cinesi, il timore di incappare in affermazioni lontane dalle parole d’ordine in quel momento avallate dal partito (parole e campagne politiche che peraltro cambiano quasi di mese in mese rendendo di fatto impossibile comprendere quanto ortodosse siano le posizioni espresse in pubblico e per quanto tempo lo rimarranno), l’indottrinamento subito durante gli anni della Rivoluzione culturale, trasformano le repliche degli interlocutori in una collezione di vuoti slogan propagandistici, in modo particolare quando innanzi ai registi si presentano professori, studenti, intellettuali che lavorano nelle università o che presenziano proiezioni pubbliche, incontri, riunioni
di partito eccetera. Conoscendo la militanza comunista e la simpatia per i cinesi di Ivens, le sue parole di biasimo nei confronti di queste forme di stupido e vuoto indottrinamento, pur espresse anni dopo Yukong quando ormai il profilo di tragicità e obnubilazione della Rivoluzione Culturale aveva acquisito un contorno più netto, rendono la testimonianza particolarmente significativa.
I primi quattro mesi trascorsi in Cina – da marzo a giugno 1972 – sono considerati da Loridan e Ivens improduttivi: in parte servono per formare le maestranze alle tecniche di ripresa e ai metodi di prossimità abituali di Ivens, in parte trascorrono nell’attesa di rinegoziare con le autorità politiche di Pechino condizioni di lavoro meno disagevoli. Il 26 agosto la troupe parte per lo Xinjiang, dove si è deciso di visitare e riprendere le comunità degli Uiguri e dei Kazaki, da sempre inaccessibili agli stranieri. Le esperienze nel nordovest della Cina sono a dir poco frustranti e fallimentari a causa dell’impossibilità di realizzare riprese autonomamente, senza che le autorità abbiano già predisposto le situazioni da inquadrare. Il ritorno nella capitale avviene più di un mese dopo, in occasione delle celebrazioni del 1 ottobre, anniversario della Rivoluzione. Ivens, colpito da una malattia che lo costringe per alcuni giorni in ospedale e disperato perché impossibilitato a lavorare com’è abituato, approfitta del momento di sosta forzata per scrivere una lettera accorata e documentata a Zhou Enlai (il quale per ovvie ragioni non può seguire in prima persona la lavorazione del film) con l’obiettivo di ottenere collaboratori in grado di meglio predisporre la fase del tournage e di negoziare con maggior autorevolezza le condizioni di lavoro con i soggetti politici sparsi nel territorio. Secondo quanto racconta il cineasta, dopo una snervante attesa durata quasi due mesi, i suoi desiderata vengono in qualche modo esauditi grazie all’assunzione di un nuovo segretario di produzione così valutato dal documentarista: «[Egli è] di tutt’altra tempra della nostra ex- organizzatrice […] Conosc[e] perfettamente la Cina e gli Occidentali e [ha] tutte le qualità richieste per essere il nostro intermediario presso i funzionari e i responsabili dello Stato e del Partito».
Dopo i primi quattro mesi trascorsi tra riprese di bassa qualità, stand by e difficoltà di ogni genere, la produzione finalmente accelera ritmi di lavoro e ne migliora sensibilmente la qualità. Dopo diverse settimane trascorse a Pechino, iniziano nuove «spedizioni» in diverse province cinesi. A gennaio del 1973 la troupe arriva a Shanghai dove vengono realizzate le riprese di ben tre lungometraggi (uno sulla città, uno sulla vita di una farmacia e un terzo su una fabbrica di generatori). Concluse le riprese, il gruppo si trasferisce qualche centinaio di chilometri più a nord, a
Nanjing, dove per quattro settimane vive in una caserma militare, a stretto contatto con soldati, ufficiali e possibili «segreti militari». L’estate vede la troupe impegnata nello Shandong, in un villaggio di pescatori che si affaccia sulle coste del Mar Giallo, mentre in autunno Ivens e i suoi collaboratori sono a Daqing, ancora più a nord, condividendo questa volta spazi di vita e di lavoro con i lavoratori di un’industria petrolifera di Stato28. Poi, sul finire dell’autunno, il ritorno a Pechino
dove vengono ultimate le parti del film su alcune attività artigianali della città.
Finalmente in un clima di maggiore partecipazione, Ivens e Loridan procedono con le riprese e i viaggi per più di un anno, fino al dicembre del 1973 quando la coppia, raccolta la maggior parte del materiale audiovisivo necessario, decide di tornare in Francia per la fase di postproduzione, realizzata a Parigi, dunque senza alcun controllo diretto delle autorità cinesi. Come già era accaduto a Rossellini e a Malle, il materiale girato durante il viaggio si accumula fino a raggiungere una mole considerevole. Nei suoi scritti Ivens parla di centoventi ore di girato che si riducono a un primo montaggio a circa trenta, comunque troppe per qualsiasi eventuale distribuzione, cinematografica o anche solo televisiva. Il periodo di elaborazione del montato, come successo a Malle per il suo Inde
Fantôme, si dilata: saranno diciotto, alla fine, i mesi trascorsi da Ivens alla moviola per ridurre
sensibilmente le ore di ripresa fino alle definitive dodici. Comment Yukong déplaça les montagnes, titolo ispirato a una celebre leggenda cinese citata più volte da Mao per esaltare la forza di volontà delle masse comuniste, si compone, così, di dodici documentari tra loro narrativamente autonomi. Ognuno di essi racconta una particolare realtà sociale della Cina e può essere visto senza seguire un ordine prestabilito. Sette sono lungometraggi e s’intitolano Autur du pétrole: Taking (84’), Une